La Lavagna Del Sabato 14 Aprile 2014 CI SONO DELLE COSE CHE NON SI POSSONO DIRE Umberto Eco Ho letto in vari siti di internet o in articoli di pagine culturali che sarei coinvolto nel lancio di un Nuovo Realismo, e mi chiedo di che si tratti, o almeno che cosa ci sia di nuovo (per quanto mi riguarda) in posizioni che sostengo almeno dagli anni Sessanta e che avevo esposte poi nel saggio Brevi cenni sull’Essere, del 1985. So qualche cosa del Vetero Realismo, anche perché la mia tesi di laurea era su Tommaso d’Aquino e Tommaso era certamente un Vetero Realista o, come si direbbe oggi, un Realista Esterno: il mondo sta fuori di noi indipendentemente dalla conoscenza che ne possiamo avere. Rispetto a tale mondo Tommaso sosteneva una teoria corrispondentista della verità: noi possiamo conoscere il mondo quale è come se la nostra mente fosse uno specchio, per adaequatio rei et intellectus. Non era solo Tommaso a pensarla in tal modo e potremmo divertirci a scoprire, tra i sostenitori di una teoria corrispondentista, persino il Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo per arrivare alle forme più radicalmente tarskiane di una semantica dei valori di verità. In opposizione al Vetero Realismo abbiamo poi visto una serie di posizioni per cui la conoscenza non funziona più a specchio bensì per collaborazione tra soggetto conoscente e spunto di conoscenza con varie accentuazioni del ruolo dell’uno o dell’altro polo di questa dialettica, dall’idealismo magico al relativismo (benché quest’ultimo termine sia stato oggi talmente inflazionato in senso negativo che tenderei a espungerlo dal lessico filosofico), e in ogni caso basate sul principio che nella costruzione dell’oggetto di conoscenza, l’eventuale Cosa in Sé viene sempre attinta solo per via indiretta. E intanto si delineavano forme di Realismo Temperato, dall’Olismo al Realismo Interno – almeno sino a che Putnam non aveva ancora una volta cambiato idea su questi argomenti. Ma, arrivato a questo punto, non vedo come possa articolarsi un cosiddetto Nuovo Realismo, che non rischi di rappresentare un ritorno al Vetero. Nel convocarci oggi qui, ieri a New York, domani a Bonn e poi chissà dove a discutere di queste cose, Maurizio Ferraris ha fissato dei confini alla nostra discussione. Il Nuovo Realismo sarebbe un modo di reagire alla filosofia del postmodernismo. Ma qui nasce il problema di cosa si voglia intendere per postmodernismo, visto che questo termine viene usato equivocamente in tre casi che hanno pochissimo in comune. Il termine nasce, credo a opera di Charles Jenks, nell’ambito delle teorie dell’architettura, dove il postmoderno costituisce una reazione al modernismo e al razionalismo architettonico, e un invito a rivisitare le forme architettoniche del passato con leggerezza e ironia (e con una nuova prevalenza del decorativo sul funzionale). L’elemento ironico accomuna il postmodernismo architettonico a quello letterario, almeno come era stato teorizzato negli anni Settanta da alcuni narratori o critici americani come John Barth, Donald Barthelme e Leslie Fiedler. Il moderno ci apparirebbe come il momento a cui si perviene alla crisi descritta da Nietzsche nella Seconda Inattuale, sul danno degli studi storici. Il passato ci condiziona, ci sta addosso, ci ricatta. L’avanguardia storica (come modello di Modernismo) aveva cercato di regolare i conti con il passato. Al grido di Abbasso il chiaro di luna aveva distrutto il passato, lo aveva sfigurato: le Demoiselles d’Avignon erano state il gesto tipico dell’avanguardia. Poi l’avanguardia era andata oltre, dopo aver distrutto la figura l’aveva annullata, era arrivata all’astratto, all’informale, alla tela bianca, alla tela lacerata, alla tela bruciata, in architettura alla condizione minima del curtain wall, all’edificio come stele, parallepipedo puro, in letteratura alla distruzione del flusso del discorso, sino al collage e infine alla pagina bianca, in musica al passaggio dall’atonalità al rumore, prima, e al silenzio assoluto poi. Ma era arrivato il momento in cui il moderno non poteva andare oltre, perché si era ridotto al metalinguaggio che parlava dei suoi testi impossibili (l’arte concettuale). La risposta postmoderna al moderno è consistita nel riconoscere che il passato, visto che la sua distruzione