La Lavagna Del Sabato 20 Marzo 2010 NON SIAMO IN VENDITA Otto anni fa usciva nelle librerie e nelle edicole italiane questa raccolta, di grande importanza storica e letteraria. La sua Introduzione e la sua Prefazione, qui riproposte, sono di una indubbia attualitą, come se niente nel nostro paese si fosse mosso in un intero decennio
VOCI CONTRO IL REGIME
a cura di Stefania Scateni e Beppe Sebaste arcanapopolare il 12 gennaio 2002 a Parigi in un convegno organizzato dal Collège International de Philosophie all'Ecole Normale Superieure si sono riuniti intellettuali e scrittori italiani e francesi per discutere attorno allo stato della democrazia dopo l'ascesa al potere del governo Berlusconi. Col passare delle settimane le voci si sono moltiplicate ed è nata una mobilitazione spontanea e trasversale... Questo libro raccoglie i contributi originali di: Giorgio Agamben, Carlo Tullio Altan, Silvia Ammaniti, Silvia Ballestra, Alfonso Berardinelli, Bernardo Bertolucci, Maurizio Bettini, Ginevra Bompiani, Carlo Bordini, Paolo Canevari, Gianni Celati, Maurizio Chierici, Vincenzo Consolo, Enzo Cucchi, Gianni D'Elia, Erri De Luca, Gianni Dessì, Andrea Di Consoli, Stefano Di Stasio, Giovanni Lindo Ferretti, Giuseppe Gallo, Francesca Ghermandi, Piero Gilardi, Dario Fo, Gina Lagorio, Mario Luzi, Luigi Malerba, Aldo Mondino, Julio Monteiro Martins, Nanni Moretti, Mimmo Paladino, Enrico Palandri, Giuseppe Palumbo, Fulvio Papi, Francesco Pardi, Marco Petrella, Francesco Piccolo, Alfredo Pirri, Fabrizia Ramondino, Jacqueline Risset, Edoardo Sanguineti, Francesca Sanvitale, Tiziano Scarpa, BeppeSebaste, Sergio Staino, Antonio Tabucchi, Gianni Vattimo In appendice alcuni contributi tratti da CONTROJOKER - Le ragioni della ragione un libro realizzato via fax durante la campagna elettorale del 1994 da Ginevra Bompiani e Gianni Dessì. La Prefazione di Furio Colombo:
Chi sono i quarantamila cittadini che il 23 febbraio 2002 a Milano si sono passati parola e si sono trovati insieme, in un numero che, da solo, spinge via inchieste e sondaggi e che farebbe notizia d’apertura anche a Londra o New York? la parola “forcaioli” dei giornali che fanno capo a Berlusconi umilia il sistema delle informazioni prima che la dignità di coloro che la usano. Mai, prima di loro, qualcuno aveva proposto che destra (destra liberista, destra di mercato, ma anche destra di idee e di visioni della vita) fosse tutt’uno con gli interessi di alcuni a sottrarsi ai processi, che la destra fosse un movimento a difesa dei corrotti e dei clamorosi conflitti di interesse di un loro leader. Il Tg1 di una televisione di Stato non ancora colonizzata e già ansiosa di non irritare i nuovi padroni, finge di non accorgersi della portata dell’evento. Lo fa con l’espediente di una lunga intervista di apertura al Presidente della Confindustria D’Amato che non ha niente da dire. Quarantamila persone venute di propria iniziativa ad un incontro politico che esse stesse hanno creato non sono che una notizia secondaria da sbriciolare (in nome di una bizzarra par conditio) insieme con un convegno di amici degli imputati. Sarebbe come equilibrare la cronaca del prossimo grande sciopero del lavoro in Italia con un ritrovarsi nostalgico delle Guardie d’Onore del Pantheon. I giornali di padron Berlusconi, diventati per l’occasione “opposizione implacabile”, come ai vecchi tempi, usano ogni tipo di insulto. Il loro problema è che – come il loro padrone – possono essere sboccati ma non spiritosi.
