La Lavagna Del Sabato 27 Settembre 2014 L’IDEOLOGIA CONTINUA. INTERVISTA A SLAVOJ ŽIŽEK Giulio Azzolini «Scusi, ho parlato troppo». All’improvviso Slavoj Žižek tace. Aveva rotto il ghiaccio con una storiella sulle sottili differenze che tormentano la sinistra. Il suo inglese prorompe scandito da un’inconfondibile esse blesa, il tono è grave, il volume alto. È appena tornato dalla Corea, ma rimarrà nella sua Lubiana solo qualche giorno. «Ora mi toccano gli Stati Uniti, poi la Bolivia. Adoro viaggiare e tutto ciò che mi serve sta nel mio computer. Per divertirmi inoltre guardo un sacco di film, anche se oggi sono stanchissimo per il trasloco…». I libri ingombrano. «No, è che un mesetto fa mi sono sposato». Il primo matrimonio? «Il quarto. Lei è più giovane di me, fa la giornalista culturale». Bene. «Con le mogli precedenti, però, conservo un ottimo rapporto». Žižek è «misantropo», dice. E pure «un vecchio stalinista», aggiunge scherzando a metà. Detesta le filosofie del dialogo, ma chiacchiera con entusiasmo e garbo impeccabile. Esce in Italia la prima parte di Meno di niente (ed. Ponte alle Grazie, pagg. 496, euro 29), il suo monumentale saggio dedicato a Hegel. «La più grande impresa della mia vita», ha dichiarato. Perché? «Oddio, in effetti messa così suona abbastanza grottesco. Volevo soltanto dire che ricapitola, in qualche modo, tutto il mio lavoro. Forse non è il mio libro migliore, ma di certo provo a chiarire le mie posizioni filosofiche e ontologiche fondamentali, anche se qui e là non manca qualche barzelletta sporca. Non riesco a sopravvivere senza». È strano perché i suoi libri sono talmente divertenti e ricchi di aneddoti da averle assicurato l’epiteto di “Elvis della filosofiaˮ, ma il suo pensiero affonda le radici nei classici: la dialettica di Hegel, la critica dell’economia politica di Marx, le categorie psicoanalitiche di Lacan… «Assolutamente. Mi fa piacere lo abbia notato. La gente crede che io mi diverta a giocare al postmoderno. Nulla di più falso. Il relativismo storicista postmoderno mi annoia parecchio e, anzi, è il mio nemico numero uno. Il mio amico Gianni Vattimo, per esempio, è troppo postmoderno per me, non mi convince. Oggi tutto è diventato analisi del discorso e quasi nessuno si azzarda più a porre i grandi interrogativi, metafisici se vuole. Tanto che, ai miei occhi, la miglior filosofia del dopoguerra rimane lo strutturalismo di Althusser, Deleuze, Lacan… Non parliamo dell’arte, dove le vere conquiste dell’Europa risalgono a un secolo fa, o più: Mallarmé nella poesia, Stravinskij e Schönberg nella musica, Kandinskij e Malevič nella pittura. Penso che il modernismo sia stato il vero grande momento. Sì, esistono opere interessanti qui e là nell’arte postmoderna, ma non sono equiparabili. E la stessa nostalgia la provo nella musica rock, sono un reazionario dei primi anni Settanta. Per la precisione, penso che tutto ciò che di importante è successo nella musica rock sia accaduto tra il 1965 e il 1975 (Beatles, Rolling Stones…) e che dopo sia stata soltanto una ripetizione. Quando mi capita di ascoltare uno come Michael Jackson, basta un attimo e mi trasformo in Joseph Goebbels. Mi viene da pensare che Goebbels sbagliava quando si mise in testa di bruciare i libri, ma non per il fatto in sé: il punto è che voleva bruciare i libri sbagliati. Magari fosse sparita la musica di Michael Jackson!» (ride). Nel 1975 lei completa la sua tesi in filosofia sullo strutturalismo francese. Sei anni dopo arriva a Parigi, dove studia psicoanalisi con Jacques-Alain Miller… «Sì sì. Come le dicevo, penso ancor oggi che i migliori risultati raggiunti dalla filosofia nel dopoguerra provengano da quella corrente che ai tempi chiamavamo strutturalismo. La maggior parte di ciò che è venuto dopo è stato un gioco, un passo indietro, una sorta di relativismo storicista che lascia svanire le grandi questioni ontologiche. Oggi che tutto si è ridotto ad analisi del discorso, se uno chiede: “l’uomo ha un’anima?ˮ, la tipica risposta postmoderna sarà: “Si può affermare soltanto in quale regime di discorso è legittimo porre una domanda del genereˮ. Come se non restasse altro da fare che portare alla luce l’orizzonte di significato entro cui certe affermazioni sono comprensibili… E se poi si insiste: “Ok, ma è vero o no che l’uomo ha un’anima?