La Lavagna Del Sabato 17 Mggio 2014 DI COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI LAMPEDUSA Lorenzo Mari Di petto, e senza sconti. Così si propone l’antologia poetica Sotto il cielo di Lampedusa, pubblicata all’inizio del 2014 dalla giovane e combattiva casa editrice milanese Rayuela, coordinata dallo scrittore Milton Fernández. Promossa dal grande spirito di iniziativa di un gruppo di poeti di stanza a Bologna, che si è voluto riconoscere all’interno di un movimento poetico transnazionale dal nome di “100 Thousand Poets for Change” (fondato, nel 2011, dagli autori statunitensi Michael Rothenberg e Terri Carrion), l’antologia supera presto i confini locali e nazionali, presentando una serie di autori, non necessariamente “bolognesi” o “italiani”, che risultano uniti, tuttavia, dalla volontà comune di confrontarsi a tutto campo con il tema delle migrazioni inter-mediterranee che approdano a Lampedusa, o che naufragano, tragicamente, nelle acque circostanti. Tema sia scritto, appunto, in corsivo, perché il grande pregio della raccolta è quello di non limitarsi a “tematizzare” Lampedusa, raddoppiando, così, l’attenzione mediatica, di tipo ossessivo-compulsivo, che ha interessato un luogo immediatamente elevato a simbolo delle migrazioni verso l’Italia e già ampiamente investito dal potere di retoriche che non di rado sono fortemente aggressive. Da un lato, è fatto noto che le persone che migrano attraversando il Mediterraneo costituiscano soltanto una parte, per nulla maggioritaria, dei flussi migratori che interessano l’Italia e l’Europa. D’altra parte, l’uso di una retorica di segno uguale e contrario a quella che ha portato alla definizione del reato di clandestinità e alla promozione della feroce pratica dei respingimenti via mare rischierebbe di “tematizzare” un fenomeno storico, sociale, politico e culturale che è paradigmatico rispetto alle ultime decadi di globalizzazione pervasiva, trasformandolo nell’occasione per una sterile polemica, o poco più. Negli episodi migliori di questa raccolta questo rischio risulta ampiamente evitato, perché la compassione non si fa, appunto, retorica e la tragedia non si fa occasione di semplice, indolore compianto. Molti dei poeti antologizzati trovano la radice della compassione nel “dolere insieme” di chi viaggia, simbolicamente, a fianco dei migranti, come ipotizza anche Erri de Luca nell’incipit della sua densa prefazione: “I versi di questa raccolta somigliano a onde, stanno in una corrente che accompagna. Mettersi è il verbo di chi deve andare allo sbaraglio di un’emigrazione: mettersi nel viaggio”. “Mettersi al fianco di”, e non “sostituirsi a”, è forse uno dei modi migliori per fare poesia sulle rive di Lampedusa. Lo devono sapere molto bene i poeti e le poetesse che s’impegnano – anche di petto, come si è detto – in questo difficile, eppure urgente compito. Ogni volta che prendono il microfono per leggere i propri testi – l’antologia nasce dalle attività del gruppo “100 Thousand Poets for Change - Bologna”, che sono in larga parte performative – hanno di fronte il problema non tanto di “dare voce a chi non ce l’ha”, quanto di “prendere la parola al posto di chi non la può prendere”. La questione, più che etica, mi sembra essere di portata teorico-politica. Sarebbe facile, infatti, rubricare questa antologia nell’ambito della “poesia civile”, censurando, così, gli atteggiamenti più militanti e, per questo, più retorici. La “svolta etica” che alcuni hanno inteso osservare nella poesia italiana contemporanea, e soprattutto nella cosiddetta “poesia civile”, non è però l’aspetto decisivo di questi testi. D’altronde, lo stesso impegno etico è di per sé assai scivoloso, come alcuni altri hanno rimarcato, nell’atto di segnare la necessità di un coinvolgimento morale della poesia contemporanea, senza poi riuscire a delineare o a costruire alcuna etica, o politica, positiva. Misurandosi con l’atto di “prendere la parola al posto di chi non la può prendere”, invece, la prima questione a saltare agli occhi rimanda al contributo teorico, ancora oggi fondamentale, di Gayatri Chakravorty Spivak del 1988, intitolato “Can the Subaltern Speak?”