E allora si avventurano in battute volgari perché non hanno altra lingua, idee o concetti. Però si rendono conto di quello che è accaduto, e decidono di fronteggiarlo subito con ogni mezzo: lo spintone, l’insinuazione, l’insulto che non sono mai stati un problema, come dimostra la loro campagna elettorale e le quotidiane dichiarazioni dei loro ministri. La reazione, comunque, è concitata, violenta. È la reazione di chi registra il colpo. Poi torneranno con la stessa faccia di bronzo, a farsi da soli le loro leggi ammazza-diritto. Ma sabato 23 febbraio, a loro modo, hanno visto, capito, preso atto. E non sono affatto contenti. Saranno contenti coloro che – nelle prime file della sinistra e dei DS – si dimostrano preoccupati di toni eccessivi e di “indignazione che non serve”?
Qualcosa, forse un passato in cui hanno dato intelligenza, ideazione, sforzo, fatica e rischio per rappresentare la voce di milioni che altrimenti sarebbe rimasta muta, fa da schermo ad alcuni di loro. Impedisce di vedere ciò che davvero accade adesso, in questi giorni. Resta il fatto che proprio a loro riesce difficile capire subito, al volo, il senso di offesa che provocano in tanti cittadini i fatti, i gesti, gli atti, le leggi gravissime, l’incalzare di aggressione e di disprezzo, di falsità e di devastazione delle istituzioni messe in atto da questo governo e dalla sua maggioranza. Berlusconi e i suoi avrebbero potuto fare le stesse cose distruttive con formale riguardo e cortesia verso l’opposizione. Per ogni atto, intervento, evento di Berlusconi, un bravo sceneggiatore sarebbe in grado di riscrivere ogni passaggio con tollerabile stile di buona educazione, di apparente e rispettosa cautela. Se questa sceneggiata di buona educazione fosse mai avvenuta sarebbe stato possibile capire una raccomandazione da sinistra alla calma. Ti direbbero: non dobbiamo essere proprio noi a rompere un gioco almeno formalmente democratico, persino se è più forma che sostanza. Però viviamo in un mondo di attacchi alla legge, alla Costituzione, al buon senso, all’immagine del Paese, con gente che governa guidata da un continuo senso di vendetta, di minacce personali più o meno esplicite. Credo che sia difficile contestare questa letterale descrizione dell’Italia di oggi. E allora perché comportarsi come educati ambasciatori di un Paese che non esiste? Il Paese – certo una parte di esso – è umiliato e offeso. È indignato. Si fa trovare, in occasioni che continuano a moltiplicarsi, pronto a parlare ed a ascoltare, a contribuire e a rispondere. Tutto meno che far finta di niente. Che fare, lo rimandiamo a casa? L’occasione più clamorosa è stato l’auto-appuntamento di quarantamila cittadini a Milano. Posso capire il povero Forattini che si riduce a rappresentare l’evento con formichine che fanno un girotondo a forma di falce e martello intorno a un nodo scorsoio. Un vignettista non ha l’obbligo di ricordare che il nodo scorsoio appartiene a un partito di governo, al più caro alleato di Berlusconi che lo ha fatto decennale dell’indagine giudiziaria che ha ridato decoro all’Italia è stato solo il simbolo e il riferimento per parlare di oggi, di Berlusconi, delle costanti violazioni della legge, del clamoroso assalto al potere giudiziario da parte di questo regime di affari. Forse è utile proporre questa riflessione ai leader della sinistra, quelli che dissentono, quelli che approvano da lontano, quelli che non avevano previsto l’evento, benché ripetutamente annunciato dalla rivista Micromega e sostenuto dal nostro giornale, l’Unità. E anche quelli che sono stati presenti. Senza i quarantamila di Milano, senza gli eventi di Roma, di Firenze, di Bologna, di Torino, senza tutti i girotondi così spesso ridicolizzati, l’Italia sarebbe la