ˮ, il postmodernista replicherà: “È una domanda metafisica priva di significatoˮ. Ecco la ragione per cui oggi la filosofia ha perso così tanto credito popolare, lo stesso che ha guadagnato la scienza. La gente si rivolge ai darwinisti o al biologo Richard Dawkins, al cosmologo Stephen Hawking o al neuroscienziato Steven Pinker, proprio per rispondere alle grandi domande metafisiche, come: l’uomo è libero? l’universo ha un inizio e una fine? la storia è casuale o nasconde un destino?». Sì, gli scienziati assumono sempre più la veste dei guru. Ma i postmodernisti non sono tutti relativisti e storicisti: Fredric Jameson, per esempio… «Fredric Jameson è troppo postmoderno per me. È un buon amico, è marxista, ma penso che anche lui sbagli quando lascia cadere la distinzione tra ideologia e scienza. Sa qual è il dogma del postmoderno? Che il mondo sarebbe il prodotto dell’auto-narrazione di chi vi appartiene. Non mi convince. Io credo nella verità, ma non in una verità naïf. In un certo senso accetto la premessa della filosofia del linguaggio, ossia che i limiti del linguaggio sono i limiti del mondo, ma qui c’è un paradosso piuttosto raffinato. Sì, la verità si esprime attraverso il linguaggio, ma solo se questo arriva a combattere contro se stesso. Nel libro cito una frase di quella scrittrice austriaca, Elfriede Jelinek, che mi sembra bellissima. Lei è folle, non mi piace per niente, ma questo pensiero sì: “Bisogna torturare il linguaggio affinché esprima la veritàˮ. Di per sé, il linguaggio è una macchina naturale che produce stupidità a valanga. Il linguaggio va torturato, bisogna snaturarlo, estenderlo e condensarlo, tagliarlo, riassemblarlo. Ecco perché tutti i grandi filosofi, come gli scienziati, sono in qualche modo dei poeti: perché per esprimere ciò che vogliono distorcono il linguaggio ordinario». Gilles Deleuze ripeteva spesso un’idea simile. Gli piaceva citare il Mandel’štam del «balbettio della lingua», ma anche Proust che invece suggeriva di «abitare la propria lingua come uno straniero»… «Mi piace Deleuze. Non è affatto un postmodernista. Deleuze è anzi il vero genio della filosofia francese, più di Derrida. Comunque, dicevo, bisogna lottare dentro il linguaggio contro il linguaggio. Da questo punto di vista, non sono per niente postmodernista. Sì, viviamo dentro il linguaggio, ma questo non ci obbliga a lasciare che esso parli al posto nostro. Come spiegare? Mi ha sempre appassionato la rivalità del Rinascimento italiano tra Raffaello e Michelangelo. Raffaello, come Mozart, era un genio naturale. Gli bastava mettere il pennello sulla tela, e via, andava da solo. Michelangelo, invece, combatte contro la pietra, soffre nella creazione. Penso che la verità sia questo, resistenza. La verità dell’arte non è la realtà dell’immagine da osservare, ma l’antagonismo che produce la trasformazione dei materiali. Per questo chi dice la verità non viene capito subito, perché lotta per trovare il linguaggio appropriato per articolarla». Nel 1945 Karl Popper presentava Hegel come il profeta del totalitarismo. Lei, invece, riabilita l’idea di totalità. Perché? «Che la nozione filosofica di totalità sia il germe del totalitarismo politico è un’idiozia che ha contagiato anche Levinas e Adorno. Io penso il contrario. Se si esamina scrupolosamente ciò che Hegel intende per totalità, si capisce che non indica affatto un ordine ideale dove ogni cosa è in pace con se stessa. Osservare un fenomeno nella sua totalità significa, all’opposto, abbracciare nel suo concetto tutte le lacerazioni, i fallimenti, i conflitti. E totalità significa anche che non ha senso giocare a quel vecchio gioco che ancora si applica al marxismo quando si dice: l’idea era buona, ma in Russia lo stalinismo l’ha applicata male. No. Quando un’idea viene applicata nel modo sbagliato, la possibilità del “tradimentoˮ va rintracciata nell’idea in quanto tale. Non si può risolvere ogni problema tirando sempre in ballo le circostanze. Gli eventi sono contingenti, ma una volta accaduti diventano necessari. La necessità, hegelianamente, è retroattiva. E sia chiaro, non è che sto celebrando lo stalinismo, penso solo che ancora non disponiamo di una buona teoria dello stalinismo. Le critiche del liberalismo conservatore (Robert Conquest, Simon Montefiore…) contengono parecchio materiale, ma non riescono a svelare l’enigma dello stalinismo. Com’è stato possibile l’arcipelago Gulag? Il liberalismo standard ragiona così: la gente era indiavolata, spietata, assatanata di potere. Ma, semplificando, l’orrore dello stalinismo non consiste nel fatto che persone cattive fecero azioni cattive: il punto è che anche gente sostanzialmente perbene finì per compiere gesti orribili. Sa, io adoro il fisico quantistico Steven Weinberg – sì, è troppo ostile alla religione e, sebbene io sia ateo, riconosco che c’è qualcosa di buono nella cristianità –, ad ogni modo lui un giorno disse: “se non ci fosse la religione, la gente perbene si comporterebbe bene e la gente cattiva male, ma abbiamo bisogno della religione affinché la gente perbene si comporti maleˮ. Per convincere la gente comune che si può uccidere o compiere le peggiori nefandezze, infatti, serve una motivazione molto forte, come la seduzione religiosa. Ora, da dove trae questo fondamentalismo lo stalinismo? Il fascismo è più facile da spiegare, è la semplice conservazione della modernità a cui si aggiunge l’antisemitismo, lo conosciamo tutti. Infine, mi lasci aggiungere un punto cruciale. Non conosco la situazione italiana, ma so che in tutta l’Europa – in Inghilterra, in Francia e specialmente nei Paesi postcomunisti – le convinzioni stanno cambiando, non sono più le stesse del dopoguerra. Oggi c’è la tendenza a equiparare fascismo e comunismo sotto l’insegna unica del totalitarismo. Per Ernst