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Sagarana La Lavagna Del Sabato 16 Febbraio 2013

LA GERMANIA E L’EUROPA OGGI



Discorso di apertura al Congresso SPD – Berlino 4 dicembre 2011


Helmut Schmidt


LA GERMANIA E L’EUROPA OGGI



Cari amici, signore e signori,


lasciatemi cominciare con una nota personale. Quando Sigmar Gabriel, Frank-Walter Steinmeir e il mio partito mi hanno invitato ancora una volta a portare il mio contributo, mi è tornato in mente quando 65 anni fa in ginocchio con Loki [soprannome della moglie] ho dipinto il manifesto di invito per la SPD ad Amburgo. Allo stesso tempo devo tuttavia riconoscere: rispetto a ogni politica di partito, io sono ormai giunto per effetto dell’età al di là del bene e del male. Già da tempo ciò che mi interessa in prima e anche in seconda battuta è costituito dai compiti e dal ruolo della nostra nazione nella dimensione ineludibile della cooperazione europea.

Nel contempo sono lieto di poter condividere questa tribuna con il nostro vicino norvegese Jens Stoltenberg, che, di fronte alla tragedia che ha colpito il suo Paese, ha dato a noi e a tutti gli europei l’esempio di una guida salda, ispirata ai principi dello Stato di diritto, liberale e democratica.

Quando si diventa molto anziani, si è portati a pensare in uno spazio temporale lungo, sia all’indietro nella storia, sia verso il futuro desiderato e sperato. Tuttavia, qualche giorno fa io non sono riuscito a dare una risposta univoca a una domanda molto semplice che Wolfgang Thierse mi ha rivolo: «Quando la Germania diventerà un paese normale?» Io ho risposto: nel futuro prossimo la Germania non sarà un paese normale. Di fronte a noi c’è il nostro immenso, per quanto irripetibile, carico storico. E oltre a ciò abbiamo di fronte la nostra posizione centrale, preponderante sul piano demografico ed economico, nel mezzo del nostro piccolo e multiforme continente, articolato in stati nazionali.

Con questo sono giunto nel mezzo del complesso tema della mia conferenza: la Germania in e con l’Europa .

1. Motivi e origini dell’integrazione europea

Anche se in alcuni pochi dei circa 40 Stati nazionali europei l’attuale sentimento nazionale si è sviluppato tardi (così in Italia, in Grecia e in Germania), esso tuttavia ha prodotto sempre e dappertutto guerre sanguinose. Si può interpretare questa storia europea – osservata dall’Europa centrale – come una successione senza fine di conflitti della periferia con il centro e viceversa. Il centro resta sempre il campo di battaglia decisivo.

Quando i detentori del potere, gli Stati e i popoli nel centro dell’Europa erano deboli, allora i loro vicini dalla periferia si spinsero avanti. La più grande distruzione e le perdite umane in proporzione più grandi ci furono nella prima guerra dei trent’anni, dal 1618 al 1648, che si è svolta per la parte essenziale sul suolo tedesco. La Germania era all’epoca semplicemente un’espressione geografica, definita in maniera non rigorosa solo come spazio linguistico. Più tardi vennero i francesi con Luigi XIV e poi con Napoleone. Gli svedesi non sono tornati una seconda volta, ma sono tornati più volte gli inglesi e i russi, l’ultima volta con Stalin.

Quando tuttavia le dinastie o gli Stati nel centro dell’Europa erano forti – o quando si sono sentiti tali! – si sono viceversa diretti loro verso la periferia. Questo è accaduto già con le crociate [in tedesco letteralmente: vie della croce], che allo stesso furono vie della conquista, non solo in Asia Minore e a Gerusalemme, ma anche in direzione della Prussia orientale e di quelli che oggi sono i tre Stati baltici. In epoca moderna ciò è accaduto nel caso della guerra contro Napoleone e delle tre guerre di Bismarck del 1864, 1866, 1870/71.

Lo stesso è accaduto soprattutto con la seconda guerra dei trent’anni dal 1914 al 1945. È accaduto, in particolare, con l’espansione di Hitler fino a Capo Nord, al Caucaso, a Creta, alla Francia meridionale e addirittura fino a Tobruk nei pressi del confine libico-egiziano. La catastrofe dell’Europa, provocata dalla Germania, ha portato con sé la catastrofe degli ebrei europei e dello Stato nazionale tedesco.

