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Sagarana La Lavagna Del Sabato 10 Aprile 2010

IL CASO GOOGLE



PRIMA E DOPO LA SENTENZA


Vittorio Zambardino e Giovanni Valentini


IL CASO GOOGLE



 

 
PRIMA DELLA SENTENZA
 
Vittorio Zambardino
 
 
– Il sogno censorio di una restaurazione dello status precedente dei media, quello nel quale gli utenti non parlano. Consumano. –
 
 
Il nocciolo della notizia è che i dirigenti di Google a processo a Milano per il caso “Vividown” sono condannati per violazione della privacy, ma non per diffamazione aggravata. Entro 90 giorni si leggerà la sentenza. Ma si continua ad ignorare che in questa vicenda, sotto traccia, non è la libertà di Google in gioco ma quella dei singoli.
Scampato pericolo?
Google ora dice che “la sentenza di Milano è un attacco ai principi di libertà”. Però poteva andare molto peggio. Gli occhi della politica, della rete e del mondo intero (quello che segue queste vicende) erano oggi su Milano. E alla sentenza che ne è uscita questa mattina poco dopo le 9. Ora gli avvocati annunciano un appello, che potrebbe essere discusso già per fine anno, o al più tardo nella primavera 2011.
Vedrete, questa notizia farà il giro del mondo. Perché comunque è una condanna, perché apre un dibattito che non è solo giuridico ma intensamente politico: deve esserci un controllo su quanto esce sui social network? E chi deve esercitarlo? E perché costringe a riflettere su come sistemiamo la comunicazione digitale dentro gli apparati di legge.
E’ d’obbligo un passo indietro.
Il fatto
Nel 2006 tre minorenni abusano con percosse e dileggio di un loro compagno di scuola, afflitto da sindrome di down. Registrano tutto con la videocamera del cellulare. Una di loro pubblica su quello che all’epoca era “Google Video”. Grande scandalo e indignazione, giustificati dall’atto ma trascinati nella consueta manipolazione dell’ira collettiva.
Di quel video si parla nei telegiornali. Si delira di chiusura di Google e di istigazione a delinquere – nasce da qui l’onda che porta al famoso “emendamento D’Alia”, cioè al principio che la piattaforma che ospita il contenuto di un utente è direttamente responsabile di quanto pubblicato da ogni singolo, e che la sola pubblicazione integri, oltre alle fattispecie di volta in volta presenti, il reato di istigazione a delinquere. Cosa è istigazione a delinquere? eh…
Intanto la ragazza responsabile della pubblicazione sarà poi processata e condannata a pene di carattere rieducativo. E la famiglia della vittima si rifiuta di costituirsi parte civile. Ma si è comunque avanti in un processo che vede sulle spalle di quattro dirigenti di Google sia l’accusa di diffamazione che quella di violazione di numerosi articoli della legge sulla privacy.
Il rischio “politico”
L’emendamento è caduto da tempo, ma i sostenitori di quella dottrina sono ancora alla ricerca della norma “giusta” da far passare. Lo sono anche in queste settimane. Alcuni di loro non si rendono conto, altri ne sono perfettamente consapevoli che stabilire quel principio di responsabilità – come se You Tube fosse un giornale fatto da relativamente pochi individui- significa realizzare uno stato pienamente totalitario, nel quale, per realizzare quelle prescrizioni di legge sarebbero necessarie strutture tecniche e umane presenti solo in Cina e paesi consimili.
Il clima: l’antipatico è anche “colpevole”?
Il processo si è accompagnato con la crescita di un sentimento di “antipatizzazione” verso Google e le piattaforme di social networking in questo paese. La giustizia civile ha già deciso, in altro e diverso procedimento, che You Tube debba sapere all’istante quali video appartengono a contenuti coperti da diritto d’autore. Un’altra causa, intentata da Mediaset, chiede, con risarcimenti ultramilionari, che per tutte le clip che gli utenti ritagliano dal Grande Fratello piuttosto che da Striscia la notizia, la responsabilità per la violazione del diritto d’autore sia molto stretta e riportabile alla piattaforma.
