La Lavagna Del Sabato 12 Gennaio 2013 UNO COME TE Brano tratto dal romanzo ACAB, All Cops Are Bastards Carlo Bonini
(…) Drago era rientrato al II reparto. All'ufficio e al cessetto che divideva con altri due colleghi nelle nuove palazzine della caserma Stefano Gelsomini, un immenso compound di cemento e infissi di alluminio anodizzato sulla via Portuense, tra i parcheggi della nuova Fiera e il satellite di uomini e merci di Parco Leonardo. Quei venti metri quadrati erano lo specchio della sua esistenza. Una grande bandiera del Giappone imperiale stesa su un muro a calce ingombro di tettone, di ordini di servizio e dei testi di Songs for Books di Rudyard Kipling. Quelli che aveva dedicato a un figlio messo al mondo con una donna sbagliata, contro cui combatteva una battaglia sorda e feroce da quattro anni. Che lo avevano fatto diventare uno dei «Papà c'è». Quelli che di tanto in tanto gridano disperati in piazza Montecitorio per i loro diritti di padri naturali.
I bambini gli si erano fatti intorno e Drago affondava le mani nelle tasche da Babbo Natale estraendone manciate di caramelle e torroncini. Le risate a garganella che accompagnavano i suoi gesti erano meglio di un vaccino contro il cinismo di cui si sentiva prigioniero. Era entrato in
polizia per fare il celerino, non il poliziotto. Aveva preferito la strada all'esotico business del padre, che aveva cominciato da ragazzo muratore
in Germania ed era finito, finché aveva potuto e Dio non se l'era chiamato, a tirare su palazzi negli Emirati Arabi. La strada, che era diventata la sua vita, la sua vita se l'era mangiata un pezzo alla volta.
Forse la celere era cambiata. O forse no. Forse, più semplicemente, era lui che era cambiato. Certo, il fatto che la celere non si chiamasse più con il suo nome la diceva lunga. «Reparto mobile» era politicamente più corretto, ma, in fondo, non restavano pur sempre i «servi dei servi dei
servi»? Non erano forse sempre stati il cuore nero della polizia? Inutile prendersi per il culo. Nella celere, se non eri di destra lo diventavi. E lui di
destra lo era sempre stato. Come suo padre, nato a San Saba. Come i suoi due fratelli piccoli. Uno, paracadutista prima, pugile dilettante poi, agente immobiliare. L'altro, da anni uomo libero su una libera spiaggia di Santo
Domingo da dove, ogni tanto, mandava qualche foto in cui di romano restava solo il bicipite destro abbronzato sul quale aveva fatto tatuare un immenso «Spqr». Come sua madre, una donna veneta forte come l'acciaio, hostess dell'El Al per quindici anni, che gli aveva insegnato a conoscere il mondo. Come i suoi comandanti, come il novanta per cento dei colleghi.
Anche se, arrivato a quel punto, non sapeva più neanche lui cosa significasse essere di destra. Lo aveva capito una mattina a piazza Montecitorio. Erano arrivati i minatori del Sulcis. Gente invecchiata nei cunicoli, con le mani e il cuore grossi. Di quelli che ti raccontano a trentacinque anni che non sanno quanto gli resta, perché non sanno quando la polvere di carbone che hanno
in corpo diventerà un cancro che se li porterà via. Se ne erano stati immobili per ore. Con i loro fischietti, i loro caschi colorati, i loro sguardi
liquidi di rabbia e sonno arretrato. Chiedendo solo di essere ascoltati. Il suo reparto era stato schierato a ridosso delle transenne che chiudevano la zona di rispetto. E i minatori se ne erano rimasti chiusi in quel recinto come una mandria dolente. Poi, un lato della piazza si era messo a ondeggiare. Una balaustra era collassata con gran rumore. Si erano alzate delle mani e con esse le aste di bandiera. Il funzionario con la fascia tricolore aveva ordinato la carica. E loro ci avevano dato dentro. Ricordava perfettamente la faccia dell'operaio che per primo gli si era fatto davanti e che lui aveva scaraventato a terra come un manichino. Sembrava un vecchio, ma forse erano coetanei. Quando tutto era finito, aveva preso dell'acqua e il suo cestino di servizio. E si era messo a cercare il vecchio.
Lo aveva trovato seduto in un angolo di marciapiede. Gli aveva allungato la bottiglia e gli aveva mostrato il panino.
– Lascia stare, – aveva detto quello. – Dimmi piuttosto perché lo avete fatto. Perché cazzo ci siete venuti addosso? Sono un operaio. Guadagno
quanto te, e come te, ogni sera, quando torno a casa, ringrazio Iddio di essere ancora vivo. Ti senti meglio ora che hai calpestato uno come te?
Non aveva trovato una sola parola. Avrebbe potuto dirgli che prendeva ordini, che aveva giurato fedeltà alla Repubblica e alle sue leggi, e dunque
obbedienza ai funzionari che il ministero decideva di mandare in piazza, ma che risposta sarebbe stata? Se ne era invece rimasto zitto a fissare il foulard rosso del vecchio, pensando alla T-shirt che lui indossava sotto la tuta di ordine pubblico. Quella bianca con il Sol levante. La stessa che aveva nei giorni di Genova. Finché non gli si era avvicinato un funzionario: – Hai finito di fare Robin Hood? Sei in servizio, non in gita.
Chi ti ha autorizzato a dare l'acqua e il cestino? Sei un poliziotto, non un assistente sociale.
Quel giorno si era rotto qualcosa, pensava. O, forse, quel giorno tutto era diventato finalmente chiaro. (…) Brano tratto dal romanzo ACAB, All Cops Are Bastards, Einaudi editrice, Torino, 2009. Carlo Bonini (Roma, 4 marzo 1967) è un giornalista e scrittore italiano. Giornalista professionista, dopo aver lavorato per Il Manifesto e Il Corriere della Sera, dove si è occupato di cronache giudiziarie, è diventato inviato del quotidiano La Repubblica. home |