La Lavagna Del Sabato 08 Giugno 2013 IL SESTO POTERE Alessandro Piperno
Non è poi così strano che Salman Rushdie abbia scritto il suo fluviale bellissimo memoir in terza persona. Un modo come un altro per dare conto della dissociazione cui fu costretto, quando, appena quarantenne, avvenimenti a dir poco grotteschi tramutarono il sedentario autore di una manciata di romanzi straordinariamente elitari in un apostata fuggiasco. A quel punto, almeno agli occhi di Rushdie, Rushdie smise di essere Rushdie, diventando qualcun altro: «Il divario tra il “Salman” privato, l’individuo che credeva di essere, e il “Rushdie” pubblico, in cui si riconosceva a stento, si allargava ogni giorno di più».
Quindi la terza persona singolare non è che un atto di onestà stilistica.
Da fan di Rushdie della prima ora, ho avuto modo, negli anni, di rammaricarmi per l’influenza nefasta esercitata dalla fatwa sulla sua vita artistica. I figli della mezzanotte, il suo secondo libro, era indiscutibilmente un capolavoro. E, anche se un po’ più discutibilmente, lo erano La vergogna e I versi satanici.
Ma poi?
Intimidisci uno scrittore di talento, minaccialo, braccalo, ricoprilo di ingiurie e contumelie, misconosci il suo diritto a vivere, fa di lui la vedette del gossip globale, raccontalo come un impostore, come un egocentrico dissoluto, privalo del focolare domestico, del diritto di replica, del relativo anonimato concesso alla maggior parte degli artisti (persino i più celebri), sradicalo dalla sua truce materia originaria, aggravalo di cautele civili e pubbliche responsabilità, costringilo a reticenti abiure, e metterai a repentaglio la sua peculiarità più preziosa.
La fatwa entra nella narrativa rushdiana dalla porta di servizio, in qualche modo sabotandola dall’interno. Vina Apsara, la protagonista di La terra sotto i miei piedi (1999), muore il giorno di San Valentino del 1989, ovvero lo stesso della fatwa. Shalimar il clown, protagonista dell’omonimo romanzo (2006), per poco non sgozza uno scrittore sotto scorta incontrato per caso in un parcheggio. Ma a parte tali piccole allusioni scaramantiche la narrativa dopo- fatwa di Rushdie appare singolarmente sterilizzata: i romanzi di un uomo comprensibilmente impaurito che non sa da che parte guardare.
Joseph Anton, il ponderoso memoir appena uscito, è il suo miglior libro dai tempi dei Versi satanici. Il che non deve stupire: anche il libro migliore di Amos Oz è un memoir; e, a ben pensarci, anche i libri migliori di Martin Amis e di James Ellroy sono memoir. Bizzarrie della narrativa contemporanea! La peculiarità di Rushdie è che lui è il solo scrittore che avrebbe potuto intitolare la propria autobiografia con il nome di un altro. Joseph Anton è il nome che dovette prendere, su insistenza di Scotland Yard, quando il suo nome divenne sinonimo di «bomba ad orologeria». Volendo chiarire a se stesso che il suo dramma era anzitutto di natura artistica, Rushdie rubò i nomi di battesimo a Conrad e Checov. Da quel giorno fu Joseph Anton: «Un uomo senza eserciti costretto a combattere continuamente su più fronti: il fronte privato della sua vita segreta, fatta di appostamenti, nascondigli, paura degli idraulici e degli operai, affannose ricerche di case e rifugi, orribili parrucche; e il fronte editoriale, dove, nonostante tutto il suo lavoro, non poteva dare nulla per scontato, nemmeno la stessa pubblicazione».
Non c’è un solo momento, in questo libro, in cui il riflesso della vita vera non si riverberi su quella artistica, e viceversa. In certi momenti pare quasi che il dolore più profondo di Rushdie non sia stato quello di dover rinunciare a un’esistenza normale, ma di vedere il suo libro più difficile (un investimento colossale) trasformato in un ripugnantemanufatto che non aveva più niente a che spartire con la letteratura. «Non ci volle molto perché il linguaggio della letteratura fosse sovrastato dalla cacofonia di altri discorsi, politici, religiosi, sociologici, postcoloniali. Le qualità intrinseche del libro, i suoi veri intenti artistici, erano scaduti al rango di inconsistenti frivolezze». Fu così che il «romanzo reale» si trasformò in una specie di «romanzo immaginario» di cui tutti parlavano, ma che nessuno aveva un serio interesse a leggere.
