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Sagarana La Lavagna Del Sabato 16 Marzo 2013

POSTFAZIONE AL SAGGIO "INDIGNADOS" DI ENRIQUE DUSSEL



Un testo del 2012 che riflette sulla leadership di Chávez, di Lula, del popolo al potere e della rabbia dei giovani in Occidente


Antonino Infranca


POSTFAZIONE AL SAGGIO



 

L’attuale crisi del sistema capitalistico sta aprendo panorami imprevedibili fino a qualche anno fa. Il movimento globale degli Indignados è senza dubbio uno dei meno prevedibili, perché è nato e si è sviluppato in situazioni estremamente diverse e in luoghi diversi del globo. Negli Epiloghi della sua Lettera agli Indignados Enrique Dussel lo mette chiaramente in rilievo. Per lui Indignados non sono soltanto i giovani spagnoli che hanno occupato le piazze principali delle città spagnole o i giovani israeliani che si sono accampati nel centro di Tel Aviv o il movimento Occupy Wall Street a New York, ma anche i giovani egiziani, tunisini, libici che hanno rovesciato i loro regimi dittatoriali.
Potremmo, quindi, considerare Indignados anche i giovani siriani che lottano settimanalmente contro un sistema dittatoriale brutale e sanguinario, seppure non possano occupare stabilmente alcun luogo della Siria; o ancora potremmo considerare Indignados i russi che protestano contro un regime, solo apparentemente democratico, in realtà autoritario, che si sta evolvendo verso una vera e propria dittatura; o ancora gli ungheresi democratici che contestano un governo fascista, razzista, nazionalista ed etnocentrico. Essere indignado significa oggi essere contro il capitalismo globalizzato permotivi diversissimi, ma sostanzialmente perché non si puòpiù progettare un futuro proprio, non si può più delineare unprogetto di vita che superi l’arco di tempo di qualche anno.
Essere indignado signifi ca anche non essere più in grado di negoziare gli obiettivi minimi che spingono a protestare, perché le condizioni di vita a cui i giovani sono ridotti sono totalmente incompatibili con la riproduzione del capitale, del sistema dominante politico ed economico.
Infatti un primo e immediato dato comune a tutti gli Indignados del mondo è il fatto che la stragrande maggioranzadi loro è formata da giovani. Siamo alle soglie di un nuovo’68? Difficile dirlo, ma è un dato di fatto che il sistema nonoffre futuro ai giovani. Ed essere giovane significa esserenella condizione di avere il vigore della dignità. Sembraun destino segnato fi n nelle parole della lingua originariadell’Occidente, infatti in sanscrito “forza” e “giovane” siindicano con la stessa parola e cioè bala. E come ricorda ilMarx delle “Glosse a Wagner” avere dignità signifi ca essere dignus, cioè “avere valore” e in sanscrito “validità” è ancorauna volta bala. Quindi essere giovani significa avere valore,perché si ha vigore. Da questi giovani si può aspettare unavigorosa protesta di indignazione, perché l’indignazione necambia lo stile di vita, crea nuova forme di aggregazione socialenelle piazze che occupano. In latino essere indignatoè indignatio commutatus, cioè essere cambiato dall’indignazione.
Ancora in sanscrito abhyasuya è “indignazione”, ma anche “rabbia”, e asuya è sia “intolleranza” che “indignazione”. L’indignato è colui che non può più tollerare una situazione per lui divenuta insostenibile. In tutto ciò c’è anubhava che è “determinazione”, “risoluzione”, “fermezza”, ma anche “dignità”. Siamo di fronte a una tradizione dell’Occidente di indignazione a ciò che non può più essere sopportato e che apre a una condizione nuova, allo stato di ribellione che trasforma, emancipando da un presente oppressivo.
Siamo entrati nell’epoca della manyu, della “passione”. Il futuro sarà segnato da queste passioni scatenate? Difficile dirlo, certamente il presente è fortemente segnato da questa presenza passionale, da queste piazze occupate con rabbia antisistemica.