Prima tuttavia già i polacchi, le nazioni baltiche, i cechi, gli slovacchi, gli austriaci, gli ungheresi, gli sloveni e i croati avevano condiviso il destino dei tedeschi, nella misura in cui tutti loro da secoli hanno subito gli effetti di questa loro posizione geopolitica centrale nel nostro piccolo continente europeo. Oppure detto diversamente: diverse volte noi tedeschi abbiamo fatto subire agli altri questa nostra centrale posizione di potenza.

Oggigiorno le aspirazioni territoriali configgenti, i conflitti linguistici e di confine, che ancora nella prima metà del XX secolo hanno giocato un grande ruolo nella coscienza delle nazioni, sono diventati de facto in larga misura privi di significato, in particolare per i tedeschi.

Mentre nella coscienza dell’opinione pubblica e delle nazioni europee la conoscenza e il ricordo delle guerre del Medioevo sono largamente scomparse, il ricordo delle due guerre mondiali del XX secolo e dell’occupazione tedesca gioca però ancora un ruolo potenzialmente cruciale.

Per noi tedeschi sembra decisivo il fatto che quasi tutti i vicini della Germania – e inoltre quasi tutti gli ebrei in ogni parte del mondo – ricordano l’Olocausto e le azioni spaventose che sono state commesse ai tempi dell’occupazione tedesca nei Paesi della periferia.. Noi tedeschi non abbiamo sufficientemente chiaro che quasi tutti i nostri vicini manterranno probabilmente una diffidenza latente nei confronti dei tedeschi ancora per molte generazioni.

Anche le generazioni tedesche nate successivamente devono convivere con questo peso storico. E anche le generazioni di oggi non possono dimenticarlo: è stata la diffidenza di fronte a un futuro sviluppo della Germania, che nel 1950 ha fondato l’inizio dell’integrazione europea.

Nel 1946 Churchill aveva due motivi, quando nel suo grande discorso di Zurigo chiamò i francesi a giungere a un accordo con i tedeschi e a fondare insieme a loro gli Stati Uniti d’Europa: in primo luogo, la comune difesa di fronte all’Unione Sovietica percepita come una minaccia, ma, in secondo luogo, l’inserimento della Germania in una più grande unione occidentale. Infatti Churchill prevedeva con lungimiranza la ricostruzione e il rafforzamento della Germania.

Quando nel 1950, quattro anni dopo il discorso di Churchill, Robert Schumann e Jean Monnet si sono presentati con il loro piano Schumann per l’unione dell’industria pesante dell’Europa occidentale, ciò è accaduto per lo stesso motivo, il motivo dell’inclusione della Germania. Charles De Gaulle, che dieci anni dopo ha teso la mano per la riconciliazione a Konrad Adenauer, ha agito per lo stesso motivo.

Tutto ciò è avvenuto sulla base di una visione realistica di un futuro sviluppo della forza tedesca, ritenuto possibile e insieme temuto. Non l’idealismo di Victor Hugo, che nel 1849 aveva invocato l’unificazione dell’Europa, né un qualsiasi altro idealismo stava nel 1950-52 alla base dell’integrazione europea, all’epoca limitata all’Europa occidentale. I più influenti uomini di Stato di allora in Europa e in America (intendo George Marshall, Eisenhower, anche Kennedy, ma soprattutto Churchill, Jean Monnet, Adenauer, De Gaulle o anche De Gasperi e Henri Spaak) non agivano in alcun modo sulla base di un idealismo europeo, ma sulla base di una conoscenza della storia europea fino a quel momento. Essi agivano sulla base di una visione realistica della necessità di evitare una prosecuzione del conflitto tra periferia e centro tedesco. Chi non ha compreso questo motivo originario dell’integrazione europea, che è tuttora un elemento decisivo, manca di un presupposto irrinunciabile per la soluzione dell’attuale e molto incerta crisi europea.