Il sesto potere
Solo qualche settimana fa Martin Amis sfogava la sua rabbia per la valanga di insensate elucubrazioni con cui i tabloid inglesi avevano cercato di spiegare il suo cambio di domicilio: da Londra a New York. Più o meno negli stessi giorni si consumava il duello tra Philip Roth e Wikipedia: per via delle resistenze di quest’ultima ad accogliere le rettifiche inviate da Roth a proposito di marchiani errori contenuti nel suo profilo. E, a proposito di Wikipedia, ricordo una spassosa «Bustina di Minerva» in cui Umberto Eco rivelava di aver dovuto correggere, di suo pugno e a più riprese, una bizzarra inesattezza biografica: no, lui non era sposato a Ginevra Bompiani. Jonathan Franzen, invece, se l’è presa con Twitter: «L’anno scorso ho impiegato otto settimane per chiudere l’account di un impostore che si spacciava per me. È stato un incubo e ho dovuto inviare la mia foto e la copia del passaporto». Qualcuno a questo punto potrebbe obbiettare: ma insomma cosa diavolo succede a questi scrittori? Perché sono tutti così esasperati e suscettibili? Perché non si godono quello che hanno e non si disinteressano di tutto quello che viene detto e scritto su di loro? In fondo poteva andare peggio. Avrebbero potuto patire il silenzio del più inglorioso anonimato. Dopotutto, suscitare tanta curiosità ossessiva è un privilegio: il prezzo della celebrità che, peraltro, in altri ambiti (cinema, musica, politica), è decisamente più salato.
L’obiezione tiene solo in parte. In fondo la celebrità non è l’ultimo orizzonte esistenziale (soprattutto per chi l’ha raggiunta). Il disagio di scrittori così diversi, accomunati solo dalla fortuna dei loro libri e da un talento peculiare, la dice lunga sulla forza inquinante di quello che potremmo pomposamente definire il «Sesto Potere».
Cos’è il Sesto Potere?
Non quello nelle mani dei guru delle nuove tecnologie, come pensano alcuni sociologi. Rubando una felice espressione a Rushdie potremmo dire che il Sesto Potere è «la cacofonia di altri discorsi». Esso prolifica nella zona franca in cui i «si dice» dei giornali si incontrano con i tam tam del web. Una palestra di mistificazioni incontrollate. Qualcosa di decisamente più potente e pericoloso del vento della calunnia deliberata. Un mood, per così dire, che sbaraglia tutto e tutti. Il Sesto Potere è un mostro pieno di teste. Ne tagli una, ne sbucano altre cinque. Qualora un giorno, sulla ribalta della storia, dovesse affacciarsi una nuova forma di totalitarismo sono certo si avvarrebbe spregiudicatamente del Sesto Potere.
Non sorprende allora che siano proprio gli scrittori a mostrarsi insofferenti nei confronti della violenza del Sesto Potere. Essi intuiscono che il Sesto Potere è il più fervido nemico del loro lavoro. Per quanto un libro di un narratore serio possa essere scadente e malriuscito, esso è sempre il risultato di un grande sforzo di precisione. Ecco perché Franzen non vuole che un tizio vada in giro a sparare sciocchezze in suo nome. O perché Amis ce l’ha con le capziose incursioni della stampa nella sua vita privata. Parliamo di individui per cui una virgolamessa al punto sbagliato, un’allitterazione sfuggita alla revisione delle ultime bozze, o, Dio non voglia, un refuso, possono essere motivo di angosce terribili. Come chiedere a persone così nevrotiche di sopportare la caterva di patacche messe in circolazione dal Sesto Potere? Arrivo a dire che, per fronteggiare questomostro della distorsione e dello stravolgimento, uno scrittore, che abbia a cuore il proprio lavoro, finisce con il preferire una stroncatura ben argomentata a qualsiasi generico sperticato elogio. Perché è tipico del Sesto Potere nutrirsi di idee generali e non tenere in gran conto il dettaglio specifico.
Che suono ha il Sesto Potere?
