Torna alla homepage

Sagarana La Lavagna Del Sabato 11 Ottobre 2014

INTERVISTA A RAJA SHEHADEH



Raja Shehadeh


INTERVISTA A RAJA SHEHADEH



Il pallido dio delle colline è il libro in cui Shehadeh prende per mano il lettore e lo accompagna attraverso la storia e il paesaggio della Cisgiordania, per scoprire una terra di imprevedibile bellezza, e attraverso questa scoperta, la tragedia delle perdita e dello sradicamento di un intero popolo.
 
 
 

Ci sono tanti modi per raccontare la storia di una terra, e tanti linguaggi attraverso cui esprimere un’emozione; ognuno sceglie quello che sente più appropriato alla sua personale indole, o alla sua particolare battaglia. Non è tuttavia frequente che la stessa persona scelga di utilizzarne due tanto diversi tra loro quanto lo possono essere il linguaggio della giurisprudenza e quello, più sfumato ed emotivo, della letteratura. È ciò che ha fatto Raja Shehadeh, uomo di legge e scrittore: il fi sico minuto e solido di chi ama le lunghe camminate, un aspetto al tempo stesso pacifi co e caparbio tanto da richiamare alla mente l’iconografi a gandhiana. Da anni protagonista delle lotte legali per la difesa degli abitanti della Cisgiordania espropriati delle terre per dare spazio agli insediamenti dei coloni israeliani, si è conquistato la fama internazionale non solo con le sue arringhe ma anche con alcuni libri in cui il linguaggio diventa lirico e profondamente letterario. Il pallido dio delle colline è il più famoso.

È il libro in cui prende per mano il lettore e lo accompagna attraverso la storia e il paesaggio della Cisgiordania, per scoprire una terra di imprevedibile bellezza, e attraverso questa scoperta, la tragedia delle perdita e dello sradicamento di un intero popolo. “Sono nato a Rāmallāh in una casa vicina alle colline; le colline erano sempre sullo sfondo; in un certo senso, le colline lungo tutta la mia infanzia hanno rappresentato il giardino di casa, il luogo in cui andavo a camminare, a giocare, a fare merenda.

Quando ho cominciato a crescere, nei primi anni Sessanta, per diversi motivi queste colline hanno smesso di essere coltivate, e perché il sistema utilizzato era quello dei terrazzamenti, che proteggeva il suolo dall’erosione, l’abbandono ha cominciato a modifi care profondamente il paesaggio. Prima era caratterizzato dalle viti, dagli ulivi, dai grandi alberi; tutto attorno, le colline erano punteggiate da case di pietra che venivano adoperate sia come magazzino per il raccolto sia come ricovero per gli animali. Poi tutto è cambiato”.

Quello che Shehadeh descrive è un paesaggio naturale, ma è anche il luogo di una sorta di ‘epica familiare’: “quand’ero piccolo sentivo spesso parlare di un mio bisnonno che aveva passato i giorni migliori della sua vita su queste colline – una persona molto particolare di cui parlo a lungo nel libro; assieme all’amore per questo paesaggio, attraverso questi racconti ne ho assorbito anche una sorta di mistica, una leggenda familiare. Così, negli anni ho cominciato a fare delle lunghe escursioni, seguendo la tradizione della sarha: lunghe camminate che hanno come caratteristica quella di lasciarsi guidare dal caso e dal proprio istinto, senza un particolare scopo o una destinazione prefi ssata. È un modo di seguire il proprio spirito e di disintossicarsi dalle fatiche della vita. Ma agli anni in cui ho potuto praticare questa tradizione di vagabondaggi fisici e spirituali, sono seguiti quelli dell’occupazione iraeliana, e tutto si è fatto più diffi cile e drammatico; il percorso era ormai reso impossibile da sempre nuove interruzioni, imponenti costruzioni, recinti, muri, posti di blocco. Anche la natura delle colline stava cambiando, e un tipo di paesaggio stava scomparendo per sempre. Il mio libro è nato proprio da questo: è il tentativo di salvare con le parole, fissandolo nella memoria, ciò che la terra stava perdendo”.