Altra osservazione minima è che gli Indignados sono la palese dimostrazione che il sistema ha fallito, perché nella sua spasmodica ricerca del tasso di profitto non ha più tenuto conto della forza lavoro. Il fordismo aveva sviluppato un sistema in cui la forza lavoro, o meglio il lavoratore, era
sempre integrata in ogni singolo aspetto della vita del lavoratore, intima e sociale, psicologica e razionale, singola e collettiva: aveva fondato un in-dividuum, un essere unico, dove tutti gli aspetti potevano essere controllati dal sistema dominante. Oggi una infi ma minoranza della società civile ha concentrato nelle sue mani una ricchezza tale che la stragrande maggioranza non può più sviluppare un progetto di vita possibile. Quell’in-dividuum è stato diviso dallo stesso sistema economico che lo aveva prodotto. La sua forza lavoro, il lavoro vivo, è separato dalla riproduzione della stessa forza lavoro, c’è chi consuma senza produrre e chi produce senza consumare. I giovani europei si trovano nella condizione di consumare una ricchezza prodotta dai loro genitori, ma non hanno prospettive di produrre una propria ricchezza. I lavoratori della periferia del sistema producono ricchezza, ma hanno consumi contenuti e limitati. La distribuzione della ricchezza restituirebbe alla società civile umana, cioè all’intera umanità, la possibilità di progettare la propria vita.
La proposta politica di Dussel viene da una realtà sociale in cui la protesta è ancora concentrata su obiettivi concreti: lo stesso Dussel ricorda che l’unico movimento di Indignados, attualmente in atto in America latina, è quello degli studenti cileni. In realtà, però, in America latina i movimenti di indignazione sono molto più antichi, perché sono stati movimenti indigeni che rivendicavano il riconoscimento della dignità umana. Lo stesso Dussel ricorda i movimenti critici nei confronti del sistema dominante che si sono sviluppati in America latina nel corso del Novecento; ma potremmo risalire addirittura al momento iniziale della conquista del continente per ritrovare tracce della critica al sistema dominante presso le popolazioni latinoamericane. Gli Indignados di oggi hanno un predecessore nelle lotte indigene che hanno portato alla Presidenza della Repubblica boliviana Evo Morales, oppure ai movimenti di lotta sociale che hanno portato alla Presidenza della Repubblica
bolivariana del Venezuela, Hugo Chavez. Proprio all’esperienza di Chavez Dussel fa riferimento quando parla di “leadership carismatica” ed è consapevole che si tratta di un punto critico della sua Lettera agli Indignados. È un punto critico perché la nostra cultura politica europea ha vissuto tragicamente i momenti politici in cui un leader dominava la scena politica. Mi riferisco sostanzialmente alla prima metà del Novecento, quando Führer o Duce o Caudillo erano termini del lessico quotidiano della politica e gli europei se ne sono liberati a costo di enormi sacrifici. La figura di un Ceaucescu, il Conducator comunista rumeno sarebbe apparsa ridicola, se non fosse stata in realtà una tragedia per il suo popolo. Anche Berlusconi ha assunto fattezze da leader, ma per fortuna è rimasto relegato al campo del ridicolo.
Non c’è dubbio che il leader, carismatico o meno, è un elemento di relazione tra cittadini e potere, ma può essere anche un elemento di usurpazione della potentia politica, altrimenti detto il “potere naturale”, dei cittadini da parte della potestas, il potere istituzionale, di un uomo solo, il Capo. Il leader carismatico solitamente indica una metà, un fine da raggiungere affinché il progresso della nazione aumenti. Troppo spesso, invece, il Capo indica nemici della causa nazionale, oppure in versione ridotta della sua causa personale scambiata per causa nazionale, riuscendo a mobilitare le masse con processi mediatici isterici o euforici, ma sempre finalizzati all’impedimento di un’analisi razionale della situazione politica e sociale ed economica. Il leader a cui si riferisce Dussel è una fi gura analoga a quella a cui si riferisce Gramsci con il suo “cesarismo progressivo”, cioè un leader che è capace di divenire il protagonista di un cambiamento rivoluzionario radicale, a partire dall’alto, della società civile. È qualcosa di più dell’individuo “cosmico-storico” hegeliano, perché è portatore di valori e progetti politicamente possibili, perché corrispondono a richieste ed esigenze della società civile o di ampi strati di essa. Non è una fi gura o un ruolo politico che è consono ai tempi attuali, che sono dettati dal sistema dominante, perché adesso si preferiscono i tecnici, gli esperti di economia e finanza, che possono essere anche figure mediatiche, che piacciono per la loro apparente presentabilità unita a una superficiale riflessione politica.