. Ci si chiede, allora: può il subalterno, la subalterna parlare? Può parlare, a prescindere, o anche in relazione, a chi prende la parola al suo posto? Cosa dice, se poi è possibile udire la sua flebilissima voce che giunge, non di rado, dal fondo del mare, o di un CIE, o di un qualsiasi altro luogo marginale della società italiana ed europea? Soprattutto: cosa impone questa relazione polifonica tra le voci, pubbliche e private, esposte e nascoste? Forse, una trasformazione dell’oggetto di cui si parla: non più e non solo “può il subalterno, o la subalterna parlare?”, ma anche, per riprendere il titolo di un famoso libro di Raymond Carver, “di cosa parliamo quando parliamo”, in questo caso, di Lampedusa? Tale cambiamento di prospettiva induce a non concentrare l’attenzione in modo esclusivo su Lampedusa e sui significati simbolici che le sono stati associati dal discorso mediatico e dalle retoriche egemoni, allargando continuamente, invece, le prospettive sul fenomeno che si tenta di elaborare poeticamente. Lo fa, ad esempio, Alessandra Carnaroli, una delle voci poetiche più consolidate dell’antologia, quando scrive del rapporto con lo “straniero”, e scopre che “lo straniero” è parte integrante del nostro corpo e della nostra psiche ancora prima del cosiddetto “incontro interculturale”, o anche dell’attenzione forzosa verso le tragedie lampedusane: “lo straniero / ci sopravvive in testa prima lendine / poi pidocchio / poi nostra crosta / terrestre bagnata per 2/3 / da arterie”. Non ci si faccia ingannare da lendini e pidocchi, che ricalcano parodicamente le retoriche aggressive usate contro qualsiasi tipo di immigrazione; straniera, in realtà, è tutta la crosta terrestre, come succedeva già nel famoso adagio di Ugo da San Vittore, che qui ricordo a memoria, parafrasando: “L'uomo che trova dolce la sua terra non è che un tenero principiante; colui per il quale ogni terra è come la propria è già un uomo forte; ma solo è perfetto colui per il quale tutto il mondo non è che un paese straniero”. Lo fa anche Brenda Porster, poetessa statunitense di stanza in Italia, che in questa antologia usa la lingua inglese, abilmente tradotta da Andrea Sirotti. L’autrice sposta l’attenzione dalle rive lampedusane alle rive pugliesi, e riporta in scena, con nuovi significati, la tragedia greca, in “Antigone in Puglia”: Porster, infatti, ricorda il dramma di una donna rom in fuga dal Kosovo che è stata arrestata dalla polizia italiana per aver sepolto la propria figlia, morta nella traversata dell’Adriatico, su una spiaggia pugliese e denunciata, in questo frangente tragico, per occultamento illecito di cadavere. Lo fanno Giacomo Sferlazzo, poeta e cantautore di Lampedusa, ricorrendo al dialetto siciliano, e Paolo Gagliardi, usando il dialetto romagnolo: entrambi mostrano come non soltanto la lingua italiana, ma anche i dialetti d’Italia non siano semplicemente lingue di terra, di una terra. Al contrario, anche i dialetti sono lingue di terra, e insieme di cielo e mare: la commistione può, e dev’essere ampia, e a tutti i livelli. Lo fanno, nell’esercizio forse più difficile, Hamid Barole Abdu e Bietelihem Berhane, poeti eritrei in lingua italiana, scrivendo due poesie che sono in realtà due lettere, appassionate e dolenti, dal fondo del mare. Le indirizzano entrambi alla “mamma” rimasta a casa, interpellando, così, non soltanto le madri dei due naufragati, ma anche una delle figure simboliche sulle quali si incardina ancora, seppure in modo stereotipato, la cultura italiana. L’elenco sarebbe ancora lungo, ma quanto ricordato basti a dar conto di una polifonia di voci che si muove in molteplici direzioni, abbandonando lo schema ossessivo-compulsivo del discorso mediatico e delle sue retoriche e trovando, infine, la “lingua sasso” con la quale parla il testo, dal titolo omonimo, di Maria Luisa Vezzali. Vezzali, infatti, sembra trovare anch’essa le chiavi etiche, teoriche e politiche per prendere voce, in modo paradigmatico, accanto alla voce del subalterno, quando riporta alla lettera, in chiusura di testo, la dichiarazione di uno dei lavoratori migranti coinvolti nelle manifestazioni di Rosarno del gennaio del 2010, da lei stesso intervistato: “se vuoi sparare spara in cielo / noi non siamo / uccelli”. Proponendo un’estrema e assurda metamorfosi del migrante-pesce – paradossalmente, in quanto pesce, annegato nel Mediterraneo – questi versi, che Maria Luisa Vezzali prende esplicitamente in prestito da un individuo altrimenti condannato alla alla subalternità e allo stigma politico e sociale, parlano di una strenua resistenza della voce e del corpo, dei vari corpi che la diffondono. E così la “lingua sasso” può continuare a rotolare nel gioco del mondo che è la Rayuela di Julio Cortázar, al quale la casa editrice diretta da Fernández è intitolata, un gioco dal quale non ci si può esimere facilmente dal giocare.
Recensione di AA.VV. Sotto il cielo di Lampedusa. Annegati da respingimento (Rayuela, 2014). Lorenzo Mari è dottorando in Letterature Moderne, Comparate e Postcoloniali presso l’Università di Bologna. Cura la collana “L’Altra Lingua”, dedicata alla poesia dialettale e straniera in traduzione, della casa editrice L’Arcolaio di Forlì. Traduce dall’inglese e dallo spagnolo. Ha pubblicato alcune raccolte di poesia; la più recente si intitola Nel debito di affiliazione (L’Arcolaio, 2013). home |