Quanto più nel corso degli anni ’60, ’70 e ’80 l’allora Repubblica federale tedesca ha acquistato peso economico, militare e politico, tanto più l’integrazione europea diventava agli occhi dei governanti dell’Europa occidentale un’assicurazione di fronte a una preponderanza della potenza tedesca. Le resistenze iniziali nel 1989-90, ad esempio, di Margaret Thatcher o di Mitterand e Andreotti rispetto alla riunificazione dei due Stati tedeschi del dopoguerra erano chiaramente fondate sul timore di una Germania forte al centro di questo piccolo continente europeo.

Mi consento a questo punto un piccolo excursus personale. Io ho ascoltato Jean Monnet, quando ho fatto parte del comitato Jean Monnet “Pour les États-Unis d’Europe”. Era il 1955. Per me Jean Monnet rimane uno dei francesi di più ampie vedute che io abbia conosciuto nel corso della mia vita, in materia di integrazione europea soprattutto per la sua concezione di un processo graduale, passo dopo passo.

Da allora io sono diventato e rimango tuttora un sostenitore dell’integrazione europea e dell’inclusione tedesca sulla base della visione dell’interesse strategico della nazione tedesca, non per ragioni idealistiche. (Ciò mi ha condotto allora a una controversia con il mio leader di partito, da me enormemente stimato, Kurt Schumacher, controversia per lui priva di importanza, da me invece, all’epoca trentenne di ritorno dall’esperienza bellica, presa molto seriamente). Ciò mi ha condotto negli anni ’50 all’approvazione dei piani dell’allora ministro degli esteri polacco Rapacki. All’inizio degli anni ’60 ho scritto un libro contro la strategia occidentale ufficiale della rappresaglia strategico-nucleare, che allora veniva minacciata dalla NATO nei confronti dell’Unione Sovietica, strategia a cui siamo ancora oggi legati.

II. L’Unione europea è necessaria

De Gaulle e Pompidou hanno portato avanti l’integrazione europea negli anni ’60 e nei primi anni ‘70 per legare la Germania, non perché volessero legare il loro Stato nella loro e nella cattiva sorte. Successivamente la buona intesa tra me e Giscard d’Estaing ha condotto a un periodo di cooperazione franco-tedesca e alla prosecuzione dell’integrazione europea, un periodo che dopo il 1990 si è prolungato da Kohl e Mitterand. Nel contempo la Comunità europea, dal 1950/52 al 1991, è progressivamente cresciuta da sei a dodici Stati membri.

Grazie all’ampio lavoro preparatorio di Jacques Delors (all’epoca presidente della Commissione europea), nel 1991 a Maastricht, Mitterand e Kohl hanno dato il via al progetto della moneta unica, che è diventato poi realtà dieci anni dopo, nel 2001. Alla base vi era ancora una volta la preoccupazione francese di una Germania preponderante, o, detto più esattamente, di un marco tedesco preponderante.

Nel frattempo l’euro è diventata la seconda valuta più importante del mondo. Questa valuta europea è stata negli ultimi dieci anni, all’interno come all’esterno, più stabile sia del dollaro americano che del marco tedesco. Tutto ciò che si dice e si scrive di una presunta “crisi dell’euro” è una chiacchiera superficiale di media, giornalisti e politici.

Dal Trattato di Maastricht del 1991/92 il mondo è però potentemente cambiato. Abbiamo vissuto la liberazione delle nazioni dell’Europa orientale e l’implosione dell’Unione Sovietica. Abbiamo vissuto la fenomenale crescita di Cina, India, Brasile e di altri paesi emergenti, che prima venivano definiti in blocco come “terzo mondo”. Allo stesso tempo le economie reali di gran parte del mondo si sono ‘globalizzate’. Detto in tedesco: quasi tutti gli Stati del mondo dipendono l’uno dall’altro. E soprattutto gli attori sul mercato finanziario globale hanno acquisito una potenza per ora del tutto incontrollata.

E allo stesso tempo – in maniera quasi inosservata – l’umanità è cresciuta di numero in misura esplosiva fino a 7 miliardi di esseri umani. Quando io sono nato, erano appena 2 miliardi. Tutti questi enormi cambiamenti hanno esercitato potenti effetti sui popoli europei, sui loro Stati e sul loro benessere!