Dussel si richiama piuttosto a programmi politici. Appare strano a noi europei il suo riferimento a personaggi che ci vengono presentati come folcloristici dai nostri media, come Chavéz, ma che in effetti stanno imponendo dall’alto un cambiamento radicale alle loro società civili. Il riferimento a Chavéz è dovuto al fatto contingente che Dussel ha presentato l’analisi politica della fi gura del leader proprio a Chavéz, in occasione di un importante riconoscimento culturale offertogli. In altri scritti Dussel ha fatto appello a Morales, presidente della Bolivia, o a Lula, ex-presidente della repubblicana brasiliana, come leader di maggior peso politico. Non dimentichiamo, però, che Chavéz si è reso protagonista di cambiamenti radicali dal punto di vista costituzionale, quindi della struttura fondamentale dello Stato di diritto, che sarebbe opportuno riportare anche nelle nostre costituzioni, come il Potere delegato ai rappresentanti politici, che implica una rappresentanza ristretta dal controllo civico. Il Potere civico è l’altra novità connessa al Potere delegato, in quanto i cittadini possono revocare il mandato di rappresentanza, raccogliendo un numero prefissato di firme e confermando in elezioni, appositamente convocate, la volontà revocativa del potere precedentemente concesso.
Inoltre il potere di leadership, per Dussel, è sempre proveniente da un atto di obbedienza alla volontà popolare, il leader può comandare se obbedisce alla richieste e alle esigenze popolari. Questa concezione del potere obbedenziale proviene dall’esperienza dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, cioè dal movimento zapatista in Chapas.
Il leader, quindi, non esercita arbitrariamente e autoritariamente il potere, ma sempre sotto il controllo del mandato popolare e alla condizione di obbedire alle esigenze della società civile. Naturalmente nel caso di Chavéz, ciò avviene in forme che possono apparire a noi europei folcloristiche, specialmente se rappresentate da mezzi di comunicazione di massa che sono, in fondo, legati ad aziende che hanno contrasti con Chavéz. Attualmente il movimento degli Indignados non ha alcun leader, anche perché nasce dalla disperazione diffusa, vissuta comunitariamente, la cui analisi è immediata, né tantomeno pare che un uomo possa avere nelle proprie mani la soluzione a una situazione tanto disperata. Dussel suggerisce che, se dovesse trovare una leadership, questa dovrebbe essere sottoposta al Potere delegato, al Potere civico e al Potere obbedenziale.
L’esperienza attuale delle trasformazioni politiche, che pongono l’America latina all’avanguardia della lotta di emancipazione popolare, quanto è valida per la lotta degli Indignados? La risposta è unanime: completamente valida. Anche da una superficiale conoscenza degli obiettivi di lotta delle popolazioni latinoamericane rende coscienti che questa lotta fu condotta per raggiungere l’obiettivo di dare la possibilità a tutti i latinoamericani di sviluppare un progetto di vita, cioè proprio quello che inizia ad essere negato nel centro del sistema dominante ai cittadini degli Stati più avanzati e progrediti. La precedente esperienza di lotta dei latinoamericani è valida universalmente proprio perché è stata lotta per la vita, per una vita degna di essere vissuta, come l’avevano i cittadini dei paesi avanzati; vita che, adesso, una minoranza di esseri umani inizia a rendere impossibile alla maggioranza degli esseri umani, non solo ai cittadini dei paesi meno avanzati, ma a tutti gli esseri umani.
Proprio dalla difesa del diritto ad una vita degna di essere vissuta parte il fondamento della rifl essione di Dussel. Già nell’Etica de la liberación en la edad de la globalización y de la exclusión (Madrid, Trotta), la sua monumentale opera del 1998, Dussel si era soffermato nella definizione di cosa significhi una vita degna di essere vissuta. La riflessione politica di Dussel segue la linea rossa di continuità con quella rifl essione sull’etica nell’altra opera sistematica che è in corso di stesura, La Política de la Liberación (Trotta, Madrid, 2007 e 2009), della quale sono stati pubblicati due grossi volumi ed è in corso di redazione il terzo e definitivo, poi ripresa più sinteticamente in 20 Tesi di politica, che è stata da me tradotta in italiano (Asterios, Trieste, 2009).
La riflessione politica di Dussel nasce anche dall’esperienza dei popoli latinoamericani, o meglio dei pueblos, delle piccole comunità che diventano grandi comunità nazionali e statali per affrontare adeguatamente gli enormi problemi della loro vita quotidiana, unendosi in movimenti di lotta comuni dentro uno Stato e, in qualche caso, come quello del Movimento dei lavoratori Sem Terra, anche al di là dei confini statali. Lo stesso problema si presenta agli Indignados europei: essi hanno in comune i problemi con i quali vivono, perché oggi gli Indignidas vivono un problema comune, la vita futura. Gli Indignados sono una comunità che sta facendo storia, che si sta liberando – come nella Primavera araba – o che anela alla liberazione – come nelle piazze europee o negli Stati Uniti. Comunque il consenso attorno a loro va crescendo, perché cresce il numero di coloro che hanno problemi, cresce il numero dei poveri, mentre diventa sempre più esiguo il numero dei ricchi, anche se cresce la loro ricchezza.