portava al silenzio, doveva essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente. Se il postmoderno è questo, è chiaro perché Sterne o Rabelais fossero postmoderni, perché lo è certamente Borges, perché in uno stesso artista possano convivere, o seguirsi a breve distanza, o alternarsi, il momento moderno e quello postmoderno. Si veda cosa accade con Joyce. Il Portrait è la storia di un tentativo moderno. I Dubliners, anche se vengono prima, sono più moderni del Portrait. Ulysses sta al limite. Finnegans Wake è già postmoderno, o almeno apre il discorso postmoderno, richiede, per essere compreso, non la negazione del già detto, ma la sua citazione ininterrotta. Ma se questo è stato il postmodernismo in architettura, arte e letteratura, che cosa aveva o ha in comune col postmodernismo filosofico, almeno quale lo si fa nascere con Lyotard? Certamente, teorizzando la fine delle grandi narrazioni e di un concetto trascendentale di verità, si riconosce l’inizio di epoca del disincanto – e nel celebrare la perdita della totalità e dando il benvenuto al molteplice, al frammentato, al polimorfo, all’instabile, il postmodernismo filosofico mostra alcune connessioni con l’ironia metanarrativa o con la rinuncia dell’architettura a prescrivere modi di vita razionali. Ma queste analogie, questa comunità di clima culturale, non sembrano aver alcuna connessione diretta con la questione del realismo, perché si può essere polimorfi e disincantati, rinunciare ai grandi racconti per coltivare saperi locali, senza per questo mettere in dubbio un rapporto quasi vetero-realistico con le cose di cui si parla. Caso mai verrebbe messo in dubbio il sapere degli universali, non la credenza anche fortissima nella persistenza dei particolari e nella nostra capacità di conoscerli per quel che sono (e in tal senso sarei tentato di ascrivere a una temperie postmoderna anche la teoria kripkiana della designazione rigida – e infine ricordiamo che il passaggio da Tommaso a Ockham, se sancisce la rinuncia agli universali, non mette in crisi i concetti di realtà e di verità). Quello che piuttosto emerge (nel cosiddetto postmodernismo filosofico), passando attraverso la decostruzione (sia quella di Derrida sia quella d’oltre oceano, che è solo un articolo prodotto dall’industria accademica americana su licenza francese) e le forme del pensiero debole, è un tratto molto riconoscibile (su cui in effetti si accentra la polemica di Ferraris), e cioè il primato ermeneutico dell’interpretazione, ovvero lo slogan per cui non esistono fatti ma solo interpretazioni. A questa curiosa eresia avevo da gran tempo reagito, a tal segno che a una serie di miei studi degli anni Ottanta avevo dato nel 1990 il titolo I limiti dell’interpretazione, partendo dall’ovvio principio che, perché ci sia interpretazione ci deve essere qualcosa da interpretare – e se pure ogni interpretazione non fosse altro che l’interpretazione di una interpretazione precedente, ogni interpretazione precedente assumerebbe, dal momento in cui viene identificata e offerta a una nuova interpretazione, la natura di un fatto – e che in ogni caso il regressum ad infinitum dovrebbe a un certo punto arrestarsi a ciò da cui era partito e che Peirce chiamava l’Oggetto Dinamico. Ovvero ritenevo che, quand’anche conoscessimo I promessi sposi solo attraverso l’interpretazione che ne dava Moravia nell’edizione Einaudi, quando avessimo dovuto interpretare l’interpretazione di Moravia avremmo avuto davanti a noi un fatto innegabile, il testo di Moravia, punto ineliminabile di riferimento per chiunque avesse voluto, sia pure liberissimamente, interpretarlo, e dunque fatto intersoggettivamente verificabile. È vero che quando si cita lo slogan per cui non esistono fatti ma solo interpretazioni anche il più assatanato tra i post modernisti è pronto ad asserire che lui o lei non hanno mai negato la presenza fisica non solo dell’edizione Einaudi deiPromessi sposi, ma anche del tavolo a cui sto parlando. Il postmodernista dirà semplicemente che questo tavolo diventa oggetto di conoscenza e di discorso solo se lo si interpreta come supporto per un’operazione chirurgica, come tavolo da cucina, come cattedra, come oggetto ligneo a quattro gambe, come insieme di atomi, come forma geometrica imposta a una materia