Aggiungete il procedimento – ma si tratta di vicenda ancora diversa – che gli editori italiani hanno avviato presso l’autorità per la concorrenza sulle pratiche di Google in fatto di pubblicità e di uso dei contenuti editoriali.
Insomma il clima era pesante per Google. E chi scrive qui ha elencato in un saggio quali sono le ragioni che fanno di Google un soggetto molto ingombrante per la concorrenza. Ma l’antipatia “economica” non deve produrre né giurisprudenza né diritto antipatizzante. Invece il sentimento che si respira nell’aria in questi mesi non ha niente a che vedere con i principi di equa concorrenza, che in qualche modo si trovano richiamati nel ricorso degli editori.
La difesa dell’esistente, la riforma “stretta”
Si può dire in due modi, con linguaggio da mass mediologi: Il problema di questi mesi è la ricerca di un varco per fermare la disgregazione dell’audience televisiva generalista ad opera dei social network, utilizzando anche il sogno censorio di una restaurazione dello status precedente dei media, quello nel quale gli utenti non parlano. Consumano.
E si può dire con linguaggio politico: che la politica e gli apparati giudiziari cercano i modi per ricondurre dentro l’esistente la novità di internet, che è novità umana e sociale prima che tecnologica e non ce la fa ad “entrare” in quelle norme preesistenti, come il dentifricio spremuto fuori non rientra nel tubetto.
Saggezze e sintonia di una sentenza
In questa situazione il rischio era che si arrivasse a una sentenza fortemente punitiva dei social network, facendo dell’Italia il luogo di un “leading case” repressivo che ci avrebbe rapidamente ridicolizzati di fronte al mondo e messo ancora più in basso nelle classifica per la libertà d’espressione.
Ma la sentenza di Milano – che andrà letta e ci sono 90 giorni per la sua pubblicazione – sembra aver sentito il pericolo giuridico e culturale che incombeva ed ha evitato il peggio. Ma ha sentito l’aria. Purtroppo non un’ottima aria: perché dopo la pubblicazione dei gruppi Facebook su Tartaglia e le pagine degli imbecilli su vari argomenti sensibili, si è instaurata una pratica opaca per cui governo e amministrazione statale colloquiano direttamente con i social network, sotto l’etichetta della “segnalazione dei siti pericolosi”.
Contemporaneamente, con il decreto intercettazioni e con il decreto Romani, si preparano forme di deterrenza e di controllo su chiunque faccia sia blog che televisione amatoriale: insomma su chiunque si esprima fuori dai ranghi.
Memo e meme per l’appello
Dalla sentenza si vedrà anche cosa, sulla privacy, esattamente si contesta a Google. Se si vorrà sostenere che Google deve occuparsi della privacy di tutti coloro che appaiono nei video che vengono pubblicati – una tesi che è stata sostenuta nella memoria delle parti civili e che è francamente ridicola sul piano fattuale e tecnologico, prima che giuridico. O se si dirà solo che Google aveva obbligo di registrarsi presso l’autorità delle comunicazioni e della privacy (sono due diverse) come stazione televisiva, assumendone quindi gli obblighi. E siamo, ma guarda un po’, alla sostanza del decreto Romani.
Tutto ciò che sfugge alle diverse parti in causa (o forse non sfugge affatto) è che in questa vicenda scorre sotto traccia la questione della libertà dei singoli di pubblicare e dire i propri pensieri sulla rete. In piena responsabilità.
La società digitale è una società di liberi, che semmai vanno in galera se delinquono. Ma non vanno né censurati né costretti all’autocensura delle “registrazioni” preventive.
 