stessa? Chiedo a coloro che realisticamente hanno sùbito visto il cambiamento di situazione e di clima in Italia, quando c’è stata la marcia dei quarantamila a Torino (i quadri della Fiat, negli anni Ottanta): vi sembra che i quarantamila di Milano contino meno e non segnino una svolta per tutta l’opposizione? Ti ammoniscono pacatamente, ti dicono che l’indignazione non serve. Qualcuno ricorda un evento della storia o della politica, in questo Paese o nel mondo, che non sia nato, prima di tutto, da un vasto moto condiviso di indignazione? Per capire la frase “L’indignazione non serve”, provate a immaginare queste parole sulle labbra di Martin Luther King. Alla fine del suo movimento ci sono leggi e sentenze che cambiano la vita di un intero Paese. Ma all’inizio c’è la mobilitazione e la passione spontanea di chi si schiera con lui perché certe cose non le può tollerare. O così o niente. Per capire, cerchiamo in tutta la storia antifascista di questo Paese, clandestinità, Liberazione, lunghissimo dopoguerra di faticate conquiste di democrazia e di lavoro. È mai accaduto che qualcosa sia iniziato senza lo slancio della partecipazione, della passione, dell’indignazione, del mettersi personalmente in gioco? capisco che qualcuno – fra coloro che in quel passato hanno avuto un ruolo – pensi oggi, forse con un po’ di irritazione, “ma noi abbiamo già dato”. Capisco. Ricordo. Ma la storia (succede sempre così nelle svolte importanti) comincia adesso. Comincia quando capisci dalle parole, dai fatti, dal rischio a cui ti espone chi ti governa, di vivere in un momento di emergenza. E non vuoi stare zitto e pensare ad altro. La prima risposta è di esserci, uniti e indignati.
Esattamente come sta accadendo in questi giorni.
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L’Introduzione di Stefania Scateni e Beppe Sebaste
Dissidenti era la formula che, non senza amarezza, abbiamo lanciato durante la preparazione del Forum di Parigi, “Italia, la resistibile caduta della democrazia”, organizzato dal Collège International de Philosophie il 12 gennaio 2002 presso l’Ecole Normale Supérieure. Dove il pubblico, stipato e partecipe, chiese incredulo che cosa aspettasse ancora l’opposizione di sinistra ad organizzare manifestazioni di ferma protesta contro il governo. Ripresa da Dario Fo nelle frasi raccolti per il convegno e pubblicate anche da Le Monde lo scorso gennaio – questa parola “dissidenti” – ha avuto una larga eco. La mancanza di un’opposizione convinta e con-vincente (presupposto necessario affinché sia vincente) ha lasciato un grande spazio al dissenso individuale. Dissidenti e indignate sono state in queste ultimi mesi le proteste spontanee di lavoratori, studenti, insegnanti, il corteo dei professori dell’ateneo di Firenze, le manifestazioni di cittadini, magistrati, cineasti, uomini di teatro, scrittori, filosofi e uomini di scienza – tutte a colmare il vuoto e le carenze di un’opposizione politica e culturale a questa estrema destra italiana che desta scalpore in Europa.
Queste manifestazioni invitavano i partiti della sinistra a risvegliare se stessi, al fine di risvegliare una maggioranza di italiani addormentata, o per meglio dire drogata, da un regime arrogante guidato da pubblicitari di mestiere. Ma l’accelerazione degli eventi è stata improvvisamente tale da trasformare quella dissidenza in un antagonismo diffuso: Roma, Milano, Bologna, Torino, Napoli e tante altre città hanno visto la partecipazione di decine di migliaia di oppositori, mentre scioperi spontanei hanno cominciato a scuotere il mondo del lavoro. Non si tratta più del dissenso di individui isolati e indignati. Ormai si tratta di un movimento, alla cui identità è dedicato in questo volume il testo di Francesco Pardi.