D’altronde, le nazioni europee invecchiano e dappertutto si riducono i numeri dei loro abitanti. Nel corso di questo XXI secolo presumibilmente addirittura 9 miliardi di esseri umani abiteranno contemporaneamente sulla terra, mentre le nazioni europee rappresenteranno solo il 7% della popolazione mondiale. Il 7% di 9 miliardi! Fino al 1950 e per circa due secoli gli europei avevano rappresentato più del 20% della popolazione mondiale. Ma da circa 50 anni noi europei caliamo non solo in numeri assoluti, ma soprattutto in relazione all’Asia, all’Africa e all’America Latina. Allo stesso modo cala il contributo degli europei al prodotto economico globale, ossia alla creazione di valore dell’intera umanità. Fino al 2050 calerà fino al 10%; nel 1950 era ancora collocato al 30%.


Ogni singola nazione europea rappresenterà nel 2050 neppure l’1% della popolazione mondiale. Questo significa: se noi europei vogliamo avere la speranza di avere un significato per il mondo, possiamo farlo solo in comune. Infatti come singoli Stati – in quanto Francia, Italia, Germania o in quanto Polonia, Olanda, Danimarca o Grecia- alla fine potremo essere misurati non più in percentuali, ma solo in millesimi.

Da ciò deriva anche l’interesse strategico di lungo periodo degli Stati nazionali europei alla loro cooperazione e integrazione. Questo interesse strategico all’integrazione europea acquisterà un significato crescente. Esso è finora in larga non percepito dalle nazioni. Ed esse non ne vengono rese consapevoli dai loro governi.

Nel caso in cui l’Unione europea nel corso dei prossimi decenni non dovesse pervenire a una, per quanto limitata, capacità d’azione comune, non è da escludere una ‘auto-provocata’ marginalizzazione dei singoli Stati europei e della civilizzazione europea. Così come non si può escludere in questo caso il ritorno di conflitti di concorrenza e di prestigio tra gli Stati europei. In questo caso il legame della Germania con il resto d’Europa potrebbe non funzionare più. L’antica dinamica tra centro e periferia potrebbe ancora una volta ripresentarsi.

Il processo del progresso civile su scala globale, la diffusione dei diritti umani individuali e della dignità umana, dello Stato di diritto costituzionale e della democratizzazione non riceverebbe più alcun impulso dall’Europa. Da questo punto di vista la Comunità europea diventa una necessità vitale per gli Stati nazionali del nostro vecchio continente. Questa necessità comprende i motivi di Churchill e di De Gaulle, così come di Monnet e di Adenauer. Essa include anche i motivi di Ernst Reuter, di Fritz Erlers, di Willy Brandt, come pure di Helmut Kohl.

Aggiungo: certamente si tratta ancora una volta dell’inclusione della Germania. Perciò noi tedeschi dobbiamo fare chiarezza sui nostri compiti, sul nostro ruolo specifico nell'ambito dell’integrazione europea.

III. La Germania ha bisogno di continuità e affidabilità.

Se guardiamo la Germania alla fine del 2011 dall’esterno, con gli occhi dei nostri vicini prossimi e meno prossimi, essa suscita da un decennio una sensazione di disagio, e anche nuovamente di preoccupazione politica. Negli ultimi anni sono emersi dubbi considerevoli sulla continuità della politica tedesca. La fiducia nell’affidabilità della politica tedesca si è incrinata.

Questi dubbi e preoccupazioni si fondano anche sugli errori di politica estera dei nostri politici e governanti tedeschi. Per un'altra parte, essi si fondano sulla forza economica della repubblica federale tedesca riunificata, sorprendente per il resto del mondo. La nostra economia è diventata –a cominciare dagli anni ’70, quando era ancora divisa- la più grande in Europa. Essa è dal punto di vista tecnologico, politico-finanziaro e politico-sociale una delle economia più efficienti del mondo. La nostra forza economica e la nostra pace sociale, da decenni molto più stabile rispetto ad altri Paesi, hanno sollevato anche invidia – per quanto il nostro tasso di disoccupazione e anche il nostro livello di indebitamento siano nell’ambito della media internazionale.

Tuttavia è a noi sufficientemente noto che la nostra economia è in notevole misura integrata nel mercato europeo e insieme fortemente globalizzata, il che la rende dipendente dalla congiuntura globale. Per questo sperimenteremo nei prossimi anni che le esportazioni tedesche non cresceranno più in modo speciale.