Nolte, siccome i campi di concentramento dall’Unione Sovietica precedevano quelli di Hitler, il comunismo è anche peggio. No, io penso che questo sia un grande travisamento della storia del ventesimo secolo. E non che lo stalinismo fosse buono, ma la mistificazione di oggi è terribile». Il suo libro si intitola Meno di niente. Perché? «Avrà notato l’ironia… Beh, a giudicare dal peso, “meno di nienteˮ di certo non si riferisce al libro! Eppure il titolo è tornato inaspettatamente attuale negli ultimi tempi, perché, come sa, Peter Higgs ha vinto da poco il premio Nobel per la fisica. E io nel libro dedico un lungo capitolo alla fisica quantistica, dove assumo proprio la particella di Higgs come esempio di “meno di nienteˮ. Dal punto di vista ontologico, essa è letteralmente meno di niente. Per la verità, l’origine di quest’idea di un “menoˮ che tuttavia non è “nullaˮ ho provato a rintracciarla in Democrito. Questo è il cuore del progetto: voglio mostrare come sia antica la genesi della negatività hegeliana, che poi rimane nella fisica quantistica e nella psicoanalisi. È un po’ difficile, mi rendo conto». Ma lei decostruisce anche un altro concetto che a Hegel, filosofo della fine della storia, è costato innumerevoli critiche, quello di riconciliazione. «Assolutamente. Anche questo è un punto cruciale. Riconciliazione non è sinonimo di armonia globale. Io penso che la riconciliazione hegeliana non significhi affatto la pacificazione della lotta. Ogni lettore attento sa che la riconciliazione hegeliana non cancella il caos e non annulla la dialetticità del mondo ma sancisce piuttosto il suo costitutivo antagonismo. Non è un caso se nella Filosofia del diritto Hegel sostiene la necessità della guerra. Hegel non è un razionalista da quattro soldi, non è uno stupido idealista, è al contrario il grande filosofo della contingenza. Per lui la stessa necessità emerge sempre dalla contingenza». Nel 1906 Benedetto Croce distingueva “ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegelˮ, lei invece si domanda come si possa essere ancora hegeliani oggi. Perché? «Essere hegeliani oggi significa includere nell’analisi del capitalismo contemporaneo le crisi, gli orrori, le guerre. Fa tutto parte della stessa totalità di cui parlavamo prima. Ma vede, la più grande novità degli ultimi decenni è una sorta di versione liberale di Hegel. Quand’ero giovane, a parte rare eccezioni, le interpretazioni di Hegel si riducevano a due, una di destra e una di sinistra: o il teorico dello Stato assoluto o il filosofo della negatività e della rivoluzione. Negli ultimi trent’anni, invece, con Pippin (che è un ottimo filosofo), McDowell, Brandom e altri, è esplosa l’immagine di un Hegel centrista, liberale. Penso sia questo il cuore dell’hegelismo anglosassone, che legge Hegel come il filosofo del mutuo riconoscimento. E lo spazio per eccellenza dove ciascuno ha diritto di essere riconosciuto come individuo è la società liberale». Però anche Axel Honneth, l’attuale Direttore della Scuola di Francoforte, presenta Hegel come filosofo del riconoscimento… «Sì, ma non i vecchi francofortesi. L’Adorno della Dialettica negativa non avrebbe mai detto una cosa del genere. È stato Habermas, che mi sembra molto più kantiano che hegeliano, a imprimere una svolta liberale alla Scuola di Francoforte. Habermas fa una lettura kantiana di Hegel». Ma qual è, in poche parole, il cuore della sua critica all’hegelismo liberale? «Il fatto è che tende a cancellare un aspetto fondamentale di Hegel: la sua grande logica metafisica. Assume Hegel come un semplice pensatore sociale. Un filosofo rarefatto, ingentilito, deflazionato. Io sono per un Hegel forte». A proposito di letture forti di Hegel, non abbiamo ancora parlato di Marx… «Ho grande rispetto per lui e, in un certo senso, sono marxista. Ma, come emerge dal libro, propongo in qualche modo di tornare da Marx a Hegel. Prima di tutto, perché penso che Marx – ed è il paradosso che provo a sviluppare – sia troppo idealista. In fondo Marx crede ancora in un’evoluzione storica che l’avanguardia del proletariato, che è il suo agente storico, conosce e realizza. Un discorso del genere, la marcia necessaria della storia verso il comunismo, sarebbe sembrato troppo astratto a Hegel». La storia non è finita, non è stata riconciliata. «No no. E, paradossalmente, Hegel è anche più concreto di Marx, proprio perché, a differenza di quanto fa costui col proletariato, non attribuisce ad alcun soggetto sociale il potere di conoscere la direzione della storia e agire come suo strumento. Hegel lo dice chiaro e tondo: “la nottola di Minerva spicca il volo al tramontoˮ. Ovvero, la filosofia può solo interpretare il passato, non giustificare o legittimare il futuro. E oggi ci troviamo esattamente in questa condizione: radicalmente aperta, impenetrabile alla teleologia, insomma, molto più hegeliana che marxiana. Per questo mi piace Walter Benjamin». * * *
