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Sagarana La Lavagna Del Sabato 26 Aprile 2014

L’IDENTITÀ CULTURALE IN MOVIMENTO NELLA PROSPETTIVA DI STUART HALL



Raffaele Carbone


L’IDENTITÀ CULTURALE IN MOVIMENTO NELLA PROSPETTIVA DI STUART HALL



Sulle orme di Edward Said , Stuart Hall confuta le concezioni essenzialiste dell’identità culturale, de-ontologizza il concetto stesso di identità e ne fa un uso «strategico e posizionale» (Hall, 2002: 133). «[…] le identità – scrive nell’articolo A chi serve l’“identità”? – non sono mai unificate e […] nella tarda modernità, sono sempre più frammentate e spezzate, mai costrutti regolari bensì multipli a causa di discorsi, pratiche sociali e posizioni diverse, spesso intersecantesi e antagoniste. Le identità sono soggette a una storicizzazione radicale, e si collocano costantemente all’interno di un processo di cambiamento e trasformazione» .

                «Storicizzazione radicale» significa che le identità, individuali e culturali, non sono mai compiute, sono sempre coinvolte in processi di formazione, sempre in cammino (Hall, 1991: 47) , e che mancano di fondamento (Mellino, 2005: 128). Nell’ottica di Hall, le identità sono processi che costituiscono e ricreano i soggetti che agiscono e parlano nell’universo sociale e culturale (Hall, 1995: 65). La sola base su cui esse poggiano è costituita dalle rappresentazioni e dai simboli attraverso cui si presentano agli individui nella vita quotidiana. Queste identità posizionali (positional identities) ovvero mobili (sliding) sono narrazioni che noi raccontiamo su noi stessi: esse non sono altro che finzioni della narrazione e dell’azione (Hall, 1995: 65-66). In Identità culturale e diaspora Hall ricapitola gli elementi cruciali che affiorano quando si decostruisce la concezione ontologica dell’identità e rileva la loro connessione. Primo, le identità provengono da molteplici luoghi, sono il risultato di storie. Secondo, lungi dall’essere fisse e inalterabili, esse si trasformano costantemente, passano continuamente attraverso le maglie della storia, della cultura e del potere. Non essendo fondate sulla semplice riscoperta del passato, che ci garantirebbe «in eterno il nostro senso di noi stessi, le identità sono nomi che diamo ai modi diversi in cui ci posizioniamo e veniamo posizionati dalle narrazioni del passato» (Hall, 2006: 247).

                Tale radicale storicizzazione dell’identità è ben colta dal concetto di «etnicità». Nel vocabolario di Hall «etnicità» non evoca il sentimento di appartenenza culturale, non intende tradurre una forma chiusa, regressiva ed esclusiva di identità nazionale. «L’espressione etnicità riconosce il luogo della storia, della lingua e della cultura nella costruzione della soggettività e dell’identità, così come il fatto che ogni discorso è localizzato, posizionato e situato e che ogni sapere non può che essere contestuale. La rappresentazione è possibile soltanto perché l’enunciazione è sempre prodotta all’interno di codici che possiedono una storia, una posizione all’interno delle formazioni discorsive di uno spazio e di un tempo particolari» (Hall, 2006: 237). Proponendo una concezione non coercitiva dell’etnicità con l’intento di contrapporla alla concezione egemonica e aggressiva dell’«anglicità» (è qui il contesto storico e polemico nel quale l’etnicità deve essere pensata sotto nuova luce), Hall getta le fondamenta di una visione positiva dei margini e della periferia. In sintesi, egli ci invita a riconoscere che ogni nostro discorso si dà e si inscrive all’interno di una storia particolare e di una situazione culturale circoscritta. «Siamo tutti, in questo senso, etnicamente situati», e le nostre «identità etniche» sono uno strumento indispensabile per prendere coscienza di noi stessi e del mondo (Hall, 2006: 238, 315). È dunque da un particolare luogo e da un certo posizionamento, e attraverso una processualità non sempre lineare, che gli individui apprendono a parlare ed agire in contesti relazionali (c’è forse in questi testi di Hall un’eco della tesi di Hannah Arendt, rielaborata poi da Seyla Benhabib, secondo cui il discorso e l’azione sono le modalità con le quali gli essere umani si rivelano gli uni agi altri non come oggetti fisici ma appunto come uomini: Arendt, 2005: 128; Benhabib, 2005: 25, 36). Se, dunque, le tradizioni culturali ci plasmano sia nella misura in cui ci nutrono e ci formano sia quando sentiamo l’esigenza di staccarci da esse per poter sopravvivere (Hall, 2006: 315-316), l’identità si rivela come condizione della nostra stessa capacità di articolare un discorso, ma a patto di riconoscere la sua profonda storicità, la sua fluidità interna e il suo rapporto con l’esterno e con la differenza. Ogni visione essenzializzante dell’identità si rivela, infatti, fragile per il fatto che de-storicizza la differenza confondendo ciò che è storico e culturale con ciò che è naturale, biologico e genetico (Hall, 2006: 274).