Contemporaneamente si è prodotto un serio squilibrio nel nostro sviluppo, vale a dire un perdurante avanzo del nostro bilancio commerciale e del nostro bilancio delle partite correnti. Questi avanzi rappresentano da anni circa il 5% del nostro prodotto nazionale. Essi sono grosso modo grandi come gli avanzi della Cina. Noi non ne siamo consapevoli, perché essi non si ripercuotono in avanzi in marchi tedeschi, ma in euro. È però necessario che i nostri politici siano consapevoli di questa circostanza.

Infatti tutti i nostri avanzi sono in realtà i deficit degli altri. I crediti, che noi abbiamo nei confronti degli altri, sono i loro debiti. Si tratta di una seria lesione dell’equilibrio dell’economia internazionale, finora da noi elevato a ideale normativo. Questa violazione non può non inquietare i nostri partner. E quando ci sono voci straniere, per lo più americane –anche se vengono da diverse parti- che chiedono alla Germania di assumere un ruolo di guida in Europa, tutto ciò suscita nei nostri vicini un’ulteriore diffidenza. E suscita cattivi ricordi.

Questo andamento economico e la contemporanea crisi della capacità d’azione degli organi dell’Unione europea hanno spinto la Germania di nuovo in un ruolo centrale. Insieme al presidente francese la cancelliera ha accettato volentieri questo ruolo. Ma in molte capitali europee così come nei media di alcuni dei nostri Stati vicini c’è di nuovo una crescente preoccupazione di un predominio tedesco. Questa volta non si tratta di una potenza centrale predominante sul piano militare e politico, di un centro predominante economicamente.

Qui è necessario un ammonimento per i politici tedeschi, per i media, per la nostra opinione pubblica, da valutare con serietà e attenzione.

Se noi tedeschi ci lasciassimo condurre, sulla base della nostra forza economica, a rivendicare un ruolo politico di direzione in Europa o anche solo una funzione di primus inter pares, una crescente maggioranza dei nostri vicini si difenderebbe decisamente contro questa prospettiva. La preoccupazione della periferia rispetto a un centro dell’Europa troppo forte si ripresenterebbe molto rapidamente. Le probabili conseguenze di un tale sviluppo sarebbero devastanti per l’Unione europea. E la Germania cadrebbe nell’isolamento.

La Repubblica federale tedesca, per quanto molto grande ed efficiente, ha bisogno dell’inserimento nell’integrazione europea –anche per la protezione da se stessa! Per questo, dai tempi di Helmut Kohl, dal 1992, l’articolo 23 della Costituzione ci obbliga alla cooperazione “per lo sviluppo dell’Unione europea”. L’articolo 23 ci obbliga a questa cooperazione anche sulla base del “principio della sussidiarietà”. L’attuale crisi della capacità d’azione degli organi dell’Unione europea non modifica questi principi.

La nostra posizione geopolitica centrale, il nostro ruolo infelice nel corso della storia europea fino alla metà del XX secolo, la nostra efficienza attuale, tutto questo richiede a ogni governo tedesco una misura molto alta di capacità di compenetrazione negli interessi dei nostri partner europei. E la nostra disponibilità all’aiuto è indispensabile.

Noi tedeschi abbiamo accresciuto la nostra capacità di ricostruzione negli ultimi sei decenni non da soli, non solo con le nostre forze. Questa capacità non sarebbe stata possibile senza gli aiuti delle potenze vincitrici occidentali, senza il nostro inserimento nella Comunità europea e nell’alleanza atlantica, senza gli aiuti dei nostri vicini, senza la svolta politica nell’Europa centro-orientale e senza la fine della dittatura comunista. Noi tedeschi abbiamo ragioni per la gratitudine. E allo stesso tempo abbiamo il dovere di dimostrarci degni della solidarietà ricevuta con la nostra solidarietà nei confronti dei nostri vicini!

Di contro, un’aspirazione a un nostro ruolo autonomo e a un nostro prestigio nella politica mondiale sarebbe piuttosto inutile, probabilmente perfino dannosa. Lla stretta collaborazione con la Francia e con la Polonia resta in ogni caso indispensabile, così come con tutti i nostri partner in Europa.
È mia convinzione che sia uno degli interessi cardinali, strategici e di lunga durata della Germania quello di non isolarsi e di non lasciarsi isolare. Un isolamento all’interno dell’Occidente sarebbe pericoloso. Un isolamento all’interno dell’Unione europea o dell’euro-zona sarebbe altamente pericoloso. Per me questo interesse della Germania si colloca chiaramente più in alto di ogni interesse tattico di tutti i partiti politici.