informe, persino come tavola galleggiante per salvarmi durante un naufragio. Sono sicuro che anche il postmodernista a tempo pieno la pensi così, salvo che quello che stenta ad ammettere è che non può usare questo tavolo come veicolo per viaggiare a pedali tra Torino e Agognate lungo l’autostrada per Milano. Eppure questa forte limitazione alle interpretazioni possibili del tavolo era prevista dal suo costruttore, che seguiva il progetto di qualcosa interpretabile in molti modi ma non in tutti. L’argomento, che non è paradossale, bensì di assoluto buon senso, dipende dal problema delle cosiddette affordances teorizzate da Gibson (e che Luis Prieto avrebbe chiamato pertinenze), ovvero dalle proprietà che un oggetto esibisce e che lo rendono più adatto a un uso piuttosto che a un altro. Ricorderò un mio dibattito con Rorty, svoltosi a Cambridge nel 1990, a proposito dell’esistenza o meno di criteri d’interpretazione testuali. Richard Rorty – allargando il discorso dai testi ai criteri d’interpretazione delle cose che stanno nel mondo – ricordava che noi possiamo certo interpretare un cacciavite come strumento per avvitare le viti ma che sarebbe altrettanto legittimo vederlo e usarlo come strumento per aprire un pacco. Nel dibattito orale Rorty alludeva al diritto che avremmo d’interpretare un cacciavite anche come qualcosa di utile per grattarci un orecchio. Nell’intervento poi consegnato da Rorty all’editore l’allusione alla grattata d’orecchio era scomparsa, perché evidentemente Rorty l’aveva intesa come semplice boutade, inserita a braccio durante l’intervento orale. Possiamo astenerci dall’attribuirgli questo esempio non più documentato ma, visto che – se non lui – qualcun altro ha usato argomenti consimili, posso ricordare la mia contro-obiezione di allora, basata proprio sulla nozione di affordance. Un cacciavite può servire anche per aprire un pacco (visto che è strumento con una punta tagliente, facilmente manovrabile per far forza contro qualcosa di resistente); ma non è consigliabile per frugarsi d’entro l’orecchio, perché è appunto tagliente, e troppo lungo perché la mano possa controllarne l’azione per una operazione così delicata; per cui sarà meglio usare un bastoncino leggero che rechi in cima un batuffolo di cotone. C’è dunque qualcosa sia nella conformazione del mio corpo che in quella del cacciavite che non mi permette di interpretare quest’ultimo a capriccio. Rorty aveva rinunciato all’argomento dell’orecchio, ma che dire di tanto decostruzionismo che rivisita l’antico detto di Valery per cui il n’y a pas de vrai sens d’un texte e di Stanley Fish che nel suo There a Text in This Class? Consentiva alla libera interpretazione di ogni testo? Che non vi siano fatti ma solo interpretazioni viene attribuito a Nietzsche e credo che persino Nietzsche ritenesse che il cavallo che aveva baciato non lontano da qui esistesse come fatto prima che lui decidesse di farlo oggetto dei suoi eccessi affettivi. Però ciascuno deve assumersi le proprie responsabilità, e queste responsabilità emergono chiaramente in quel testo che è Su verità e menzogna in senso extra-morale. Qui Nietzsche dice che, poiché la natura ha gettato via la chiave, l’intelletto gioca su finzioni che chiama verità, o sistema dei concetti, basato sulla legislazione del linguaggio. Noi crediamo di parlare di (e conoscere) alberi, colori, neve e fiori, ma sono metafore che non corrispondono alle essenze originarie. Ogni parola diventa concetto sbiadendo nella sua pallida universalità le differenze tra cose fondamentalmente disuguali: così pensiamo che a fronte della molteplicità delle foglie individuale esista una «foglia» primordiale «sul modello della quale sarebbero tessute, disegnate, circoscritte, colorate, increspate, dipinte – ma da mani maldestre – tutte le foglie, in modo tale che nessun esemplare risulterebbe corretto e attendibile in quanto copia fedele della forma originale». L’uccello o l’insetto percepiscono il mondo in un modo diverso dal nostro, e non ha senso dire quale delle percezioni sia la più giusta, perché occorrerebbe quel criterio di «percezione esatta» che non esiste, perché «la natura non conosce invece nessuna forma e nessun concetto, e quindi neppure alcun genere, ma soltanto una x, per noi inattingibile e indefinibile». Dunque