La storia non ha placato l’antagonismo, d’accordo, ma come interpreta la diffusione dei governi di larga coalizione in Europa? «È l’esito prevedibile del vecchio bipolarismo. Qual è stata la tipica geografia politica del dopoguerra? Il dominio di due grandi partiti, uno di centrosinistra e uno di centrodestra: in pratica, socialdemocratici e cristianodemocratici, socialisti e liberal-conservatori». I governi di larga coalizione sarebbero, dunque, l’epitome di una lunga traiettoria? «Sì. E poi ci sono piccoli partiti, piccole frange agli estremi. Oggi tutti i grandi partiti, di destra e di sinistra, sono le due facce di un unico centro. E così i partiti populistici anti-immigrazione stanno diventando la seconda forza ovunque. Guardi la Germania, ad esempio. Il programma economico dei socialdemocratici è sostanzialmente indistinguibile da quello di Angela Merkel, ma lo stesso succede nella Francia di François Hollande. La distinzione politica tra centrodestra e centrosinistra fatica a tenere. Soprattutto perché è sempre più evidente che il capitalismo liberaldemocratico sta raggiungendo i suoi limiti. La politica continua a concepire se stessa secondo gli schemi mainstream, ma non penso che andrà avanti all’infinito. Su questo sono pessimista: non penso che possiamo andare avanti solo con piccoli miglioramenti. No. E credo inoltre che la vera tragedia sia questa: si protesta in tutta l’Europa, non solo in Grecia, ma in Francia, in Inghilterra, in Spagna, per una crisi dovuta alle grandi banche private, eppure la sinistra è ancora impotente». Come mai nemmeno una fase di spaventose disuguaglianze procura consenso alla sinistra? «La sinistra manca di visione globale e, se non bastasse, non ha uno straccio di programma alternativo alla spesa pubblica. La gente protesta ovunque e l’unica risposta è la promessa di un revival neo-keynesiano. Franco Berardi (non sempre sono d’accordo con lui) ha scritto belle cose su questa condizione di impotenza della sinistra, che non riesce a comprendere l’attuale “universalità concretaˮ». Nessuna fiducia nella micropolitica incoraggiata da Negri e Hardt? «No no. Assolutamente no. Oddio, è meglio di niente, è una buona cosa che la micropolitica proliferi qui e là, ma penso che non basti. D’altronde, il paradosso è che i caratteri molecolari, moltitudinari e biopolitici sono stati già incorporati dal capitalismo postmoderno. Ecco il problema. Inoltre Negri continua a parlare di classe lavoratrice. Ma, lo sa, in molti Paesi oggi i capitalisti sono molto più rivoluzionari della classe lavoratrice tradizionale. È la dinamica autopropulsiva del capitale a mandare avanti la baracca». E l’unica resistenza, diceva, è rappresentata dai partiti xenofobi. «Sì. Questa è la tragedia, che l’unica opposizione all’ideologia liberaldemocratica è incarnata dai partiti populistici di una destra nazionalista. E sa dove sono più lampanti le peggiori conseguenze di tutto ciò? Nei Paesi arabi. Perché la “primavera arabaˮ è andata storta? Perché, in definitiva, la sinistra laica è scomparsa. Così, l’unica alternativa praticabile oggi sembra quella tra regimi corrotti pro-occidentali e regimi islamisti radicali. Io non dico che la questione sia facile da risolvere, ma penso un paio di cose. Primo: sarebbe proprio questa l’occasione di reinventare una politica di larga scala. Abbiamo disperato bisogno di re-inventare la politica per confrontarci sui nuovi grandi temi che trascendono gli Stati: l’ecologia, la regolazione della finanza, la biogenetica. Secondo: è chiaro che non possiamo più fare riferimento alla vecchia classe lavoratrice. Se oggi uno appartiene alla classe lavoratrice tradizionale, se cioè ha un posto fisso, si trova in una condizione quasi privilegiata. Ormai dobbiamo fare i conti con una disoccupazione permanente, con lavoratori immigrati, lavoro nero, sans papiers, working poors… Non c’è più una classe lavoratrice coesa e perciò centrale. C’è una pluralità di agenti e il problema, del tutto nuovo, è come tenerli insieme». E allora qual è la sua opinione su un’istituzione transnazionale come l’Unione europea? Pensa che entro tale cornice i partiti di sinistra potrebbero trovare una nuova egemonia? «La sinistra non può che lottare per una diversa integrazione politica europea. So che in molti sostengono che l’Unione europea sia solo uno strumento al servizio del capitalismo finanziario internazionale, per cui la soluzione per la sinistra sarebbe conservare il welfare ritornando a uno Stato nazionale più forte. Ma questo è empiricamente falso. Per esempio, molti Paesi volevano abolire il loro welfare state, ma non hanno potuto smantellarlo del tutto perché l’Unione insiste sulla cura della salute, dell’istruzione… Punto secondo: se l’Unione si disgregasse in un manipolo di Stati nazionali, ciascuno di loro sarebbe subito spazzato via dal mercato mondiale, perché stanno emergendo nuovi grandi gruppi in Sud America, in Nord America, nell’Est asiatico. Se andiamo da soli, siamo persi. So che adesso è difficile, ma se l’Europa non cerca una diversa integrazione politica, allora sono molto pessimista». Insomma, lei spera nella formazione di élite autenticamente di sinistra. «Assolutamente».