Quello del chiacchiericcio indistinto e anonimo, una selva di voci attorcigliate. Un rumore asettico e terrorizzante di stoviglie, il ticchettio della tastiera di un laptop in uno Starbucks affollato. Forse non a caso mi viene in mente il magnifico incipit di Massa e potere di Elias Canetti: «Nulla l’uomo teme di più che essere toccato dall’ignoto». Una via di fuga?
Ecco, non c’è niente di più ignoto del Sesto Potere. Come scoprì Rushdie quando il suo ambiziosissimo libro smise di essere un libro e diventò un oggetto imbarazzante che gli editori di tutto il mondo si erano pentiti di aver pubblicato: «Passare cinque anni della propria vita a lavorare alacremente a un progetto grande e complesso, cercare di venirne a capo, di tenerlo sotto controllo, di conferirgli tutta l’armonica bellezza di cui si è capaci, e poi, una volta ultimato, vederlo accolto in maniera così negativa e distorta, ecco, tutto ciò gli faceva davvero pensare che forse il gioco non valeva la candela». Rushdie rende perfettamente lo sdoppiamento cui il Sesto Potere costringe lo scrittore. Un’esperienza dostoevskijana tra le più estreme. Da un lato ci sei tu che te ne stai a casa, assediato dalle tue mille fragilità e dai grattacapi della vita quotidiana, dall’altro c’è un avatar impazzito, che se ne va in giro per il mondo, ospite nelle mille dimore messe a disposizione dal Sesto Potere. Si tratta di un avatar antipatico, spocchioso, che dice cose stravaganti, che fa discorsi apodittici, che esprime idee su qualsiasi cosa, un incrocio tra un bastardo e un pallone gonfiato. Faresti di tutto per azzittirlo, per renderlo innocuo e inoffensivo. Ma non hai alcun potere su di lui. Anzi, è lui a tenerti in pugno. Si diverte a fare un cattivo uso delle tue parole. Non chiede di meglio che sputtanarti pubblicamente. «La maggior parte di ciò che conta nella nostra vita si svolge in nostra assenza» scriveva Rushdie tanti anni fa ne I figli della mezzanotte. Una frase davvero profetica considerando in cosa si sarebbe trasformata un giorno la sua vita. Eppure in questo memoir fantastico, che designa un vero e proprio itinerario di caduta e di parziale riscatto, Rushdie suggerisce un modo per allontanare da sé gli allettamenti demoniaci che il Sesto Potere ti sventola sotto il naso. E il suo discorso è tanto più convincente perché in ballo non c’è la semplice reputazione di uno scrittore alle prese con il suo asfittico ambiente letterario, ma una questione di vita o di morte. «Stava cominciando a imparare la lezione che lo avrebbe reso libero: essere prigionieri del bisogno di essere amati significa chiudersi in una cella di interminabile tormento, da cui non c’è possibilità di fuga. Doveva capire, una volta per tutte, che c’era gente che non lo avrebbe mai amato, indipendentemente dalla cura profusa nello spiegare la sua opera e le sue intenzioni (…). Fintanto che avesse scritto e parlato chiaramente, con opere e prese di posizione pubbliche che non cozzavano con la sua coscienza, allora avrebbe anche potuto sopportare di non piacere».
Insomma vivere come se il Sesto Potere non esistesse. Attenersi ai dettami suggeriti dalla coscienza. Dopotutto il lavoro di uno scrittore non consiste nel provare a piacere agli altri, ma nell’assai più arduo tentativo di arrivare a non dispiacere troppo a se stesso. «Stava imparando» scrive ancora Rushdie fingendo di parlare di un altro «che, per vincere una battaglia simile, non bastava sapere contro cosa lottava. Quello era facile: non si poteva ammazzare qualcuno per le sue idee e nessuna religione aveva il diritto di imporre limiti al pensiero umano. Ma ora doveva aver chiaro a favore di cosa si stava battendo: la libertà di parola, la libertà dell’immaginazione, la libertà dalla paura, per quell’arte bella e antica che aveva il privilegio di praticare. Non solo: lottava anche per lo scetticismo, per l’irriverenza, per il dubbio, per la satira, per la commedia, e per le gioie profane».
Era un sacco di tempo che non leggevo (e non trascrivevo con gioia) parole così fresche e toccanti. Tratto da “Il Club della Lettura”, Corriere della Sera on-line. Alessandro Piperno (Roma, 25 marzo 1972) è uno scrittore italiano. home |