un kantismo, ma senza fondazione trascendentale. A questo punto per Nietzsche la verità è solo «un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi» elaborati poeticamente, e che poi si sono irrigiditi in sapere, «illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria», monete la cui immagine si è consumata e che vengono prese in considerazione solo come metallo, così che ci abituiamo a mentire secondo convenzione, avendo sminuito le metafore in schemi e concetti. E di lì un ordine piramidale di caste e gradi, leggi e delimitazioni, interamente costruito dal linguaggio, un immenso «colombaio romano», cimitero delle intuizioni. Che questo sia un ottimo ritratto di come l’edificio del linguaggio irreggimenti il paesaggio degli enti, o forse un essere che rifiuta a essere irrigidito in sistemi categoriali, è innegabile. Ma rimangono assenti, anche dai brani che seguono, due domande: se adeguandoci alle costrizioni di questo colombaio si riesce in qualche modo a fare i conti col mondo, per esempio decidendo che avendo la febbre è più opportuno assumere aspirina che cocaina (che non sarebbe osservazione da nulla); e se non avvenga che ogni tanto il mondo ci costringa a ristrutturare il colombaio, o addirittura a sceglierne una forma alternativa (che è poi il problema della rivoluzione dei paradigmi conoscitivi). Nietzsche non sembra chiedersi se e perché e da dove un qualche giudizio fattuale possa intervenire a mettere in crisi il sistema-colombaio. Ovvero, a dir la verità, egli avverte l’esistenza di costrizioni naturali e conosce un modo del cambiamento. Le costrizioni gli appaiono come «forze terribili» che premono continuamente su di noi, contrapponendo alle verità «scientifiche» altre verità di natura diversa; ma evidentemente rifiuta di riconoscerle concettualizzandole a loro volta, visto che è stato per sfuggire a esse che ci siamo costruiti, quale difesa, l’armatura concettuale. Il cambiamento è possibile, ma non come ristrutturazione, bensì come rivoluzione poetica permanente. «Se ciascuno di noi, per sé, avesse una differente sensazione, se noi stessi potessimo percepire ora come uccelli, ora come vermi, ora come piante, oppure se uno di noi vedesse il medesimo stimolo come rosso e un altro lo vedesse come azzurro, se un terzo udisse addirittura tale stimolo come suono, nessuno potrebbe allora parlare di una tale regolarità della natura». Bella coincidenza, queste righe vengono scritte due anni dopo che Rimbaud, nella lettera a Demeny, aveva proclamato che «le Poète se fait voyant par un long, immense et raisonnédérèglement de tous les sens», e nello stesso periodo vedeva «A noir, corset velu de mouches éclatantes» e «O suprème Clairon plein des strideurs étranges». Così infatti per Nietzsche l’arte (e con essa il mito) «confonde continuamente le rubriche e gli scomparti dei concetti, presentando nuove trasposizioni, metafore, metonimie; continuamente svela il desiderio di dare al mondo sussistente dell’uomo desto una figura così variopinta, irregolare, priva di conseguenze, incoerente, eccitante ed eternamente nuova, quale è data dal mondo del sogno». Un sogno fatto di alberi che nascondono ninfe, e di dèi in forma di toro che trascinano vergini. Ma qui manca la decisione finale. O si accetta che quello che ci attornia, e il modo in cui abbiamo cercato di ordinarlo, sia invivibile, e lo si rifiuta, scegliendo il sogno come fuga dalla realtà (e si cita Pascal, per cui basterebbe sognare davverotutte le notti di essere re, per essere felice – ma è Nietzsche stesso ad ammettere che si tratterebbe d’inganno, anche se supremamente giocondo), oppure, ed è quello che la posterità nicciana ha accolto come vera lezione, l’arte può dire quello che dice perché è l’essere stesso, nella sua languida debolezza e generosità, che accetta anche questa definizione, e gode nel vedersi visto come mutevole, sognatore, estenuatamente vigoroso e vittoriosamente debole. Però, nello stesso tempo, non più come «pienezza, presenza, fondamento, ma pensato invece come frattura, assenza di fondamento, in definitiva travaglio e dolore» (e cito Vattimo, Le avventure della differenza, p. 84). L’essere allora può essere parlato solo in quanto è in declino, non s’impone ma si dilegua. Siamo allora a una «ontologia retta da categorie «deboli» (Vattimo p. 9). L’annuncio nicciano della morte di Dio altro non sarà che l’affermazione della fine della struttura stabile dell’essere (Introduzione al Pensiero debole, p. 21) L’essere si darà solo «come sospensione e come sottrarsi» (Vattimo, Oltre l’interpretazione, p. 18). In altre parole: una volta accettato il principio che dell’essere si parla solo in molti modi, che cosa è che ci impedisce di credere che tutte le prospettive siano buone, e che quindi non solo l’essere ci appaia come effetto di linguaggio ma sia radicalmente e altro non sia che effetto di linguaggio, e proprio di quella forma di linguaggio che si può concedere i maggiori sregolamenti, il linguaggio del mito o della poesia? L’essere allora, oltre che (come ha detto una volta Vattimo con efficace piemontesismo) «camolato», malleabile, debole, sarebbe puro flatus vocis. A questo punto esso sarebbe davvero opera dei Poeti, intesi come fantasticatori, mentitori, imitatori del nulla, capaci di porre irresponsabilmente una cervice equina su un corpo umano, e far d’ogni ente una Chimera. Decisione per nulla confortante, visto che, una volta regolati i conti con l’essere ci ritroveremmo a doverli fare con il soggetto che emette questo flatus vocis (che è poi il limite di ogni idealismo magico). Qual è lo statuto ontologico di colui che dice che non vi è alcun statuto ontologico? Non solo. Se è principio ermeneutico che non ci siano fatti ma solo interpretazioni, questo non esclude che ci possano essere per caso interpretazioni «cattive». Dire che non c’è figura vincente del poker che non sia costruita da una scelta del giocatore (magari incoraggiata dal caso) non significa dire che ogni figura proposta dal giocatore sia vincente. Basterebbe che al mio tris d’assi l’altro opponesse una scala reale, e la mia scommessa si sarebbe dimostrata fallace. Ci sono nella nostra partita con l’essere dei momenti in cui Qualcosa risponde con una scala reale al nostro tris d’assi? Tornando al cacciavite di Rorty si noti che la mia obiezione non escludeva che un cacciavite possa permettermi infinite altre operazioni: per esempio potrei utilmente usarlo per uccidere o sfregiare qualcuno, per forzare una serratura o per fare un buco in più in una fetta di groviera. Quello che è sconsigliabile farne è usarlo per grattarmi l’orecchio. Per non dire (il che sembra ovvio ma non è) che non posso usarlo come bicchiere perché non contiene cavità che possano ospitare del liquido. Il cacciavite risponde di SÌ a molte delle mie interpretazioni ma a molte e almeno a una risponde di NO. Riflettiamo su questo NO, che sta alla base di quello che chiamerò il mio Realismo Negativo. Il vero problema di ogni argomentazione «decostruttiva» del concetto classico di verità non è di dimostrare che il paradigma in base al quale ragioniamo potrebbe essere fallace. Su questo pare che siano d’accordo tutti, ormai. Il mondo quale ce lo rappresentiamo è certamente un effetto d’interpretazione, e sino a ieri lo interpretavamo come se i neutrini viaggiassero anch’essi alla velocità della luce e forse domani dovremo deciderci a cambiare idea mettendo in crisi una presunta costante universale. Il problema è piuttosto quali siano le garanzie che ci autorizzano a tentare un nuovo paradigma che gli altri non debbano riconoscere come delirio, pura immaginazione dell’impossibile. Quale è il criterio che ci permette di distinguere tra sogno, invenzione poetica, trip da acido lisergico (perché esistono pure persone che dopo averlo assunto si gettano dalla finestra convinti di volare, e si spiaccicano al suolo – e badiamo, contro i propri propositi e speranze), e affermazioni accettabili sulle cose del mondo fisico o storico che ci circonda? Poniamo pure, con Vattimo (Oltre l’interpretazione, p. 100) una differenza tra epistemologia, che è «la costruzione di corpi di sapere rigorosi e la soluzione di problemi alla luce di paradigmi che dettano le regole la verifica delle proposizioni» (e ciò sembra corrispondere al ritratto che Nietzsche dà dell’universo concettuale di una data cultura) e ermeneutica come «l’attività che si dispiega nell’incontro con orizzonti paradigmatici diversi, che non si lasciano valutare in base a una qualche conformità (a regole o, da ultimo, alla cosa), ma si danno come proposte «poetiche» di mondi altri, di istituzione di regole nuove». Quale regola nuova la Comunità deve preferire, e quale altra condannare come follia? Vi sono pur sempre, e sempre ancora, coloro che vogliono dimostrare che la terra è quadra, o che viviamo non all’esterno bensì all’interno della sua crosta, o che le statue piangono, o che si possono flettere forchette per televisione, o che la scimmia discende dall’uomo – e a essere flessibilmente onesti e non dogmatici bisogna pure trovare un criterio pubblico onde giudicare se le loro idee siano in qualche modo accettabili. Di lì l’idea di un Realismo Negativo che si potrebbe riassumere, sia parlando di testi che di aspetti del mondo, nella formula: ogni ipotesi interpretativa è sempre rivedibile (e come voleva Peirce sempre esposta al rischio del fallibilismo) ma, se non si può mai dire definitivamente se una interpretazione sia giusta, si può sempre dire quando è sbagliata. Ci sono interpretazioni che l’oggetto da interpretare non ammette. Poniamo che su quel muro sia dipinto uno splendido trompe l’oeil che rappresenta una porta aperta. Posso interpretarlo come trompe l’oeil che intende ingannarmi, come porta vera (e aperta), come rappresentazione con finalità estetiche di una porta aperta, come simbolo di ogni Varco a un Altrove, e così via, forse all’infinito. Ma se l’interpeto come vera porta aperta e cerco attraversarla, batto il naso contro il muro. Il mio naso ferito mi dice che il fatto che cercavo di interpretare si è ribellato alla mia interpretazione. Certamente la nostra rappresentazione del mondo è prospettica, legata al modo in cui siamo biologicamente, etnicamente, psicologicamente e culturalmente radicati così da non ritenere mai che le nostre risposte, anche quando appaiono tutto sommato «buone», debbano essere ritenute definitive. Ma questo frammentarsi delle interpretazioni possibili non vuole dire che anything goes. In altre parole: esiste uno zoccolo duro dell’essere, tale che alcune cose che diciamo su di esso e per esso non possano e non debbano essere prese per buone. Chi ha mai detto che i fatti che interpreto possano pormi dei Limiti? Come posso fondare il concetto di Limite? Questo potrebbe essere un semplice postulato dell’interpretazione, perché se assumessimo che delle cose si può dire tutto non avrebbe più senso l’avventura della loro interrogazione continua. A questo punto anche il più radicale dei relativisti potrebbe decidere di assumere l’interpretazione del più radicale dei realisti vecchio stampo, visto che ogni interpretazione vale l’altra. Noi abbiamo invece la fondamentale esperienza di un Limite di fronte al quale il nostro linguaggio sfuma nel silenzio: è l’esperienza della Morte. Siccome mi avvicino al mondo sapendo che almeno un limite c’è, non posso che proseguire la mia interrogazione per vedere se, per caso, di limiti non ce ne siano altri ancora. Ciò che voglio dire ora si ispira a una teoria non metafisica ma semiotico-linguistica, quella di Hjelmslev. Noi usiamo segni come espressioni per esprimere un contenuto, e questo contenuto viene ritagliato e organizzato in forme diverse da culture (e lingue) diverse. Su che cosa viene ritagliato? Su una pasta amorfa, amorfa prima che il linguaggio vi abbia operato le sue vivisezioni, che chiameremo il continuum del contenuto, tutto l’esperibile, il dicibile, il pensabile – se volete, l’orizzonte infinito di ciò che è, è stato e sarà, sia per necessità che per contingenza. Chiamiamolo pure essere o Mondo, come ciò che presiede ogni costruzione e donazione di forma operata dal linguaggio. Parrebbe che, prima che una cultura non l’abbia linguisticamente organizzato in forma del contenuto, questo continuum sia tutto e nulla, e sfugga quindi a ogni determinazione. E in tal senso Hjelmslev non avrebbe detto nulla di diverso da Nietzsche. Tuttavia ha sempre imbarazzato studiosi e traduttori il fatto che Hjelmslev chiamasse il continuo, in danese, mening, che è inevitabile tradurre con «senso» (ma non necessariamente nel senso di «significato» bensì nel senso di «direzione», nello stesso senso in cui in una città esistono sensi permessi e sensi vietati). Che cosa significa che ci sia del senso, prima di ogni articolazione sensata operata dalle conoscenza umana? Hjelmslev lascia a un