Obama ne sarebbe un esempio?
«Un momento. So che oggi va molto di moda criticare Obama, ma io continuo a sostenerlo un pochino. Primo: nonostante gli strattoni della destra, sulla guerra alla Siria è stato molto attento. Secondo: guardi alla situazione degli Stati Uniti a un passo dal default. Anche lo shutdown è il prodotto delle forze materiali dell’ideologia, e tutto sommato Obama l’ha gestito bene. Sa, quando sento ripetere la favola che le ideologie sono scomparse, di solito rispondo: siete matti? Guardate al più potente Stato al mondo, gli Stati Uniti. Sulla riforma sanitaria Obama ha dovuto combattere il cuore dell’ideologia americana, un individualismo sregolato. Noi in Europa sappiamo che c’è bisogno di una regolazione statale molto forte, perché questa crea le condizioni per poter essere liberi. “Sai chi è Obama?ˮ, mi ha chiesto il mio amico Fredric Jameson. E io ho risposto: “Noi diciamo sempre che si è compromesso e così via, ma Obama è il primo presidente americano veramente socialdemocratico. Lui sta introducendo la socialdemocrazia europea negli Stati Unitiˮ. Ecco perché lo avversano così fanaticamente. Per questo mi trovo in difficoltà quando gli uomini di sinistra contestano Obama: cosa vuoi più del socialismo negli Stati Uniti? Lo trattano peggio di un nemico politico, come un traditore. Si comportano come quei pazzi dei repubblicani. Lo sa che il sessanta per cento degli elettori repubblicani crede ancora che Obama sia musulmano? Una follia. Per non dire della crisi: sulle sue cause l’imbroglio è continuo». Anche in questo caso c’è di mezzo l’ideologia?
«Certo. Lo si vede bene quando si incolpa di questa crisi finanziaria la sinistra, rea di aver speso troppo denaro pubblico. No, scusate, la crisi è il risultato dell’insufficiente regolazione dei mercati. È incredibile. Proprio ora che abbiamo bisogno di regole più stringenti. Ma guardi la Cina, pensi a Singapore. Perché fino ad oggi loro hanno retto molto bene alla crisi? Perché lì il capitale privato è costantemente controllato e collabora con lo Stato. Io conosco la situazione, so che Singapore somiglia a uno Stato neofascista: c’è il capitalismo, eppure è estremamente regolato dallo Stato. Ma voglio solo dire che non è vero che abbiamo bisogno di meno regolazione». Una domanda su Berlusconi. Come uomo di governo è finito, ma il berlusconismo? «Sì, ha impostato la domanda nel modo giusto. Lei sa, prima di tutto, che c’è una curiosa dialettica che Hegel ha già sviluppato. Hegel dice che un movimento può diventare un’ideologia universale precisamente quando il suo fondatore muore. Hegel ha in mente Giulio Cesare: dopo la sua morte, la nozione di cesarismo è diventata universale. È sempre così. La stessa cosa con Margaret Thatcher. Quando le chiesero: “Qual è il suo più grande successo?ˮ, lei rispose: “il New Labourˮ. In altre parole, il suo vero successo è consistito nel fatto che quando i laburisti salirono al potere accettarono sostanzialmente la sua impostazione economica. Per cui mentre Berlusconi esce di scena, la sua eredità di base rischia di essere silenziosamente accettata. Ma c’è un’altra ragione per cui Berlusconi è importante. Ho sempre enfatizzato il fatto che noi ci stiamo avvicinando lentamente a nuovo ordine capitalistico, che è sì autoritario ma non come il vecchio autoritarismo fascista. Il nuovo ordine somiglierà piuttosto all’Italia di Berlusconi: c’è un potere autoritario, ma sembra solo spettacolare, giocoso, ridicolo. Un potere senza dignità. Io penso che tutto ciò sia cominciato con Ronald Reagan. Mi ricordo, quand’ero piccolo, che il presidente Reagan rispondeva con autoironia se un giornalista gli poneva una domanda difficile. Lui reagiva spesso dicendo: “Senta, sono troppo stupido per rispondere a una domanda del genereˮ. Il potere non appare più incarnato da leader autoritari, ma fa finta di essere stupido come ciascuno di noi. Eppure resta sempre un potere molto forte». Pensa che il potere contemporaneo sia esercitato in modo sempre più nascosto? «Questo è un grande problema. Ecco perché, sebbene non nutra grandi illusioni, ho supportato persone come Manning, Snowden, Assange. La gente mi dice “Gli Stati Uniti sono clementi. Immagina un fatto come quello di Manning in Cina: probabilmente per punirlo gli avrebbero distrutto l’intera famiglia!ˮ. Ma vede qual è il punto? In Cina nessuno ha l’illusione di vivere in un Paese libero. Snowden e Manning hanno mostrato fino a che punto siamo controllati, mentre tutti pensiamo di essere liberi». Qualche anno fa David Harvey intitolò un suo libro Spazi di speranza. Papa Francesco può aprirne uno? «Ottima domanda, ma è troppo presto per giudicare. In realtà dipenderà da lui. Il punto è se sarà capace di imporre vere riforme alla Chiesa». Non so se ha avuto modo di leggere il dialogo del Papa con Eugenio Scalfari… «Sfortunatamente no. Qual era il punto cruciale»?
