La Lavagna Del Sabato 21 Settembre 2013 ADDIO, FRATELLO Brano tratto dal romanzo Il sasso dentro Ivan Della Mea (…) L’ufficio H, H come handicap e come portatori di handicap, è una sezione dell’Assessorato servizi sociali in largo Treves. Francesco Noacco, 33 anni, ligure d’origine e milanese di residenza, è l’ideatore, il coordinatore di questo ufficio. Noacco è magro, statura media, occhi vispi, una gestualità fitta che fa da didascalia alle parole, un entusiasmo buono e grande.
Si erano conosciuti, lui e Paco, tempo prima, in un centro sociale del Giambellino. C’era una tavola rotonda, tema l’emarginazione, l’emarginazione vista come un dentro – dentro la droga, dentro il carcere, dentro il nero e il giallo di una pelle, dentro l’handicap – da portare fuori, nella società, nella comunità perché i normali capissero che il diverso non è il male, che ha una sua ricchezza, che è portatore di risorse umane, di sensibilità e disponibilità che possono dare valori più belli, più ricchi, alla qualità della vita del singolo come singolo e come cittadino tra i cittadini. Erano previste, in quella tavola rotonda, testimonianze di neri: marocchini, senegalesi, tunisini. Neri. «Ci chiamate lavoratori extracomunitari. Grazie» aveva ironizzato con garbo El Hadj Sedar Tall, segretario della Federazione unitaria milanese immigrati extracomunitari «ma per molti siamo ancora “vu’ cumprà”, barboni come si dice a Milano… per altri, tanti, siamo negri e, non di rado, anzi, sempre più spesso, sporchi negri. Non c’interessa, non ci piace, non vogliamo la cultura della tolleranza» aveva concluso Sedar Tall. «Ci interessa e ci piace la cultura della convivenza civile e sociale. Lo stato italiano ci ha riconosciuti, e noi vogliamo essere cittadini italiani.» Ed erano previste testimonianze di operatori del carcere minorile Beccaria, di assistenti sociali, di cittadini laici e religiosi che lavoravano in comunità di recupero per tossicodipendenti. Ed erano previste testimonianze di protagonisti dell’emarginazione e Paco c’era andato pensando a suo fratello, a Maso, che non vedeva da tempo, da quando lui l’aveva cacciato di casa perché tutto gli rubava per mettere insieme la lira del buco e si era venduto l’orologio di Anna e si era venduto l’Enciclopedia Britannica di Paco e si era venduto i pattini e la mountain-bike di Sasha che aveva pianto tutte le lacrime sue e si era incazzato e aveva tirato un calcio a Maso che gli aveva dato uno spintone e Paco non aveva retto e aveva preso Maso per il collo e l’aveva sollevato e il fratello lo guardava con occhi sfottenti e gli diceva: «Adesso che cosa fai? Mi meni? Mi arresti? L’integerrimo commissario Andena, l’orgoglio della Squadra omicidi, arresta il fratellino cattivo?» e lui, Paco, era sbiancato, gli occhi gli si erano induriti e aveva visto l’improvviso terrore nello sguardo di Maso fisso su quel pugno levato stretto e duro e caricato in fondo al braccio di Paco, quel pugno che avrebbe rotto fracassato distrutto qualunque cosa avesse incontrato alla fine della sua corsa se Anna non l’avesse fermato urlando: «Paco, no!» e allora Paco si era scosso e aveva detto sottovoce: «Le chiavi, Maso, dammi tutte le chiavi» e lui, Maso, gliele aveva date e Paco l’aveva portato fuori sul pianerottolo così tenuto per il collo come una cosa e l’aveva scaraventato nell’ascensore e gli aveva detto: «Non farti più vedere, Maso, né vedere né sentire, niente, tu per me, per Anna per Sasha, per questa casa, sei morto, non ci sei, è chiaro?» e Maso, a terra nell’ascensore, sfatto come un pacco sfatto, aveva guardato il fratello con una pena infinita e aveva detto: «È da tanto che sono morto, per tutti, e tu non te ne sei mai accorto» e aveva allungato una mano incerta strisciandola lungo la parete di fòrmica dell’ascensore lentamente su su fino alla bottoniera, una mano lunga e fradicia del sudore della paura e della malattia e che lasciava una scia lustra sulla fòrmica come una lumacona in salita e la lumacona aveva raggiunto il bottone delle T che sta per piano terra e l’aveva premuto e mentre la porta si chiudeva Paco aveva detto: «Addio, fratello» e lui Paco era rimasto lì e aveva dentro la morte e avrebbe voluto fermare Maso ma non poteva non più perché tutto sarebbe