Quella di Shehadeh è una storia personalissima e al tempo stesso emblematica: “la mia famiglia apparteneva al poverissimo ambiente contadino di Rāmallāh”, racconta, “un mondo che traeva il suo sostentamento dalla natura, e la cui fortuna era in balia della pioggia”. All’inizio del Novecento, seguendo la nuova sensibilita`, i più giovani scelsero di emigrare per acquisire un’educazione: “partirono tutti per l’estero, lavorando per pagarsi gli studi, e riuscirono a conseguire livelli molto alti di istruzione; fra quelli che fecero ritorno in Palestina, tuttavia, nessuno si stabilì nuovamente a Rāmallāh. Uno divenne editore a Gerusalemme, un altro, mio nonno, diventò giudice a Jaff a, nei tribunali amministrativi del Mandato britannico, e così via”. Entrambe le famiglie dei suoi genitori provenivano da Rāmallāh, ma loro erano nati a Jaff a, la ricca citta` sulla costa, e lì erano cresciuti, si erano conosciuti e sposati: “mio padre era un avvocato, e la mia famiglia aveva mantenuto una casa a Rāmallāh, perché d’estate a Jaff a il clima era molto caldo e umido. Allo scoppio della guerra, nel 1948, i miei genitori decisero di spostarsi nella casa estiva e di aspettare lì che le cose si sistemassero. Appartenevano ormai a un ceto di professionisti, che quasi non ricordava il proprio legame ancestrale con questa terra; ma io sono nato a Rāmallāh, e per me la scoperta di questo rapporto diretto è stata un’esperienza formativa fondamentale”.

Terra riscoperta e al tempo stesso terra perduta: “dopo la pubblicazione del libro, molti amici e conoscenti mi chiesero di accompagnarli in una delle camminate sulle colline che avevo descritto, e ho lentamente realizzato come le ultime generazioni siano cresciute dimenticando le proprie radici. In queste occasioni li vedevo riscoprire una dimensione che avevano rimosso da loro stessi: quella del legame profondo con la terra delle proprie origini. Questo distacco non era naturalmente casuale, ma funzionale alla politica dello Stato israeliano, che cercava di recidere le radici dei palestinesi emigrati all’estero o nelle citta`, confi scando loro i terreni agricoli degli avi”.

Nel 1979 Shehadeh fonda, insieme a un gruppo di giuristi palestinesi, Al-Haq, la prima associazione per la difesa dei diritti civili sorta in territorio palestinese: “come avvocato ho scritto molti libri e articoli a proposito dei problemi dei territori occupati, ma come scrittore ho voluto comunicare altri aspetti, e in primo luogo la bellezza di questa terra. Ho dovuto lottare molto con la scrittura, perché volevo che il lettore potesse immergersi davvero in questi luoghi, e capirne il valore e la sostanza. Il pallido dio delle colline parla della mia terra, ma anche della mia vita. Vede, io vengo dalla terra di cui parla la Bibbia, e nella Bibbia sono descritti diversi paesaggi con diversi signifi cati e diverse atmosfere: c’è il deserto come luogo dell’espiazione, ma c’è anche l’oasi, il terreno coltivato, il verde delle colline. In un certo senso ho cercato di utilizzare le stesse tecniche: ho messo anche la bellezza del paesaggio più arido e scabro, che è molto diff erente dalla bellezza delle colline in cui il racconto ha inizio; nel libro i diversi paesaggi diventano modi diversi di raccontare la mia storia personale e la storia politica del mio Paese”.

Un libro che cerca dunque di raccontare il passato e il presente di un paesaggio naturale e umano, ma che lascia aperto anche un interrogativo sul futuro. “Oggi la Palestina è attraversata da un’infi nita` di muri: ci sono i muri che frammentano e dividono la terra, ma soprattutto i muri che circondano i cuori di chi la abita, e tutto sembra dominato dalla follia. Ma questa tragedia prima o poi dovra` fermarsi, e allora sara` necessario creare una nuova modalita` di relazione tra tutti i popoli che abitano questo regione. Mi viene da pensare a ciò che è successo in Europa dopo la Seconda guerra mondiale, e al processo che ha portato paesi che si erano combattuti con estrema violenza a percorrere una strada verso una nuova unione. Io non so se abiterò ancora questa terra, ma credo che inevitabilmente, prima o poi, questa regione tornera` ad essere in qualche modo unita”.





A cura di Sergio Bestente





    Torna alla homepage home