Il riconoscimento del primato della coscienza come peculiarità della religione cristiana. «Sì, ho letto varie cose a riguardo. Anche se fosse un segnale retorico, mi piace comunque. E, praticamente, apprezzo anche il fatto che rifiuti lo sfarzo, che cerchi di vivere con modestia». Se pensa che il suo primo viaggio è stato a Lampedusa… Un viaggio simbolico. «Dà i segnali giusti. Sì, ha una forte abilità simbolica. E dovremmo averlo imparato dalla storia: i simboli contano eccome. È troppo facile dire: “Oh, ma è solo demagogiaˮ. Beh, a forza di buona demagogia, vedrai che qualcosa di positivo viene fuori». E lei ritiene che sia soltanto buona demagogia? «No, non lo penso. Ma il problema non è il Papa. Il problema è quanto è forte la gerarchia vaticana. Lo sa, le grandi istituzioni come la Chiesa cattolica hanno un potere tremendo. Per esempio, qui in Slovenia il Papa ha certamente giocato un buon ruolo. Lo sa che vari membri di spicco della gerarchia ecclesiastica slovena lo hanno attaccato apertamente?». Non lo sapevo.
«Sì. Voglio dire, bisogna stare molto attenti a quello che succede nella Chiesa». E qual era la ragione dell’attacco?
«Il Papa ha combattuto la corruzione della Chiesa slovena, rimuovendo quattro personaggi chiave della gerarchia locale. Una giornalista ha chiesto loro: “Come potete criticare il Papa? Non è forse infallibile?ˮ. Al che hanno risposto: “No, solo in questioni teologiche, ma in questioni sociali può sbagliare e qui ha sbagliatoˮ». Estremizzando, Papa Francesco ha detto il contrario. Che quello che conta non sono tanto le ragioni della teologia, ma la carità cristiana. «Lo vede? È una bellissima affermazione. Un momento però: io sono ateo, ma penso che la Chiesa possa giocare un ruolo davvero progressista». Lei un anno fa ha scritto e recitato nel film Guida perversa all’ideologia: ritiene che esista una “questione culturaleˮ? «L’ideologia dell’edonismo liberale non ha rivali, bilanciata solo leggermente da un ridicolo buddhismo new age… E così, tra il “goditelaˮ e lo “scopri te stessoˮ, uno dei pochi spazi di emancipazione sembra, lo dico da ateo, la Chiesa di Papa Francesco. D’altronde, ogni esperienza di collettività emancipative va celebrata». E quali altri soggetti possono esercitare una funzione liberatrice? «No, si tratta semplicemente diffondere questo spirito. La Chiesa, ecco il motivo per cui può giocare un ruolo positivo in Sud America, è nonostante tutto un modello, un grande collettivo estraneo – ovviamente non sempre – al controllo dello Stato e del capitale. La Chiesa può lavorare come contropotere a un certo livello. Perché è un ampio corpo collettivo, con un supporto popolare tremendo, e può alzare la voce non solo su problemi morali, ma anche su questioni politiche, come la giustizia e l’economia. Può essere estremamente importante». * * *
Ora veniamo alle domande un po’ più personali. Come fa a scrivere così tanti libri? «Ah, ma sa qual è il trucco? Sono totalmente libero. Tranne le lezioni in giro per il mondo (sempre meno all’università, non le sopporto), passo tutto il giorno a leggere e scrivere. Se pensa che mi pagano pure per farlo, beh, sono molto fortunato. Do alle case editrici il nome dell’istituto dove lavoro per la quarta di copertina, così sono loro stessi a spronarmi a pubblicare. Tutto qui». La sua giornata tipica, quindi, è fatta di scrittura e lettura… «Assolutamente. Solo questo».
Dove abita?
«A Lubiana, ma giro come un matto. Ora ho finalmente il tempo di viaggiare». E i libri porta li con sé o tiene tutto nel tablet? «No no no. A volte sono costretto a usare il Kindle, per i manoscritti, quando gli amici mi mandano delle bozze che ancora non sono state pubblicate. Ma sono molto tradizionale su questo, preferisco di gran lunga i libri stampati». Glielo chiedo perché è interessante sapere come riesce a conciliare i viaggi e la scrittura. «La cosa più preziosa che ho è il mio piccolo computer. Lo porto sempre con me, anche per i film». A proposito, qual è l’ultimo film italiano che ha visto? «L’ho dimenticato».