certo momento capire che per «senso» intende il fatto che espressioni diverse in lingue diverse come piove, il pleut, it rains, si riferiscano tutte allo stesso fenomeno. Come a dire che nel magma del continuo ci sono delle linee di resistenza e delle possibilità di flusso, come delle nervature del legno o del marmo che rendano più agevole tagliare in una direzione piuttosto che nell’altra. È come per il bue o il vitello: in civiltà diverse viene tagliato in modi diversi, per cui la sirloin steak americana non corrisponde a nessuna bistecca nostrana. Eppure sarebbe molto difficile concepire un taglio che offrisse nello stesso momento l’estremità del muso e la coda. Se il continuum ha delle linee di tendenza, per impreviste e misteriose che siano, non si può dire tutto quello che si vuole. Il mondo può non avere un senso, ma ha dei sensi; forse non dei sensi obbligati, ma certo dei sensi vietati. Ci sono delle cose che non si possono dire. Non importa che queste cose siano state dette un tempo. In seguito abbiamo per così dire «sbattuto la testa» contro qualche evidenza che ci ha convinto che non si poteva più dire quello che si era detto prima. Naturalmente ci sono dei gradi di costrizione. Si prendano due esempi, la confutazione del sistema tolemaico e quella dell’esistenza della Terra Australis Incognita come una immensa calotta – fertilissima – che avrebbe avvolto l’emisfero sud del pianeta. Quando vigevano le due ipotesi, ora confutate, il mondo noto permetteva di essere spiegato in modo verosimile e ragionevole: la teoria tolemaica per secoli ha dato ragione di moltissimi fenomeni, e la persuasione dell’esistenza di una terra australe ha incoraggiato innumerevoli viaggi di scoperta, che di quella terra avevano persino toccato le presunte propaggini. Poi si è scoperto che il sistema copernicano (con le varie correzioni apportatevi sino a Keplero) spiegava meglio i fenomeni celesti, e che la Terra Australe in quanto calotta globale non esiste. Potremmo persino pensare che un giorno – anche se per ora la teoria eliocentrica risponde a più quesiti e ci permette più previsioni di quanto non potesse la teoria geocentrica – emerga un sistema più esplicativo che mette in crisi entrambe le teorie. Ma per ora noi dobbiamo scommettere sul sistema di Keplero, come se fosse vero, e non possiamo usare più la teoria geocentrica. Quanto alla Terra Australe, nella misura in cui dobbiamo prestar fede ai dati di una esperienza provata da migliaia di testimoni e da misurazioni scientifiche, pare assolutamente impossibile affermare che esiste un continente che copre a calotta l’emisfero sud del pianeta, a meno che non decidiamo di definire come Terra Australis l’Antartide (ma si tratterebbe di un puro gioco sui nomi). Ci sono delle cose che non si possono dire. Ci sono dei momenti in cui il mondo, di fronte alle nostre interpretazioni, ci dice NO. Questo NO è la cosa più vicina che si possa trovare, prima di ogni Filosofia Prima o Teologia, alla idea di Dio o di Legge. Certamente è un Dio che si presenta (se e quando si presenta) come pura Negatività, puro Limite, pura interdizione. E qui debbo fare una precisazione, perché mi rendo conto che la metafora dello zoccolo duro può fare pensare che esista un nocciolo definitivo che un giorno o l’altro la scienza o la filosofia metteranno a nudo; e nello stesso tempo la metafora può fare pensare che questo zoccolo, questi limiti di cui ho parlato, siano quelli che corrispondono alle leggi naturali. Vorrei chiarire (anche a costo di ripiombare nello sconforto gli ascoltatori che per un attimo avevano creduto di ritrovare una idea consolatoria della Realtà) che la mia metafora allude a qualcosa che sta ancora al di qua delle leggi naturali, che persisterebbe anche se le leggi newtoniane si rivelassero un giorno sbagliate – e anzi sarebbe proprio quel qualcosa che obbligherebbe la scienza a rivedere persino l’idea di leggi che parevano definitivamente adeguare la natura dell’universo. Quello che voglio dire è che noi elaboriamo leggi proprio come risposta a questa scoperta di limiti, che cosa siano questi limiti non sappiamo dire con certezza, se non appunto che sono dei «gesti di rifiuto», della negazioni che ogni tanto incontriamo. Potremmo persino pensare che il mondo sia capriccioso, e cambi