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Sagarana La Lavagna Del Sabato 16 Novembre 2013

LA FABBRICA



Roniwalter Jatobá


LA FABBRICA



Arrivato quasi a quindici anni, le cose diventarono difficili. Il lavoro di mio padre, che arrivava sempre più tardi tutte le notti, non bastava. Finché un giorno non venne in salotto, mentre tutti noi stavamo guardando le telenovelas, e disse che era ora che io cominciassi a lavorare, contribuendo al sostentamento della famiglia. Non dissi niente. Mia madre si lamentò che era ancora presto, proprio ora che finirà le scuole, aspettasse un altro po', che finissi le medie, allora sì, sarei stato pronto. Mio padre rispose, mettendosi già a sedere a tavola, che se avessi voluto finire la scuola, lo facessi di notte. Fanno tutti così, concluse.

Non ci rimasi molto male. Il posto dove andavamo a divertirci, il campetto, da molto tempo era recintato. L'edificio della fabbrica occupava tutto lo spazio, recinti con quattro fili spinati. Si sentiva solo, da lontano, il rumore del calcestruzzo rovesciato per terra, di seghe elettriche, seghetti comuni che tagliavano il legno; zappe e pale che risuonavano dalla mattina alla sera. Sia che ci fosse il sole sia che piovesse. Non si fermava mai. La fabbrica cresceva. Il terreno circondato da fossi, luogo di mucchi di spazzatura, di fogne delle case vicine, raduno di avvoltoi tutta la sera, era cambiato. Oggi, non c'è quasi più niente di tutto ciò. Non si sentono più le grida dei ragazzini che corrono dietro alla palla ora. Solo il rumore dei camion che scaricano, la sirena che avvisa di ora in ora. La fabbrica che cresce, di ora in ora, cambiando faccia, con la sirena che avvisa, crescendo, gonfiandosi di gente. La fabbrica si allargava ogni giorno di più come una tela di ragno, prendendo i viaggiatori arrivati col libretto di lavoro in bianco, bisognosi, dando lavoro a quelli che sapevano leggere qualcosa, la sirena che chiamava. Alcuni, senza capire nulla, trovavano perfino buono il lavoro, perché da dove venivano, dicevano, non abbiamo nemmeno dove cadere morti. Mio padre, capoccia, ripeteva le loro parole, senza pietà.

Dico questo perché lo so. Conobbi tutto questo da quando nasceva, nei suoi primi giorni. Vidi, giuro su questa luce che mi illumina, una sera, un uomo far cadere un bidone di cemento, scivolare dall'impalcatura più alta, cadere volteggiando, aprire le braccia nell'aria e sbattere a terra tra le erbacce con un colpo sordo. Volli correre lì, ma ebbi paura. Ci fu un gruppo di altri operai che interruppero il lavoro, ma non poterono fare più nulla. Un capoccia gridò che potevano lasciar perdere, pensava a tutto lui, che andassero a lavorare, non voleva gente ferma lì; trascinò il corpo prendendolo per le braccia sporcando l'erba di sangue ed entrò con sforzo nel cantiere, tirando il defunto.

Corsi via impaurito, arrivai a casa senza sapere cosa fare. Mia madre mi chiese cosa avevo visto, così pallido, avevo perso il sangue nelle vene, avevo incontrato un fantasma, la polizia ti ha spaventato, questo è quello che succede a chi sta per strada a bighellonare, senza far nulla. Ben ti sta, concluse.

Non raccontai niente. Non avevo mai visto morire nessuno. La sera, a tavola, mentre stavamo cenando, toccai l'argomento. Mio padre prestò attenzione accendendo una sigaretta, mia madre mi riprese con lo sguardo, mio padre mi disse vai a dormire, lascia stare queste storie del diavolo. Poi disse che dopo questa settimana era finita la pacchia, avevo già un posto di lavoro garantito. Avrei cominciato al più tardi martedì prossimo. Andai in camera, ripetendo nella mente una cosa, chiedendomi se lavorare è una bella cosa.

Ancora non lo so. Continuo la scuola studiando di notte. Il pallone è rimasto in un angolo della casa e non si è più mosso di lì. Mia madre adesso quasi non parla tutto il giorno. Sempre in casa da sola, con chi dovrebbe parlare? Nella nostra strada ancora non ha fatto amicizia con nessuno.







Traduzione di Alessandra Lupi.




Roniwalter Jatobá

Roniwalter Jatobá è nato nel 1949 a Campanário, nello Stato di Minas Gerais, in Brasile. A 10 anni migrò con la famiglia a Campo Formoso, nel sertão di Bahia. Dal 1970 vive a San Paolo. Come giornalista è stato redattore dei fascicoli Nosso Século e Retrato do Brasil e ha collaborato con giornali culturali come Movimento, Escrita e Versus. Ha lavorato anche come cronista per il giornale Diário Popular. Ha pubblicato, fra gli altri, Sabor de Química (1977), Crônicas da Vida Operária (1978), Filhos do medo (1980), Viagem à Montanha Azul (1982), O Pavão Misterioso e outras memórias (1999), Paragens (2004) e Trabalhadores di Brasil: histórias di povo brasileiro (1998, curatore dell’antologia).





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