La grande bellezza di Paolo Sorrentino? «No, ma mi hanno detto che è un grande film. Mi ricordo che un paio d’anni fa, per esempio, ho visto come tutti Gomorra di Garrone. Mi piacque vedere una mafia raccontata senza romanticismo, demistificata. Abituati poi alla “celebrazioneˮ della mafia de Il Padrino. Può darsi che la sorprenda, ma mi è piaciuto molto anche Buongiorno Notte. Un po’ semplicistico forse, ma ho apprezzato l’ambiguità che quel film cercava di trasmettere. Ma spesso quando i giornalisti mi chiedono del cinema italiano, la mia battuta collaudata – anche se c’è un fondo di serietà – è questa: dimenticate i grandi artisti degli anni Cinquanta come Antonioni, Visconti… Mi piace, come lo chiamate?». Il neorealismo?
«No no no, cioè sì, ma non troppo. Mi piacciono i peplum, ecco. Ha presenteErcole contro…? Poi mi piacciono ovviamente gli spaghetti western e poi mi piacciono, alcune sono davvero divertenti, le commedie erotiche, quelle con Laura Antonelli o altre. In particolare, Conviene far bene l’amore di Campanile. È un film geniale. Davvero. Sa, racconta di un mondo in cui le risorse energetiche si producono in un solo modo, con l’atto sessuale, per cui la gente va a fare l’amore in laboratorio. Mi sembra un ritratto perfetto di quello che siamo diventati. È la condizione di oggi. L’amore passionale non è più proibito e ciò che ci si aspetta è divertirsi e fare sesso. Può apparire ridicolo, ma quel film è profondamente vero». Che libri sta leggendo in questo momento? «Forse è il momento di deluderla. A parte le nuove uscite su Hegel, sulla psicoanalisi e un po’ di teoria cinematografica, leggo molti romanzi polizieschi, anche italiani ovviamente». Camilleri?
«Sì, ho comprato anche una serie di dvd de Il commissario Montalbano. Ma, per esempio, mi piace anche Carofiglio. Amo il fatto che i gialli possano ambientarsi ovunque. Sa, questo è uno dei migliori aspetti della globalizzazione. Un racconto poliziesco oggi può svolgersi nell’antico Egitto come nell’antica Grecia, nell’antica Roma come nella Cina di ieri o di oggi, o in Russia, ovunque. Ma, ovviamente, mi piacciono anche i romanzi scandinavi. Non solo Björn Larsson, ma anche Lars Kepler e Jo Nesbø. Quest’esplosione di gialli ovunque è un fenomeno fantastico». E i filosofi italiani?
«Conosco Agamben, Negri, ovviamente Vattimo, Rovatti l’ho incontrato un paio di volte perché vive vicino a casa mia, a Trieste. E poi conosco, ma non di persona, Cacciari». Per le sue letture da sinistra del pensiero negativo? «Sì sì. Mi affascina l’appropriazione dei grandi classici del pensiero di destra da parte della sinistra. È davvero ironico. Gli unici che oggi prendono sul serio Carl Schmitt sono di sinistra». Come se lo spiega?
«Credo che il motivo sia che lui è un pensatore dell’antagonismo radicale. Oggi la destra è sempre più un centrodestra liberale, una parte integrata nell’ordine costituito, e non accetta l’antagonismo violento». Ma resta solo un fenomeno intellettuale…
«Certo, certo. Ecco perché non condivido la posizione di Habermas & Co. Si figuri se la sinistra flirta col fascismo solo perché legge Schmitt! Non penso ci sia nulla di pericoloso in questo». Viene poco in Italia?
«No, lo faccio spesso. Potrebbe sorprenderla, ma mi piace di più l’Italia settentrionale. Forse sono un conservatore, ma mi piace molto il lago di Como, anche se, ok, ora è per ultraricchi. La Toscana è troppo modaiola per me». E il Sud?
«Mi piace soprattutto la Sicilia orientale, da Taormina a Siracusa. Ma sono molto affascinato dall’entroterra. Della Sicilia mi piace questo mix pazzo di architettura normanna, islamica… E poi chi non ha letto Il Gattopardo»? Le sarà piaciuto anche il film…
«Certo, ma mi piace di più un altro Visconti. Uno dei più bei film italiani è un vecchio melodramma con Claudia Cardinale: Vaghe stelle dell’Orsa, ma amo tutti i suoi primi film… Voglio dire che spesso mi succede di preferire i film che non sono classici: per esempio, il mio Fellini preferito è quello di Roma. Ah, ecco, ora mi sono ricordato l’ultimo film italiano che ho visto, il dvd di un vecchio film che si chiama Noi vivi, un film del ’42 tratto da un romanzo anticomunista. È un film politicamente scorretto, il primo grande ruolo di Alida Valli, un grande film. È incredibile, perché uno mentre lo vede pensa: forse dovremmo riabilitare l’Italia del ’42. Mi hanno detto che Mussolini amava molto il cinema, forse per questo il settore era relativamente aperto». La travagliata relazione tra potere e cultura. Legge Roberto Bolaño? «Conosco il nome, ma non so nient’altro, mi dispiace».