C’è una bella canzone di Lou Reed il cui ritornello ripete con ironica perentorietà l’invito a uscire “out of our closets”, “fuori dai nostri armadi”, Negli Usa fu usata dai movimenti di liberazione omosessuale e di altre minoranze. Qualcuno di noi l’ha usata spesso come metafora per invitare colleghi scrittori e intellettuali in genere a uscire dai loro studi, dai propri armadi di carta e di pensiero, e andare fuori, lavorando sul campo – sul terreno, come dicono i fotografi. Questo andare nel mondo, invito alla “politica” nel suo senso più elementare (che va certo rivolto, e con maggiore urgenza, ai politici di sinistra) non significa certo aderire a un linguaggio prestabilito, lasciare il proprio lavoro sui segni e le parole per abbracciarne un altro più “impegnato”. Al contrario, è sufficiente amare la bellezza (parola ormai sovversiva), amare la poesia, praticare linguaggi non finalizzati e non degradati, non asserviti a una demagogia o a un progetto pubblicitario. È sufficiente cioè comportarsi da persone libere per avversare chi ha fatto anche della parola libertà uno slogan vuoto e grottesco. Dissidenti, antagonisti, resistenti sono quindi le voci di coloro che, in vari ambienti, si oppongono all’attuale imbarbarimento che il regime instaurato da Berlusconi e i suoi alleati rappresenta nella società italiana e nella vita pubblica. Per fare sentire, quasi come un nuovo umanesimo, che esistono linguaggi anche pubblici che non si piegano né alla finanza né alla pubblicità, che non sono sostituibili né acquistabili. Che non sono in vendita. Che sono diversi di natura e non solo di grado da questa dittatura in larga parte mediatica che, per quanto detta “morbida” (ma fino a quando?) non è priva di violenza, come ricordano a proposito di Genova alcune delle testimonianze in questo libro, e come dimostra ogni giorno il governo predicando e praticando razzismo, esclusioni, prevaricazioni, negazioni di diritti.
In una situazione in cui prevale oggi il massimo consenso e la massima intolleranza, in questo libro si affermano il massimo dissenso e la massima tolleranza. In questo le voci sono unite, e formano un “noi”. Anche se, come ci ricorda qui Fulvio Papi, condividere un “nemico” non basta, occorrerebbe produrre “un proprio autonomo evento che sarebbe la poeticità della cultura”. Una poeticità che non è in vendita, appunto, e che, al contrario del nuovo regime, non possiamo non immaginare sobri e povera, terribilmente povera di lustrini e riflettori.
Il libro offre, quasi in presa diretta, un primo provvisorio ventaglio di voci contro il regime. Il montaggio segue un ordine cronologico. Dopo gennaio, molti altri interventi si sono aggiunti di poeti, narratori, disegnatori, filosofi. Nell’ultima parte del volume il lettore troverà infine alcuni degli interventi racconti da Ginevra Bompiani e Gianni Dessi nel corso della campagna elettorale del 1994, che vide la prima vittoria elettorale di Berlusconi e dei suoi alleati: Controjoker: Le ragioni della ragione era il titolo delle testimonianze di artisti e scrittori contro Berlusconi. Li riproponiamo tali e quali, perché è uno shock salutare accorgersi che, a distanza di anni, valgono le stesse parole, le stesse paure, come se da allora tutto fosse restato congelato o ibernato. Come se non ci fosse stato un governo di segno diverso. La posta in gioco è e rimane la stessa. Proviamo per un attimo a riepilogarla.