Gli Indignados stanno lottando ovunque per l’umanità e, seppure diversi tra di loro, rappresentano, in fondo, l’intera umanità. È una forma di lotta che sta mostrando l’appartenenza di tutti gli uomini al genere umano, appunto perché si combatte per la riappropriazione della propria vita quotidiana in senso politico, sociale ed economico, quindi umano.
La comunità degli Indignados, questa sorta di avanguardia in lotta per il resto del genere umano, è soggetto di una potentia, per dirla nel lessico politico di Dussel, rifiuta la potestas delle istituzioni oggi esistenti e si candida a di ventare potestas di se stessa, cioè vuole esercitare il potere politico che la governa e l’amministra. Questo è un momento straordinario della storia, uno di quei momenti in cui ciascun individuo vuole autogovernarsi, in cui le masse, i popoli, la gente, per usare le parole più usate della recente filosofi a politica, – io direi più semplicemente gli esseri umani – vuole tornare ad essere padrone del proprio potere, del proprio futuro. Stiamo vivendo in un stato di
ribellione.
Come ogni stato di ribellione, questo attuale, nel senso che è in atto e non è soltanto contemporaneo, perché tutti vi siamo coinvolti, non può essere eterno. La potentia dovrà, in un certo momento ancora imprevedibile, diventare potestas. La rivoluzione permanente non è possibile, è necessaria la rappresentanza, ma per non ricadere in una politica corrotta, che si allontana dai problemi veri degli esseri umani è necessario imporre un potere delegato obbedenziale.
I rappresentanti dei cittadini devono obbedire alle esigenze di quelli, soltanto obbedendo potranno comandare soluzioni a quelle esigenze. Si tratta di una rappresentanza ristretta, sempre sottoposta al controllo della partecipazione continua e costante dei cittadini. Si tratta di una restituzione di potere o un’appropriazione di potere da parte dei cittadini nei confronti della classe politica.
Ho tradotto letteralmente questo concetto di Dussel con la parola impoterimento per mantenere anche foneticamente la forza della parola castigliana empoderamiento, come se fosse un impossessarsi del potere, che in realtà non è un impossessarsi, ma una riappropriazione di ciò che era già proprio, perché il potere politico è dei cittadini, se si vuole dirla alla maniera del giusnaturalismo, del popolo.
Naturalmente in una situazione di tale controllo è necessaria la trasparenza delle istituzioni, dei rappresentanti, delle leggi e soprattutto l’esistenza dello Stato di diritto. Questo è uno dei punti più delicati della storia del movimento rivoluzionario dei lavoratori. Tradizionalmente i lavoratori volevano abbattere lo Stato di diritto, perché lo confondevano con lo Stato borghese, permettendo l’edificazione di Stati comunisti fondati sull’arbitrio e sulla negazione dei diritti umani. Pochi intellettuali nel movimento rivoluzionario o nello stesso marxismo hanno preso posizione a favore del mantenimento e nel rafforzamento dello Stato di diritto.
L’ultimo Lukács sostenne che il socialismo avrebbe dovuto mantenere lo Stato civile borghese, non perché borghese, ma perché civile. Dussel ritorna su questa questione e prende posizione per una trasformazione radicale del sistema vigente, ma sempre mantenendo e anzi rinforzando lo Stato di diritto, perché è lo strumento migliore per la realizzazione dei diritti di tutti, a partire dagli esclusi. Si pensi a come i deboli, politicamente parlando, vengono esclusi dai diritti umani; mi riferisco al caso dei portatori di handicap, troppo spesso dimenticati nei programmi politici dei partiti, e che vengono esclusi sempre più, perché non vengono sostenuti economicamente e praticamente dai servizi dello Stato. La giustificazione è che la crisi sta asciugando le casse dello Stato, ma non si può misurare l’offerta di servizi essenziali, come quelli a un portatore di handicap, sulla base della disponibilità economica dello Stato. Quei servizi devono essere precedenti a qualsiasi altra funzione dello Stato, sicuramente prima delle spese per l’attività politica, perché lo Stato è al servizio dei cittadini nel completo espletamento della loro personalità (art. 3 della Costituzione Italiana).
Questo è il caso concreto in cui una minoranza viene usurpata dal proprio diritto a una vita degna, perché non ha una rappresentanza rilevante, dal punto di vista politico, che difenda i suoi diritti all’interno dello Stato di diritto.