I politici e i media tedeschi hanno il dannato obbligo e dovere di rappresentare costantemente questa visione all’opinione pubblica.

Quando tuttavia qualcuno fa intendere che oggi e in futuro in Europa si parlerà tedesco; quando un ministro degli esteri tedesco ritiene che una comparsa televisiva a Tripoli, a Il Cairo o a Kabul sia più importante dei contatti politici con Lisbona, Madrid, Varsavia o Praga, con Dublino, Copenhagen o Helsinki; quando un altro ritiene che occorra evitare un’«unione di trasferimento» europea, tutto questo è semplicemente un’ostentazione di forza dannosa.

Certamente la Germania è stata per lunghi decenni un pagatore netto! Noi potevamo sostenerlo e lo abbiamo fatto dai tempi di Adenauer. E naturalmente Grecia, Portogallo o Irlanda sono stati sempre incassatori netti.

La classe politica tedesca di oggi può essere non sufficientemente consapevole di questa solidarietà. Ma finora essa è stata auto-evidente. Altrettanto evidente –e inoltre anche scritto nel Trattato di Lisbona- è il principio della sussidiarietà: ciò che uno Stato non è in grado di regolare o gestire da solo, deve essere assunto dall’Unione europea.

Dai tempi del piano Schuman, Konrad Adenauer, grazie al suo giusto istinto politico e contro la resistenza sia di Kurt Schumacher, sia successivamente di Ludwig Ehrard, ha accettato le offerte francesi. Adenauer ha valutato correttamente gli interessi strategici e di lungo periodo della Germania, nonostante la perdurante divisione del Paese! Tutti i successori –così anche Brandt, Schmidt, Kohl e Schröder- hanno proseguito la politica di integrazione di Adenauer.

Tutte le tattiche politiche quotidiane, interne come internazionali, non hanno mai messo in discussione l’interesse strategico di lunga durata dei tedeschi. Così tutti i nostri vicini e partner hanno potuto per decenni contare sulla stabilità della politica europea della Germania –e questo in maniera certamente indipendente dai cambi di governo. Questa continuità è richiesta anche per il futuro.

IV. L’attuale condizione dell’Unione europea richiede forza d’azione

I contributi concettuali tedeschi sono stati sempre comprensibili. Ciò deve rimanere immutato anche in futuro. Con questo non dobbiamo comunque precorrere il futuro lontano. Cambiamenti dei trattati potrebbero solo in parte correggere le scelte, le omissioni e gli errori compiuti vent’anni fa a Maastricht. Le proposte odierne di modifica del vigente Trattato di Lisbona mi appaiono di scarsa utilità per l’immediato futuro, se ricordiamo le difficoltà incontrate finora con la necessità della ratifica di tutti gli Stati o gli esiti negativi dei referendum popolari.

Io concordo perciò con il Presidente della Repubblica italiana Napolitano, quando alla fine di ottobre, in un importante discorso, egli ha affermato che noi oggi dovremmo concentrarci su ciò che è necessario fare oggi. E che a questo fine noi dovremmo cogliere le opportunità che il Trattato vigente dell’Unione europea ci offre – in particolare per il rafforzamento delle regole di bilancio interno della politica economica nello spazio monetario dell’euro.

L’attuale crisi della capacità d’azione degli organi dell’Unione europea istituiti a Lisbona non può durare anni. Con l’eccezione della Banca centrale europea, tutti questi organi – il Parlamento europeo, il Consiglio europeo, la Commissione di Bruxelles e i Consigli dei ministri-, dal superamento della fase acuta della crisi delle banche nel 2008 e fino all’attuale crisi dei debiti pubblici che alla prima è collegata, hanno offerto un aiuto molto limitato.