Ci si ricorderà della battaglia contro l’invasione pubblicitaria nei film trasmessi dalle Tv di Berlusconi, quando scese in campo anche Federico Fellini. Nella nostra memoria si tratta dell’ultima autentica battaglia di civiltà della sinistra italiana. L’unica in cui la sinistra non fu succube della destra, non alzò il dito per dire “state esagerando”, ma si era accorta che è proprio sul piano del linguaggio e dell’espressione che si determina il destino di una civiltà o di una barbarie. Mentre oggi nelle scuole comincia a vietarsi perfino una parola liberale come quella di Norberto Bobbio (è sufficiente essere liberali, oggi, in questo Paese, per sentirsi rivolgere l’accusa di “comunismo”), vogliamo ricordare quello che scrisse il filosofo di Torino all’indomani della prima vittoria di Berlusconi:
“Perché è accaduto tutto questo? Io credo che determinante sia stata la televisione, ma non nel senso che Berlusconi sia apparso in video molto più di altri, bensì perché la società creata dalla televisione è una società naturaliter di destra. È la società del Festival di Sanremo, dello sport, degli spot, di Pippo Baudo, Mike Bongiorno, Beautiful e simili (...) Non ha vinto Berlusconi in quanto tale, ha vinto la società che i suoi mass media, la sua pubblicità, hanno creato. È la società che gode nel vedere insulse famigliole riunite intorno ad un tavolo che glorificano questo o quel prodotto...£ (La sinistra nell’era del karaoke).
Se ricordiamo l’altissima percentuale di chi in Italia non ha raggiunto il diploma di terza media, e l’impressionante numero di ore di televisione che una moltitudine di italiani vede in media ogni giorno (lo ricordava di recente lo storico Paul Ginsborg), abbiamo l’esatta percezione della mutazione antropologico-culturale governata della destra che, dopo averla troppo a lungo sottostimata, la sinistra tradizionale ancora stenta a riconoscere nella propria autocritica.
Quando lo scorso dicembre, in Francia, un proprietario di Tv, oggi padrone anche dell’americana Universal, Jean-Marie Messier, ha minacciato, in nome della concorrenza e della diversità culturale, l’”eccezione culturale francese” (un’esemplare serie di regole che incoraggia e finanzia la produzione cinematografica francese indipendente), una valanga di no è stata rivolta alle mire americane del magnate imprenditore, che vorrebbe sommergere le Tv francesi di film americani (lui che ne possiede una delle maggiori case di produzione). La parola d’ordine è stata: non vogliamo che esista un solo modo di raccontare le storie. Non è una cosa da poco, né si tratta solo di una vicenda simbolica.
Se ci sono moltissime buone ragioni, tutte importanti, per avversare il nuovo totalitarismo che sta governando oggi l’Italia, la lotta contro il linguaggio unico della pubblicità e dell’aziendalismo dovrebbe da sola mobilitare le energie intellettuali e artistiche senza distinzioni di parte. Gli studenti che ci sono appesi al collo il cartello “non in vendita”, fratelli minori di quegli studenti che, più di dieci anni fa, manifestavano contro la “berlusconizzazione” delle scuole e delle università, contro la trasformazione di un’educazione e un0istruzione in un generale “corso di formazione” asservito alle imprese, erano e sono i continuatori di quella civile battaglia contro gli spot pubblicitari nei film, che trasformano e diluiscono ogni storia e ogni emozione in un’immensa marmellata pubblicitaria. Imporre un solo modo di apprendere e di educare, di raccontare le storie, di guardare il mondo; massacrare i film, le storie, l’immaginazione, non è diverso dal voler massacrare i diritti dei lavoratori e ogni altra libertà. Si tratta della stessa marmellata che sta invadendo come un blob ogni spazio delle nostre vite e delle nostre menti (lo chiamano “consenso”). E come ha scritto un poeta, è molto difficile “nuotare in un lago di marmellata”.
Ma è la situazione in cui questa destra ha consegnato il Paese: un pensiero unico, un linguaggio unico che ha per sovrapprezzo il primato dell’impudenza e della volgarità. Con una sola, vistosa e forse irreversibile assenza: quella del senso della vergogna.
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