Dussel si sofferma a lungo sul contrasto tra partecipazione e rappresentanza, mostrando come nella politica borghese la rappresentanza ha schiacciato la partecipazione, non escludendo l’opzione di abolire la democrazia per governare, come è accaduto nell’epoca del fascismo e come sta avvenendo oggi in Ungheria. La democrazia è, comunque, rimasta sempre limitata, perché limitata è stata la partecipazione politica dei cittadini. A costoro si chiede di partecipare alla politica soltanto nei momenti delle elezioni per confermare o smentire con il voto libero e segreto l’azione dei governi in carica. In realtà, però, sono esclusi dalle decisioni dei cittadini i momenti più importanti della loro vita, non c’è effettiva partecipazione alle decisioni politiche, piuttosto esclusione dalle decisioni, anche dalle più fondamentali. Prendiamo l’esempio dell’introduzione dell’euro: nessuno di noi italiani è stato consultato, tramite un referendum, se voleva cambiare o meno la moneta, che è uno dei mezzi più importanti in una società civile avanzata per agevolare il ricambio organico con la natura, per dirla con il lessico di Marx, o per dirla con il Dussel marxista è un mezzo per la riproduzione della propria vita. Adesso che questa moneta è in crisi, tutti noi italiani siamo chiamati a difenderla o a rifondarla, ma in fondo la dobbiamo difendere dall’azione fallimentare dei rappresentanti e dei tecnici che si erano dati il compito di governare l’euro.
Siamo in palese presenza di un caso di assenza di democrazia economica, perché il sistema politico è oggi organico allo sfruttamento e alla sopravvivenza del modello capitalistico, non alla sopravvivenza dei cittadini e della società civile. Un’altra politica con l’attuale classe dirigente, oggi al potere, non è possibile, perché questa classe dirigente impone forme di democrazia limitata, quindi forme politiche in sostanza non democratiche.
La democrazia borghese è una democrazia limitata, perché non permette ai cittadini di esercitare il diritto di scelta su fondamenti supremi della vita quotidiana. La tendenza presente nel capitalismo odierno è la richiesta continua di sempre maggiore libertà di scelta e di azione nel campo
economico. L’imprenditore vuole liberarsi dei lavoratori che non sono ideologicamente affini a lui, vuole utilizzare i lavoratori a suo comodo senza oneri sociali, vuole libertà completa per il proprio movimento nella seconda natura, cioè nella società. È un palese ritorno a forme di politica e di economia precedenti alla crisi del fordismo nel 1929.
Marx aveva avvertito che il libero movimento nel materiale è impossibile, così nascono i movimenti di resistenza e i cittadini si indignano. La prima risposta è sempre la più facile, perché è quella brutale, così la civilissima Catalogna, governata da uno dei più etnocentrici governi che si possa immaginare, ha scatenato una brutale repressione contro gli Indignados di Barcellona, seguita a ruota dai governi criminali di Tunisia, Egitto, Libia, Siria e Yemen. Anche il governo statunitense, mai secondo a nessuno nell’uso della violenza, non è rimasto a guardare e ha agito violentemente, salvo poi concedere spazio di protesta alla condizione di non impedire il libero movimento del capitale, così gli Indignados statunitensi hanno il loro spazio di protesta, ma lontano da Wall Street, dove il capitale si riproduce liberamente.
In Italia non abbiamo un movimento di Indignados perché la corruzione della nostra classe dirigente (dominante?) è tale che non ha bisogno di esercitare praticamente la violenza più brutale. Non manca, però, l’uso della violenza più subdola e sottile: un ministro, che è una donna, consapevole degli enormi sacrifici che chiede ai cittadini, scoppia in lacrime nel dichiarare le azioni politiche che sta mettendo in atto. Il presidente della associazione delle banche italianedichiara con innocente arroganza che lui guadagna soltanto 3 milioni di euro all’anno e non le centinaia di milioni dei suoi colleghi statunitensi. L’arroganza consiste nel fatto che non è neanche in grado di capire che sta dichiarando di guadagnare cento volte più degli impiegati delle banche che rappresenta. È proprio questa la percentuale di divisione dell’umanità oggi esistente: il 99% è rappresentato dal proletariato, o per dirla con Ricardo Antunes di gente-che-vive-di-lavoro, e 1% di ricchi che governa e domina il primo. Siamo di fronte a un grottesco e pericoloso caso di evoluzione dell’umanità, pericoloso per il Pianeta Terra, per la vita, per l’uomo. Il problema è in effetti il capitalismo e la realtà effettuale che esso ha creato, che oggi spinge gli esseri umani a non avere un futuro vitale.