Per il superamento dell’attuale crisi di direzione dell’Unione europea non vi è alcuna ricetta miracolosa. Abbiamo bisogno di più passi, in parte contemporanei, in parte successivi nel tempo. C’è bisogno non solo di capacità di giudizio e di azione, ma anche di pazienza! Per questo i contributi concettuali tedeschi non possono limitarsi a parole d’ordine. Essi non devono essere presentati sulla piazza televisiva, ma piuttosto con fiducia nell’ambito degli organi dell’Unione europea. Noi tedeschi non possiamo presentare ai nostri partner come modello o come metro di valutazione né il nostro ordinamento sociale ed economico, né il nostro sistema federale o le nostre regole in materia di finanza e di bilancio, ma semplicemente offrirli come esempi tra diverse possibilità.

Per ciò che la Germania oggi fa oppure omette di fare, noi tutti portiamo la responsabilità per le future ripercussioni in Europa. Noi abbiamo bisogno a questo fine di una razionalità europea. Ma noi non abbiamo bisogno solo di razionalità, ma anche di un cuore che sappia immedesimarsi nei nostri vicini e partner.

Su un punto io concordo con Jürgen Habermas, che di recente ha parlato del fatto che «noi stiamo nei fatti vivendo per la prima volta nella storia dell’Unione europea uno smantellamento della democrazia». In effetti: non solo il Consiglio europeo incluso il suo presidente, ma anche la Commissione europea compreso il suo presidente, e inoltre i diversi Consigli dei ministri e l’intera burocrazia di Bruxelles hanno insieme messo da parte il principio democratico! Io ho commesso l’errore di ritenere, quando il suffragio popolare fu introdotto per il Parlamento europeo, che il Parlamento si sarebbe conquistato da solo il suo peso. Nei fatti esso non ha esercitato finora alcun riconoscibile influsso nella gestione della crisi. Infatti i suoi pareri e le sue deliberazioni rimangono prive di efficacia pubblica.

Perciò io vorrei appellarmi a Martin Schulz: è arrivato il momento che lei e i suoi colleghi cristiano-democratici, socialisti, liberali e verdi insieme e con decisione vi rivolgiate all’opinione pubblica. Probabilmente il tema della vigilanza su banche, borse e strumenti finanziari, rimasta in uno stato del tutto insoddisfacente dal G20 del 2008, è quello che si adatta meglio per una tale iniziativa del Parlamento europeo.

In effetti alcune migliaia di operatori della finanza negli Stati Uniti e in Europa, e inoltre alcune agenzie di rating, hanno preso in ostaggio in Europa i governi politicamente responsabili. Non c’è da aspettarsi che Obama possa fare molto contro questo, e lo stesso vale per il governo britannico. Certamente negli anni 2008-9 i governi di tutto il mondo hanno salvato la banche con garanzie e con il denaro dei contribuenti. Ma già dal 2010 questo branco di manager della finanza super-intelligenti, e allo stesso tempo inclini alle psicosi, ha ripreso il suo gioco sui profitti. Un gioco d’azzardo a carico di tutti i non-giocatori, che io e Marion Dönhoff abbiamo criticato già negli anni ’90 come un pericolo mortale.

Se nessun altro vuole agire, allora devono agire i partecipanti alla moneta unica europea. A questo fine si può percorrere la strada dell’articolo 20 del vigente Trattato di Lisbona. Lì è previsto espressamente che alcuni o molti degli Stati membri dell’Unione europea «possano istituire una cooperazione rafforzata tra di loro». In ogni caso gli Stati che prendono parte alla moneta comune dovrebbero intraprendere una incisiva regolazione del loro comune mercato finanziario. Dalla separazione tra normali banche commerciali, da un lato, e banche ombra o di investimento, dall’altro, fino al divieto di vendita allo scoperto di titoli a scadenza futura, fino al divieto del commercio di derivati, nella misura in cui ciò non sia consentito dalle autorità ufficiali di vigilanza della borse, e fino a una efficace limitazione delle attività riguardanti l’area euro dell’agenzie di rating, finora del tutto incontrollate. Signore e signori, non voglio appesantirvi con ulteriori singoli punti.