                La concezione dell’identità fluida, che oggi presenta molteplici modulazioni e varianti negli studi di carattere antropologico, filosofico, sociologico, prende forma in Hall sulla base delle sue riflessioni sulle vicende dei popoli neri del triangolo Europa-America-Asia e in particolare sugli sviluppi di queste storie nell’Inghilterra degli anni ’80 e ’90 del XX secolo. In The Question of Cultural Identity Hall prende in esame le «nuove identità» che sono emerse in Gran Bretagna nel corso degli anni ’70. Queste nuove identità si sono coagulate intorno al significante black che nel contesto britannico ha rappresentato un autentico e nuovo polo di identificazione («focus of identification») per le comunità afro-caraibiche e asiatiche. Queste comunità condividono l’essere considerate allo stesso modo dalla cultura dominante (in quanto costituite da individui non-bianchi), come se tra di esse non ci fossero differenze. Tuttavia, esse conservano tradizioni culturali diverse. Il contrassegno black costituisce allora un esempio dell’impronta politica («the political caractere») di queste nuove identità, ovvero il loro carattere congiunturale e posizionale, perché esse si formano in un tempo e in un luogo specifici. Esso testimonia inoltre che l’identità e la differenza sono inestricabilmente articolate o saldate insieme («inextricably articuled or knitted together») all’interno di differenti identità, l’una non potendo obliterare integralmente l’altra (Hall, 1992: 308-309). L’individualità si costruisce allora per mezzo di differenti categorie e diversi antagonismi (etnici, culturali, sessuali, sociali, etc.). Queste mappe categoriali e queste polarità possono produrre l’effetto di relegare il singolo in una posizione marginale e subordinata, anche se non agiscono allo stesso modo in ognuno (Hall, 1991: 57).

                Come si è detto, Hall elabora questa riflessione all’inizio e nel corso degli anni ’90 alla luce delle esperienze dei giovani neri di terza generazione che vivono in Inghilterra. Questi giovani sanno che le loro origini sono nei Caraibi, sanno bene, inoltre, ciò che implica l’esser neri, ma sono anche coscienti di essere inglesi. Essi, uomini e donne, non intendono scegliere definitivamente tra le loro diverse identità e contestano tanto la nozione di anglicità prodotta dal thatcherismo, a cui contrappongono l’idea che l’anglicità è nera, quanto quella di Blackness, desiderando mostrare le differenziazioni che sussistono tra i neri in rapporto alla loro società di appartenenza (Ibid.: 59). Questo dato suggerisce che le nuove identità culturali non sono fisse, ma fluttuanti, sospese (poised) tra differenti posizioni. Esse attingono allo stesso tempo a svariate tradizioni e rappresentano così il frutto di combinazioni complesse e di mescolamenti culturali che diventano sempre più abituali nel nostro mondo globalizzato (Hall, 1992: 310).

                Queste nuove formazioni identitarie, che sconvolgono e attraversano le frontiere, elaborano indubbiamente differenti tracce del loro passato, ma allo stesso tempo sono suscettibili di accogliere elementi nuovi e di riscrivere le loro posizioni. Esse si alimentano delle vicende di donne e uomini che si solo allontanati definitivamente dal loro paese d’origine e che hanno vissuto esperienze diverse in molteplici luoghi. Costoro portano impressi nella loro biografia i segni delle culture, delle tradizioni, dei linguaggi e delle storie all’interno dei quali si sono formati. Da tali esperienze nascono le culture dell’ibridità (cultures of hybridity) che testimoniano le conseguenze delle nuove diaspore, prodotte dalle migrazioni postcoloniali. Donne e uomini provenienti dai vecchi paesi colonizzati, disseminati nelle metropoli occidentali e nelle loro periferie, dove nascono enclave etniche minoritarie (Hall, 1992: 307), devono dividersi tra almeno due identità, parlare almeno due lingue, tradurre e negoziare tra questi diversi poli linguistici e culturali (Hall, 1992: 310). In ogni famiglia, scrive Hall citando Bhiku Paresh, marito e moglie, genitori e figli, fratelli e sorelle devono negoziare e ridisegnare i loro schemi relazionali prendendo in considerazione sia i loro valori tradizionali sia alcuni tratti del loro paese di adozione: nel corso di questo lavoro di negoziazione e di ri-definizione ciascuno giunge a conclusioni provvisorie (Hall, 2006: 296-297; Paresh, 1997: 54-62). Così, in queste situazioni, prendono forma le «nuove etnicità» e le «identità diasporiche», che «[…] producono e riproducono se stesse costantemente, attraverso la trasformazione e la differenza» (Hall, 2006: 258). Queste inedite configurazioni culturali covano in sé e traducono in atto la possibilità di produrre relazioni inattese, nondimeno esse si costruiscono non sull’oblio della proprie singole storie, della propria provenienza, ma sulla memoria di un passato percepito come non coerente, spezzettato, frammentato (di un passato che è stato sfigurato dal colonialismo ), e in risposta alle esigenze di inserimento in contesti politici e culturali metropolitani dai contorni screziati, problematici, fluttuanti.