I suoi gusti cinematografici – Hitchcock su tutti – sono noti. Quelli letterari? «Sono molto tradizionali. Come le dicevo, mi piace il grande modernismo». Joyce?
«No, Joyce è troppo artificioso. Per me gli scrittori del Novecento sono tre: Kafka, Beckett e Andrej Platonov. Lo scrittore italiano che amo di più, invece, è Italo Svevo. La coscienza di Zeno dovrebbe essere obbligatorio a scuola, specie oggi che qualunque idiota apra bocca se la prende contro il fumo. È un romanzo di valore assoluto. Sa chi mi piace moltissimo anche?». Mi dica…
«L’avanguardista, l’allievo di Schönberg, Luigi Nono… Lo sa che ho incontrato la figlia di Schönberg, la vedova di Luigi Nono, e mi ha raccontato una storia bellissima? Quando Schönberg morì nel 1951, lei e la madre si trasferirono in Europa, e Luigi Nono, allora molto giovane, si precipitò ad Amsterdam perché voleva sedurre e sposare la vedova. Questa non volle, così alla fine sposò la figlia. Il punto è che Luigi Nono voleva a tutti i costi piazzarsi sulla linea reale dei seguaci ufficiali di Schönberg. Adoro questa storia». * * *
Per concludere, vuole aggiungere qualcosa sul libro o su qualcos’altro? «No, solo che in questo libro ho tentato di essere un po’ più sistematico, ma tuttavia avrà notato che ho mischiato il tutto con un po’ di oscenità qui e là». È impossibile riassumere Meno di niente, come gli altri suoi volumi d’altronde… «Lo sa che il mio prossimo libro, da Mit Press, si chiamerà Žižek’s Jokes? Hanno collezionato tutte le barzellette e le battute dei miei libri». Pensa che scriverà un altro libro impegnativo come l’ultimo su Hegel? «Non così grosso, ma leggere e scrivere libri di filosofia è tutto quello che faccio adesso». Nel 1990 si candidò alle presidenziali in Slovenia. Ha chiuso con la politica attiva? «Sono troppo stanco. Partecipo ancora alla vita pubblica, ma adesso il mio interesse fondamentale è la filosofia». Insomma, appassionato di fiction, ma politicamente realista. «Sì sì sì. Assolutamente. In politica non sono né un idealista né un costruttivista postmoderno. La gente è così stupida che a volte mi prende sul serio per uno stalinista ortodosso. In realtà, odio lo pseudo-radicalismo e sono, semplicemente, un pessimista pragmatico. I miei scrittori preferiti oggi sono i conservatori intelligenti. I reazionari sono stupidi, pensano che si debba e si possa tornare indietro. Io invece credo che il compito di un intellettuale sia cogliere un problema e descriverlo radicalmente, senza offrire soluzioni a buon mercato». “Seminare dubbi, non raccogliere certezzeˮ, diceva Norberto Bobbio. «Bisogna fare le domande giuste. Spesso discutiamo di problemi reali, ma il modo stesso in cui li formuliamo è mistificato. Oggi più che mai è importante fare le domande giuste. Se pensa che siamo immersi in un certo tipo di crisi, ma percepiamo l’austerity come la soluzione e non come la causa della crisi… È una vera e propria mistificazione. È molto importante, oggi più che mai, fare le domande giuste». Le interessa la teoria dei sistemi-mondo?
«Per quello che ne so, sì, certo. Sa l’unica cosa che non mi convince? Mi sembra che propongano una visione quasi divinatoria, del tipo: nei prossimi cinquant’anni la storia andrà in questa direzione, succederà questo, quest’altro e bla bla bla… Io sono troppo pessimista per ragionare su tempi così lunghi. Cioè, in un certo senso sono ammirato dal fatto che loro riescano ancora ad adottare questa visione, ma a parte gli scherzi mi piace la loro attenzione alla totalità e il fatto che non offrano soluzioni facili». L’ultima domanda. Che cosa pensa di Twitter e di Facebook? Li usa? «Di certo non potrei sopravvivere senza Internet. Ma non uso Twitter o Facebook, perché è una perdita di tempo. Non ho tempo per queste cose. Una volta ho pure fatto una proposta un po’ autoritaria: se qualcuno spende molto tempo sui social network significa che ha troppo tempo libero e allora lo Stato lo deve obbligare a svolgere lavori socialmente utili, tipo pulire le strade o cose del genere. Se uno sta parecchio su Twitter o Facebook, significa che ha troppo tempo libero». È interessante come Internet per un verso permetta ai grandi capitali di muoversi a una rapidità inedita e per l’altro illuda la gente di partecipare, di contare qualcosa. «Sì, questo è un problema gravissimo. Io però non sarei così pessimista, non penso che sia solo un’illusione. Ed è la ragione per cui le grandi compagnie e gli Stati tentano di controllare la rete in modo così pervasivo. Penso che Internet sarà uno dei grandi campi di battaglia in futuro». home |