Naturalmente la lobby globalizzata delle banche utilizzerebbe ogni mezzo per opporsi Essa ha già finora impedito ogni incisiva regolazione. Essa ha reso possibile, estendendosi attraverso “l’effetto-leva”, che il branco dei suoi operatori mettesse i governi europei nella necessità di inventare sempre nuovi “paracadute”. Se gli europei trovassero il coraggio e la forza di produrre una incisiva regolazione del mercato finanziario, noi potremmo diventare nel medio orizzonte una zona di stabilità. Se invece noi falliamo in questo compito, il peso dell’Europa diminuirà ulteriormente e il mondo si svilupperà in direzione di un duumvirato tra Washington e Pechino.

Per l’immediato futuro dell’area euro restano certamente necessari tutti i passi finora pensati e annunciati. Ad essi appartengono i fondi di salvataggio, i limiti all’indebitamento e i relativi controlli, una politica fiscale ed economica comune, e inoltre una serie di riforme di politica fiscale, sociale, della spesa, e del mercato del lavoro, da attuare nei singoli Paesi. Ma transitoriamente diventerà inevitabile anche un indebitamento comune. Noi tedeschi non dobbiamo rifiutarlo sulla base di un egoismo nazionale.

Non possiamo in nessun modo propagare per tutta Europa una politica estremamente deflativa. Piuttosto ha ragione Jacques Delors quando propone di affiancare al risanamento dei bilanci l’introduzione e il finanziamento di progetti che sostengano la crescita. Senza la crescita, senza nuovi posti di lavoro, nessuno Stato può risanare il suo bilancio. Chi ritiene che l’Europa possa risanarsi solo con risparmi di spesa dovrebbe studiare l’effetto fatale della politica deflativa adottata da Heinrich Brünings nel 1930/2. Questa politica ha causato una depressione e un insostenibile aumento della disoccupazione, e con essa il tramonto della prima democrazia tedesca.

V. Ai miei amici

In conclusione, cari amici, non c’è bisogno in realtà di fare grandi sermoni alla socialdemocrazia in fatto di solidarietà internazionale. Infatti la socialdemocrazia è orientata da un secolo e mezzo in senso internazionalistico, in misura molto maggiore di generazioni di liberali o di conservatori. Noi socialdemocratici abbiamo tenuto ferma la dignità e insieme la libertà di ogni singolo essere umano. Insieme abbiamo tenuto fermo il valore della democrazia rappresentativa e parlamentare. Questi valori fondamentali ci obbligano oggi alla solidarietà europea.

Certamente anche nel XXI secolo l’Europa consisterà di Stati nazionali, ognuno con la sua lingua e la sua storia. Perciò dall’Europa non sorgerà alcuno Stato federale [Bundesstaat]. Ma l’Unione europea non può nemmeno deteriorarsi in una mera lega di Stati [Staatenbund]. L’Unione europea deve restare un’unione [Verbund] dinamica che si sviluppa. Non vi è nella storia dell’umanità alcun esempio precedente. Noi socialdemocratici dobbiamo contribuire allo sviluppo graduale di questa unione [Verbund] .

Quanto più anziani si diventa, tanto più si tende a ragionare su spazi temporali lunghi. Anche come uomo anziano, io mi tengo sempre fermo ai tre valori fondamentali del programma di Godesberg: libertà, giustizia, solidarietà. Inoltre penso che oggi la giustizia richieda soprattutto uguaglianza di opportunità per i bambini, gli studenti e per i giovani nel loro complesso.

Se guardo indietro al 1945 o al 1933 – all’epoca avevo già 14 anni – il progresso che abbiamo compiuto fino a oggi mi pare incredibile. Il progresso che gli europei hanno oggi raggiunto a partire dal piano Marshall del 1948, dal piano Schuman del 1950, del quale dobbiamo ringraziare Lech Walesa e Solidarnosc’, Vaclav Havel e a Charta 77, tutti i tedeschi di Dresda e Berlino a partire dalla grande svolta del 1989/90.

Che oggi la gran parte d’Europa goda della pace e dei diritti umani, non avremmo potuto prevederlo né nel 1918, né nel 1933, né nel 1945. Facciamo perciò in modo di lavorare e di lottare perché l’Unione europea, esempio storico unico, si tragga fuori dalle sue attuali debolezze e proceda nel suo cammino con consapevolezza di sé!
 



 







Tratto dalla rivista on-line Tamtám. Traduzione italiana a cura di Alfredo D’Attorre.




Helmut Schmidt
Giŕ leader SPD e Primo Ministro della Germania Occidentale.




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