queste sue linee di tendenza – ogni giorno o ogni milione di anni. Ciò non eliminerebbe il fatto che noi le incontriamo. Esiste uno Zoccolo Duro persino nel Dio delle religioni rivelate, dove Dio prescrive dei limiti persino a se stesso. C’è una bella Quaestio Quodlibetalis di San Tommaso in cui il filosofo chiede utrum Deus possit reparare virginis ruinam e cioè se Dio possa riparare al fatto che una vergine abbia perso la propria verginità. La risposta di San Tommaso è chiara: se la domanda riguarda questioni spirituali, Dio può certamente riparare al peccato commesso e restituire alla peccatrice lo stato di grazia; se riguarda questioni fisiche, Dio può con un miracolo ricostituire l’integrità fisica della fanciulla; ma se la questione è logica e cosmologica, ebbene, neppure Dio può fare che ciò che è stato non sia stato. Lascio da decidere se questa necessità sia stata posta liberamente da Dio o faccia parte della stessa natura divina. In ogni caso, dal momento che c’è, anche Dio ne è limitato. Credo che ci siano dei rapporti tra questo mio modestissimo Realismo Negativo (per cui avvertiamo qualcosa fuori di noi e dalle nostre interpretazioni solo quando riceviamo un diniego) e l’idea popperiana per cui l’unica prova a cui possiamo sottoporre alle nostre teorie scientifiche è quella della loro falsificabilità. Non sapremo mai definitivamente se una interpretazione è giusta ma sappiamo con certezza quando non tiene. Credo di essermi attenuto a questo principio di realismo negativo sin da quando, all’inizio degli anni Sessanta, nel sostenere l’indispensabile collaborazione del fruitore a ogni testo artistico, intitolavo il mio libro Opera aperta. Questo apparente ossimoro mirava a sostenere che l’apertura, potenzialmente infinita, si misurava di fronte all’esistenza concreta dell’opera da interpretare. Che era poi da parte mia una ripresa dell’idea pareysoniana che l’interpretazione si articola sempre in una dialettica di iniziativa dell’interprete e fedeltà alla forma da interpretare. Infinite sono le interpretazioni possibili del Finnegans Wake ma neppure il più selvaggio tra i decostruzionisti può dire che esso racconta la storia di una contessa russa che si uccide gettandosi sotto il treno. Potrei tradurre questa mia idea di Realismo Negativo in termini peirceani. Ogni nostra interpretazione è sollecitata da un Oggetto Dinamico che noi conosceremo sempre e solo attraverso una serie di Oggetti Immediati (l’Oggetto Immediato essendo già un segno, che può essere chiarito solo da una serie successiva di Interpretanti, ciascun interpretante successivo spiegando sotto un certo profilo il precedente, in un processo di semiosi illimitata). Ma nel corso di questo processo produciamo degli Abiti, delle forme di comportamento, che ci portano ad agire sull’Oggetto Dinamico da cui eravamo partiti e a modificare la Cosa in Sé da cui eravamo partiti, offrendo un nuovo stimolo al processo della semiosi. Questi abiti possono avere o meno successo, ma quando non l’ottengono il principio del fallibilismo deve portarci a ritenere che alcune delle nostre interpretazioni non erano adeguate. È sufficiente intrattenere questa idea minimale di realismo, che coincide benissimo col fatto che conosciamo i fatti solo attraverso il modo in cui li interpretiamo? Una volta Searle aveva detto che realismo significa che siamo convinti che le cose vadano in un certo modo, che forse non riusciremo mai a decidere in che modo vadano, ma che siamo sicuri che esse vadano in un certo qual modo anche se non sapremo mai quale. E questo ci basta per credere (e qui Peirce viene in soccorso a Searle) che in the long run, alla fin fine, sia pure sempre parzialmente noi possiamo portare avanti la torcia della verità. La forma modesta del Realismo Negativo non ci garantisce che noi possiamo domani possedere la verità, ovvero sapere definitivamente what is the case, ma ci incoraggia a cercare ciò che in qualche modo sta davanti a noi; e la nostra consolazione di fronte a ciò che altrimenti ci parrebbe per sempre inafferrabile consiste nel fatto che noi possiamo sempre dire, anche ora, che alcune delle nostre idee sono sbagliate perché certamente ciò che avevamo asserito non era il caso. Articolo tratto da La Repubblica del 13 novembre 2012. Umberto Eco home |