 
 
LE REGOLE NELLA RETE
(DOPO LA SENTENZA)
Giovanni Valentini
 
Google condannata per violazione della privacy, non avendo impedito che fosse messo in rete il video choc del minore affetto da autismo picchiato dai compagni di scuola a Torino. Ma assolta dall'accusa di diffamazione. Una sentenza che fa discutere. Storica, comunque, per tutti
 
La notizia ha già fatto in poche ore il giro del mondo. E continuerà a farlo, mentre scriviamo questo articolo, stampiamo questo giornale e pubblichiamo questa notizia. L'informazione on line è immediata, istantanea, in tempo reale. Tanto più quando riguarda direttamente la medesima rete e di riflesso gli internauti di tutto il globo, la grande comunità planetaria dell'universo virtuale. Né c'è da stupirsi troppo che abbia aperto un inedito caso diplomatico fra Italia e Stati Uniti, con l'ambasciatore americano che invoca la libertà di Internet come ultimo baluardo della democrazia.
È la prima volta in assoluto, infatti, che il Tribunale di un Paese si arroga il diritto di giudicare il comportamento dei "signori del Web": nel caso specifico, i tecnocrati di Google, il motore di ricerca più potente del mondo, il motore dei motori. Condannati per violazione della privacy, non avendo impedito che fosse messo in rete il video choc del minore affetto da autismo picchiato dai compagni di scuola a Torino. Ma assolti nel contempo dall'accusa di diffamazione. Una vittoria, in pratica, per i produttori di contenuti. Uno scandalo per il popolo di Internet. Una sentenza storica, comunque, per tutti.
In attesa di leggerne le motivazioni, proviamo a interpretarne le ragioni. A cominciare proprio dalla duplice valenza del dispositivo: sì alla violazione della privacy, perché si tratta di dati personali sensibili per la diffusione dei quali occorre comunque il consenso dell'interessato; no alla diffamazione, perché (presumibilmente) non c'è al momento alcun obbligo giuridico a carico di Google o di altri soggetti e quindi non può essere contestato l'omesso controllo, come avviene invece per i giornali e gli altri organi d'informazione.

Il punto cruciale è proprio questo. Un sito web non è necessariamente un giornale. Google o qualsiasi altro motore di ricerca non è un organo di informazione, ma una piattaforma, uno spazio aperto, una bacheca elettronica, su cui chiunque è libero di scrivere o pubblicare quello che vuole. E dunque, come sostengono i paladini della rete, Internet non può essere sottoposta ad alcun limite o vincolo.
In realtà, più che di limiti o vincoli, qui si tratta a ben vedere di regole. Lo sviluppo tumultuoso della rete non deve pregiudicare la sua matrice libertaria, tendenzialmente anarchica, trasgressiva. E nessuno, comunque, riuscirebbe ormai a soffocarla o a sopprimerla. Ma nell'interesse stesso di Internet, della sua libertà e creatività, neppure la moderna cultura digitale può eludere il principio di responsabilità nei confronti dei terzi: a maggior ragione se - come nel nostro caso  -  si tratta di minori, affetti da problemi di salute, vittime di una violenza fisica e mentale.
È una questione antica che la filosofia del diritto ha risolto da tempo. La libertà personale è assoluta, ma trova un limite invalicabile nel rispetto della libertà altrui. Per rivendicare ed esercitare legittimamente la propria libertà individuale, nessuno può pretendere di violare e offendere impunemente quella degli altri. Le leggi servono, appunto, per regolare la convivenza civile. E Internet non può fare eccezione.
Tutto ciò è tanto vero che gli stessi dirigenti di Google si sono preoccupati, seppure dopo due mesi, di rimuovere il video incriminato dal loro motore di ricerca, senza che nessuno parlasse di censura o di autocensura. Con ciò, riconoscendo implicitamente il proprio diritto-dovere di controllare, selezionare, intervenire. Hanno tardivamente applicato, cioè, quello stesso principio di responsabilità a cui ora la sentenza milanese li richiama in nome della privacy e in forza della legge.
I giuristi diranno magari che i magistrati hanno posto un problema "de iure condendo", di diritto da formulare, da definire. Se così fosse, questa pronuncia contribuirà verosimilmente a sollecitare una riflessione più ampia e approfondita, anche a livello internazionale. Ma la condanna di Milano non ha nulla a che fare con quelle per "sovversione telematica" di Pechino. E gli Stati Uniti, difensori della libertà e della democrazia mondiale, farebbero bene a non confondere l'Italia con la Cina, la giustizia italiana con il regime cinese.

 
 
 
L'INTERVISTA CON STEFANO RODOTÀ
Alessio Balbi
 
– Google, l'allarme di Rodotà "Sentenza non diventi censura". L'ex garante per la privacy commenta la condanna di tre dirigenti per il video delle percosse a un disabile: "Una lettura sbrigativa del provvedimento potrebbe rafforzare chi vuole imporre filtri alla rete"
 
"Negli ultimi tempi in Italia si stanno manifestando, nei riguardi di internet, iniziative di tipo censorio che potrebbero essere rafforzate da una lettura sbrigativa della sentenza Google". E' l'allarme di Stefano Rodotà, ex garante per la privacy, dopo la decisione del tribunale di Milano che ha condannato tre dirigenti del colosso americano per il filmato delle percosse a un ragazzo disabile pubblicato su Google Video a fine 2006. David Carl Drummond, George De Los Reyes e Peter Fleitcher sono stati condannati a sei mesi di carcere per violazione della legge sulla privacy.