Il cittadino comune, forse, non percepisce l’ipertrofi a delle forze dominanti sul pianeta. L’enormità delle dimensioni del sistema dominante, da un lato, e la piccolezza del singolo individuo, dall’altro, sono complementari all’esercizio arbitrario del potere. Lo sono sempre stati; si pensi, ad esempio, al primo efficiente sistema di dominio totalitario, cioè alla Chiesa cristiana medievale, e alla distanza che caratterizzava il vertice della Chiesa, a Roma, e l’indifferente valore, dignità, del fedele cristiano, del servo della gleba, della donna o del fanciullo, della vecchia, che potevano
vivere anche alla periferia di Roma o ai confini della cristianità, erano sempre considerati un nulla rispetto a quel vertice del potere. Quel vertice si arrogava il potere sulla vita futura, sulla vita dopo la morte, anche perché non aveva i mezzi, o riusciva a pensare ai mezzi, per garantire la vita in questa vita, cioè a garantire la vita prima della morte. Così si poterono condurre campagne di sterminio di massa contro le donne, isteriche o meno, vecchie o giovani, oppure realizzare il primo generale Olocausto della storia in America, contro una popolazione pacifica, che viveva secondo il proprio sistema economico, in assoluta ignoranza dell’esistenza dell’Europa, del cristianesimo, del Papa. Proprio l’esercizio totalmente arbitrario della potestas contro questi esclusi, contro gli indios dell’America latina, ha corrisposto al fallimento morale del cristianesimo e all’inizio della Modernità.
Oggi stiamo rivivendo un momento simile di passaggio epocale: da una parte c’è un’élite che vive dei propri privilegi, dall’altra parte la maggioranza dell’umanità che sopravvive nella propria esclusione. Siccome la distanza tra il centro del potere, dell’Impero, è talmente grande, la maggioranza degli esclusi crede che l’esclusione sia una condizione naturale, una legge di natura. Una piccola minoranza di questa maggioranza di esclusi si è indignata, ha sentito sorgere dentro di sé un sentimento di appartenenza a qualcosa e di sottrazione ad essa: si sente sottratta a una vita possibile.
Gli Indignados hanno conservato il rispetto di se stessi, rispetto che la maggioranza degli esseri umani sta perdendo. I problemi che gli Indignados si trovano ad affrontare in questa seconda fase del loro movimento sono evitare l’isolamento dalla società civile, il rimanere legati ad una posizione politica che Hegel definirebbe della “mera negatività”, del sapere dire no, nel protestare, ma non sapere avanzare proposte. Se gli Indignados dovessero limitarsi a chiudersi in una piazza, a suonare le chitarre, a stare insieme senza trovare un progetto alternativo al sistema dominante, allora sarebbe confermato il sospetto che accompagna la sinistra dalla sua nascita nella modernità: è più facile condurre una lotta politica senza un capo (anarchia) che proporre e realizzare un cambiamento radicale nella società. Una decina di anni fa la sinistra argentina fu scossa dalla pubblicazione di un libro: Cambiare il mondo senza prendere il potere dello scozzese John Holloway. Era il libro adatto al momento politico del Cacerolazo, della protesta di piazza dei piccoli borghesi argentini che rivolevano indietro i loro depositi bancari. È vero che questi depositi, per la stragrande maggioranza dei borghesi argentini, rappresentavano la vita futura, una vecchiaia tranquilla dopo un’esistenza di lavoro, un futuro per i figli o per i nipoti, a fi anco a questa forte, ma politicamente ed economicamente sterile protesta, erano le fabbriche occupate dagli operai, perché abbandonate dai padroni, che fuggivano con i capitali, che gli erano stati concessi dallo Stato per far funzionare quelle fabbriche. Le fabbriche funzionavano meglio che sotto la conduzione capitalistica e, in qualche caso, aumentavano la produzione. Holloway era il leader intellettuale dei piccoli borghesi argentini, ma non degli operai che sapevano condurre una fabbrica, ma non sapevano come proporre un cambiamento radicale del sistema dominante. Holloway era un anarchico, gli operai erano lavoratori. Dussel aprì una polemica con Holloway sostenendo che bisogna prendere il potere per cambiarlo, che era uno dei punti di differenza tra l’anarchismo e il marxismo, fin dai tempi della Prima Internazionale.