ricominciato, furti e bugie, e dentro, dentro di sé in quella stanza degli affetti da sempre destinata al fratello non c’era più nulla soltanto le pareti grigie e disadorne e con le ombre dei quadri d’una memoria che si era via via logorata e smarrita e il giorno dopo aveva sostituito tutte le serrature e il giorno dopo quella stanza degli affetti da sempre destinata a Maso si era riempita di sensi di colpa ed era diventata la stanza della sconfitta e lui, Paco, l’aveva chiusa perché non poteva, non più, entrarci in quella stanza e perché non voleva che Anna e Sasha la vedessero e quando, dopo, gli arrivavano notizie di Maso, di Maso che ancora si drogava e che spacciava per bucarsi, era come se quella porta di quella stanza si aprisse di schianto e lui, Paco, si affrettava a chiuderla perché di più non sapeva fare e non gli riusciva di fare e alla fine di quella tavola rotonda nel centro sociale del Giambellino Paco ne aveva parlato con Francesco Noacco e gli aveva raccontato tutto di Maso, e Francesco l’aveva ascoltato tenendo per mano una bambina mongoloide che lo guardava con occhi felici e gli diceva: «Giochiamo, Francesco, facciamo un gioco che gioca pure lui così ride» e lui, Paco, aveva giocato con i portatori di handicap e i giovani del carcere minorile Beccaria e i neri e alcuni ex tossicodipendenti e avevano suonato e cantato assieme e avevano mangiato assieme e Paco aveva conosciuto Marcella Bovisio e anche la carrozzella di Marcella Bovisio e aveva conosciuto la sua voglia di vivere che dava vita a tutte le cose intorno e la porta della stanza di Maso si era spalancata e c’era la morte dentro e lui, Paco, smarrito si era scoperto nella domanda: “Come faccio per riportarci Maso, con la sua esistenza, con le sue speranze, con anche, con le sue utopie?” e ancora, dopo, ne aveva parlato con Francesco e Francesco gli aveva detto: «Si può fare, qualcosa si può fare, possiamo parlarne con Don Virginio, se Maso ci sta, tocca a lui il primo passo, lui deve volere, lui deve scegliere la vita, trovalo» e lui, Paco, si era aggrappato a quella speranza e aveva cercato Maso e l’aveva trovato morto all’obitorio con quel biglietto in tasca e ancora una volta quella porta di quella stanza si era spalancata e dentro steso per terra, non c’era Maso, no, c’era lui, Paco, che era Paco ed era Maso, era tutti e due e c’era solo quella stanza che era diventata enorme e che ingrandendosi aveva sempre più allontanato le altre stanze degli altri affetti degli altri amori e lui era andato da Francesco Noacco lì dentro quell’ufficio e gli aveva raccontato tutto quello che era successo fuori e Francesco aveva capito tutto quello che gli era successo dentro e non l’aveva consolato, no, gli aveva detto di avere un problema, che gli serviva, urgentemente, una persona che avesse tempo e voglia di aiutarlo a organizzare e programmare l’assistenza ai nuclei familiari con portatori di handicap e che da un primo censimento risultavano un centinaio di casi urgenti, di nuclei familiari sui quali intervenire subito e che uno di questi era quello di Marcella Bovisio e quindi se lui, Paco, fosse stato disponibile avrebbe potuto cominciare proprio con quello. E Paco aveva cominciato, come volontario a zero lire più eventuale rimborso in caso di spese. Ora, alle nove del mattino è lì, nell’ufficio H, per la relazione settimanale su Marcella e per organizzare con Francesco l’assistenza di altri nuclei familiari: con discrete risorse umane e niente risorse economiche, perché l’amministrazione della cosa pubblica non sa trovare le lire necessarie e l’assessore deve fare i salti mortali per racimolarle raschiando il fondo delle pentole di altri assessorati. «Comincio?» chiede Paco.
«Vai.»
Paco si siede davanti alla scrivania di Francesco Noacco. C’è un registratore Sony a microcassette. C’è un microfono. «Mercoledì sei settembre 1989, ore nove e dieci, ufficio H» dice Paco. «Relazione settimanale sul nucleo familiare Bovisio. Operatore volontario Paolo Carlo Andena…» (…)
Brano tratto dal romanzo Il sasso dentro, Marco Tropea editore, Milano, 2012. Prima edizione Interno Giallo editore, 1990. Ivan Della Mea, pseudonimo di Luigi Della Mea (Lucca, 16 ottobre 1940 – Milano, 14 giugno 2009), cantautore e scrittore italiano. home |