                La nozione di identità diasporica può così costituire uno strumento teorico utile per riflettere sull’identità tout court. Del resto non sono solo i discendenti degli ex colonizzati a doversi confrontare con la discontinuità e la pluralità quali fattori operanti nella formazione e nei mutamenti del sentimento di appartenenza culturale. In un Entretien con Mark Alizart, Hall sostiene che l’esperienza della diaspora e della migrazione non è l’esperienza propria di alcune minoranze culturali: se si considera, ad esempio, la storia genetica degli inglesi e il fatto che essa ingloba elementi romani, vichinghi e celti nel suo patrimonio, occorre riconoscere che anche i britannici sono diasporici (Alizart, 2007: 80). Hall sottolinea dunque la tendenza dominante negli attuali processi di formazione e di metamorfosi del sentimento identitario dal punto di vista culturale: in un mondo che è ben lontano dall’essere culturalmente omogeneo, le identità centralizzate diventano via via più deboli a causa della proliferazione delle differenze (Ibid.: 81).

                Mettendo in luce la precarietà delle strutture relazionali (non solo familiari) nei contesti postcoloniali e la provvisorietà dei risultati di queste transazioni culturali si sottolinea, a nostro parere, il carattere aperto di ogni nuova formazione identitaria, il che contribuisce ulteriormente a indebolire la concezione forte delle identità culturali. Cogliere le cosiddette nuove identità culturali nella loro genesi, e isolarne così gli aspetti congiunturali e transitori, significa infatti far luce sulla specifica processualità interna dei fenomeni identitari, sul loro complesso rapporto con l’esterno, sulla pluralità di negoziazioni che li alimentano; inoltre, in tal modo, si dimostra che sotto il velo dell’essenza e della coerenza con cui certe élite politiche e culturali presentano in generale le identità affiorano la storicità di singole vicende individuali e relazionali, le discrepanze interne ad esse e l’apertura a sviluppi futuri non necessariamente prevedibili e immaginabili. In breve, mettere a nudo i processi in atto nella formazione delle nuove identità getta nuova luce sul problema stesso dell’identità culturale – ovvero pone l’identità culturale come problema – e sulla storicità e dialetticità interna ed esterna delle culture, che in molti contesti intellettuali sono ancora considerate come totalità coerenti, chiuse, autosufficienti.

 
 
Bibliografia

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- Arendt, H., 2005, Vita activa. La condizione umana, trad. it. di S. Finzi, Milano, Bompiani.

- Benhabib S., 2005, La rivendicazione dell’identità culturale. Eguaglianza e diversità nell’era globale, trad. it. di A. R. Dicuonzo, Bologna, il Mulino.

- Fanon F., 2009, Les damnés de la terre, Paris, La Découverte.

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- Mellino M., 2005, La critica postcoloniale. Decolonizzazione, capitalismo e cosmopolitismo nei postcolonial studies, Rome, Meltemi.

- Paresh B, 1997, Dilemmas of a multicultural theory of citizenship, in «Constellations», 1, pp. 54-62.

- Said E., 1998, Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell’Occidente, prefazione di J. A. Buttiguieg, postfazione di G. Baratta, Roma, Gamberetti.

- Id., 2007, Umanesimo e critica democratica, trad. it. di M. Fiorini, Milano, il Saggiatore.







Brano tratto da euromir 2011 resources.




Raffaele Carbone

Raffaele Carbone lavora all'Istituto Italiano di Scienze Umane (SUM), di Napoli.





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