Per questa ragione, Dussel suggerisce una rilettura del pensiero politico di Marx, rilettura che è uno dei punti fermi della riflessione di Dussel negli ultimi venti anni, cioè dalla caduta del comunismo. La fine del comunismo ha rappresentato per Dussel la caduta delle barriere che dividevano il marxismo dal cristianesimo e, quindi, ha rappresentato la ricucitura di un pensiero alternativo al sistema dominante e la ridefinizione di valori comuni, come la difesa della vita in atto, cioè della vita esistente. Dussel ha colto in Marx la presa di posizione etica a favore della vittima del sistema e, per questa ragione, si sta schierando al fi anco degli Indignados.
Il pensiero politico di Marx si fondava su due momenti, l’autocoscienza del proprio essere e allo stesso tempo l’apertura a tutti coloro che, trovandosi in situazioni analoghe, possono collaborare al movimento di protesta e allo stato di ribellione. Gli Indignados sono l’avanguardia di un movimento di radicale protesta e dello stabilimento di uno stato di ribellione che porta il sistema dominante ad un ripensamento dei suoi valori fondanti e, auspicabilmente, alla sua caduta. Naturalmente non si può puntare direttamente all’abbattimento del sistema dominante, ma si può – anzi si deve – lottare innanzitutto per la propria dignità, per la propria vita, per il proprio presente e per il proprio futuro. Si deve parteggiare per se stessi, perché non c’è altra alternativa, non esiste un altro mondo, se non quello che potrà nascere dalla propria lotta. Non è così scandaloso che Dussel si richiami all’esperienza rivoluzionaria leninista e maoista della guerra partigiana, intesa come la guerra di coloro che prendono parte, che parteggiano, che sono parte della società civile e a partire dalle posizioni della società civile difendono le proprie ragioni.
Se consideriamo la prassi politica messa in atto dagli Indignados, notiamo immediatamente un fatto straordinario: il ritorno al luogo originario della politica, la piazza. Le piazze occupate, le assemblee costanti, la discussione su tutti i dettagli della questione analizzata, nel pieno rispetto della tesi opposta e senza presenza di organizzazioni politiche, come i partiti, preposte alla prevalenza di una tesi su un’altra, sono i tratti tipici della autentica politica, non solo democratica, ma della politica tout court. La politica nacque dal confronto dialettico tra esseri umani che, seppure differenti, ritenevano opportuno discutere le proprie tesi in pubblico. Gli Indignados sono tornati a farlo, come puntualmente avviene ogni volta che le istituzioni politiche non sono capaci di risolvere le esigenze della società civile.
Per questo motivo, gli Indignados rappresentano oggi la punta più avanzata dello sviluppo politico della società civile. Possono diventare anche qualcosa di più, se le loro assemblee potessero trasferirsi dalla piazza alla fabbrica, se la classe operaia copiasse il loro esempio e iniziasse a discutere non solo della gestione della fabbrica, ma dell’organizzazione del lavoro, delle strategie di sviluppo economico.
Si pensi all’imponente tentativo, in corso, di svuotamento e spostamento della più grande azienda produttiva italiana, la Fiat, e a come la classe operaia potrebbe affrontarlo con assemblee, dove discutere di de-localizzazione o di snellimento del processo produttivo. Naturalmente a sostegno di queste forme assembleari di autogestione economica dovrebbero intervenire le istituzioni politiche, che dovrebbero garantire il controllo operaio delle fabbriche, abbandonate dal capitale, dopo aver ricevuto fondi statali per stimolare la produzione industriale. Avvenne proprio questo in Argentina nel 2002, quando il governo peronista appoggiò l’appropriazione operaia delle fabbriche che i padroni abbandonavano al proprio destino. L’appoggio governativo non durò a lungo, perché i partiti operai non avevano la forza di occupare democraticamente le istituzioni a causa della loro ridottissima forza elettorale.
Le istituzioni politiche sono oggi occupate da una élite che le utilizza come strumenti di sfruttamento della comunità nazionale. Solo in Italia questa èlite, che è chiamata “casta”, ha trovato un leader, appunto Berlusconi, altrimenti in tutto l’Occidente si nota una rotazione dei leader senza il primeggiare di alcuno, alla condizione, però, di mantenere la maggioranza dei cittadini privi dell’esercizio della potentia.
I leader vengono proposti dai media e dai media vengono fagocitati, i loro programmi vengono digeriti come slogan pubblicitari, e non a caso Chavéz si presenta in un programma televisivo come se fosse una stella della comunicazione televisiva. Appena tramontata la loro esperienza politica i leader spariscono, come gli slogan della pubblicità, di loro si dimenticano i programmi, che avevano una scadenza come merci alimentari. Ma dei leader si sente il bisogno, perché si sente il bisogno di politica, così se i leader sono destinati a sparire, rimane la classe dirigente, sempre più lontana dai cittadini, corrotta dall’esercizio del suo stesso potere.