Professor Rodotà, lei che è stato presidente dell'Authority, può spiegare qual è il reato commesso dai tre dirigenti?

"Sarà fondamentale leggere la motivazione della sentenza, perché se la premessa fosse che Google non ha rimosso tempestivamente il video mettendo in atto un comportamento omissivo, si tratterebbe di una giusta applicazione delle norme vigenti e la sentenza non imporrebbe nessun intervento censorio preventivo da parte dei provider"

Facciamo un po' di storia: il video viene caricato su Google l'8 settembre 2006. Google lo rimuove il 7 novembre. I giornali iniziano a occuparsi della questione il 12 novembre, quindi quando il filmato era già stato rimosso. Come si fa a dire che Google non si è mosso in tempo?

"Vedremo se questo accertamento sui tempi è stato fatto in sede giudiziaria. Si dovrà stabilire se a Google fosse pervenuta una segnalazione o se c'era stato qualche intervento da parte di un'autorità di garanzia. E' utile ricordare che la normativa vigente, in particolare il decreto legislativo 70 del 2003, prevede che il provider non è responsabile per i contenuti immessi dagli utenti, se li rimuove appena viene effettivamente a conoscenza di un fatto illecito"

Il mondo politico sta commentando ampiamente la sentenza, senza conoscerne le motivazioni. C'è il rischio che venga usata come precedente per imporre filtri come quelli che il presidente dell'Agcom, Calabrò, ravvisa nel decreto Romani?

"L'Italia aveva assunto un ruolo di punta nel dibattito internazionale affermando che internet non richiede strumenti di tipo penalistico, ma una Costituzione, un "Internet Bill of Rights". Nell'ultimo periodo, il governo ha abbandonato questa linea, manifestando iniziative di tipo censorio. Ora questo clima potrebbe essere rafforzato da una lettura sbrigativa della sentenza e anche da un'eventuale motivazione del tribunale che non tenesse conto della natura della rete. Ogni giorno su YouTube o su Facebook vengono introdotti centinaia di migliaia di contenuti, e questo esclude possibilità di controlli preventivi come quelli previsti su stampa, radio e tv"

I pm hanno parlato di tutela della persona umana che deve prevalere sulla logica d'impresa.

"Gli interessi in gioco non sono solo l'iniziativa economica e la dignità, ma anche usare questi strumenti come momento nuovo di manifestazione del pensiero. Ogni forma di comunicazione di massa porta con sé dei rischi, non possiamo buttare l'acqua sporca col bambino. Queste forme di controllo finirebbero con l'uccidere i social network. Segnalo che il video su Google riguardava un disabile. Giorni fa su Facebook è stato chiuso un gruppo contro i disabili. C'è evidentemente in Italia, e non solo, un rifiuto delle persone diverse da noi. Condannando i dirigenti di Google o chiudendo un gruppo su Facebook non abbiamo eliminato problema: se c'è una febbre sociale non la eliminiamo rompendo il termometro. Queste manifestazioni orribili ci segnalano un virus nella società che richiede adeguata attenzione e non si risolve solo con gli interventi della magistratura"

Come valuta le proteste dell'ambasciatore statunitense in Italia?

"L'ambasciatore ha fatto riferimento al recente discorso di Hillary Clinton. Quello è stato un intervento straordinario: non ha ignorato i rischi che ci sono in rete, in particolare per quanto riguarda pedofilia e terrorismo, ma ha ribadito che gli strumenti di tipo repressivo e censorio che cancellano la libertà di manifestazione del pensiero non sono percorribili. Certo, la Clinton parlava di un paese autoritario, la Cina. Ma ci troviamo di fronte a un dilemma antico: poiché libertà di pensiero può trasformarsi in uno strumento aggressivo, la limitiamo. Non vorrei tornare alla diffidenza nei confronti della conoscenza, come in quel sonetto del Belli che si chiude con il prete che dice: "I libri non sò robba da cristiani, figli per carità non li leggete". Questo problema accompagna la modernità da quando la conoscenza è uscita dai circuiti elitari diventando fatto di massa. Una sfida continua da affrontare senza sacrificare posizioni di nessuno".
 
 
 
 
 




Articoli tratti dal sito Repubblica.it





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