La classe dominante si limita a distinguere potentia da potestas e pone la seconda contro la prima. Per rendere ancora più efficiente questa contrapposizione, in un momento di acutissima crisi come l’attuale, sono chiamati ad occupare le istituzioni, la potestas, i tecnici, personaggi a cui si richiede come dote politica indispensabile il grigiore umano, perché non devono mobilitare le masse, né tantomeno fare sorgere in esse sentimenti euforici o di partecipazione politica. Il carattere anonimo o anodino delle istituzioni può colpire ancora più efficacemente la vita quotidiana, addirittura la corporeità dei cittadini, sempre più esclusi dall’esercizio della potentia, fino al punto che essi non si riconoscono più soggetti di potentia, ma soltanto oggetti dell’esercizio violento della potestas. Ai cittadini rimane soltanto l’indignazione, un sentimento di perdita di valore. La classe dominante non riesce più a governare la vita quotidiana, sia perché questa classe dominante è corrotta, cioè si è allontanata dalla comunità, oppure usa il proprio potere, la potestas, contro la comunità, oppure perché è serva dell’altra classe dominante, quella economica, la vera classe dominante globalizzata, che, a sua volta, è dominata dai ceti legati al capitale finanziario, alla mera apparenza del
capitale, per dirla con il lessico di Hegel.
I ceti finanziari si fondano sull’astrazione del capitale, cioè il capitale che da capitale costante diventa semplice rappresentazione numerica della propria esistenza, una cifra su un conto che in quanto cifra può viaggiare con la velocità della luce per il globo per trasformarsi in azioni, ritornare capitale, divenire fondo di investimento e così via. Questa è la nuova forma di esistenza del capitale, che somiglia sempre più a un vampiro che svolazza nella notte della crisi alla ricerca di una vittima alla quale succhiare il sangue, come lo immaginò Marx. Questo capitale, questo vampiro, ha bisogno di un capitale costante mediante il quale riprendere la sua esistenza concreta, senza il quale rischia di svanire nel nulla dal quale è venuto. Così ha bisogno di trasformarsi in mutui per le case negli Stati Uniti o in Spagna, ma deve ritornare ad essere banconote, per poi essere reinvestito in fabbriche o, per meglio dirla, in lavoro vivo. Se non riesce a ritrovare velocemente la sua esistenza sotto forma di lavoro vivo rischia di diminuire di quantità, addirittura di sparire come vediamo di questi tempi quotidianamente. Alla mattina i media ci dicono di quanto svanisce la consistenza azionaria delle nostre banche, dei nostri vampiri, che ritornano nel mercato per trovare nuovi capitali, salvo pagare milioni di euro all’anno, e in qualche caso al mese, i loro dirigenti, nuovi vampiri che succhiano il sangue delle banche che dirigono.
Questa immagine truculenta è la rappresentazione del capitale che sta raggiungendo una delle sue più compiute forme di funzionamento, appunto il capitale fi nanziario. Marx aveva già anticipato questa fase del capitale. Sarà una fase finale?
Ci sono molti segnali che potrebbe essere la fase fi nale, non perché c’è un nemico che possa abbattere il capitale, come pensava di fare il comunismo, ma perché il capitalismo si fonda su un metabolismo distruttore, è un mostro che divora se stesso, perché è plasmato da uno spirito animale di continuo e costante sfruttamento del lavoro vivo. Ma è pur vero che siamo in presenza di un fenomeno nuovo: il lavoro vivo si offre al capitale, ma questi non ha sufficiente forza per impadronirsene in massa. Se ne sta impadronendo troppo lentamente, questa è la sua crisi. Miliardi di esseri umani muoiono di inedia ai margini del mondo capitalistico, altri miliardi di esseri umani vivono stentatamente al suo interno, entrambi si vedono negati nel momento di riproduzione della vita, quello che il fordismo garantiva sotto forma di consumismo. Il progetto di vita capitalistico non si può estendere a tutti e questo era chiaro da tempo, ma neanche gli esclusi possono restare
a guardare vedendosi negata una vita degna di essere vissuta.
Così una piccola pattuglia di questi esclusi, i giovani, riempiono le piazze e finora si sono limitati a dire: siamo indignati.
E dopo, cosa faranno?






Postfazione al saggio Indignados, a cura di Antonino Infranca. Casa editrice Mimesis, collana Eterotopie, Milano 2012.




Antonino Infranca
Antonino Infranca




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