La Lavagna Del Sabato 17 Novembre 2012 DIMMI COSA CALZI E TI DIRÒ PER COSA MARCI Loretta Emiri Che uomo è, un uomo che non rende il mondo migliore? È la mia terra, cosa sarei se non cercassi di migliorala? (Dal film Le Crociate, Ridley Scott, USA, 2005)
L’Europa fece guerra a sé stessa. Non ho intenzione di scrivere un saggio, ma alcune cose vanno dette. Ricordare le grandi manovre che precedettero l’aggressione della NATO a quanto restava della Jugoslavia ha lo scopo di evidenziare che ambiguità e cinismo sono armi segretamente stoccate nell’animo umano, pronte per l’uso quando si voglia provocare l’angoscia, il dolore, la morte degli altri, siano essi individui o intere popolazioni. Ricordare può anche servire al lettore che passa la vita leggendosi dentro al fine di migliorare sé stesso. La NATO nacque a Washington nel 1949 affinché Paesi diversi collaborassero e si difendessero in caso di attacchi esterni. Negli anni crebbe il numero degli Stati partecipanti, fermo restando l’obiettivo di garantire la propria sicurezza e libertà. Per trasformarsi in aggressiva forza militare, “l’alleanza di difesa” contò con la complicità di potenti, globalizzati, mezzi di comunicazione. Furono questi ultimi a iniziare le ostilità: ancor prima dell’attacco della NATO, l’opinione pubblica venne bombardata con informazioni impoverite, cioè con cancerogene versioni dei fatti. Che i media possono indurre la maggior parte della popolazione delle democrazie occidentali a giustificare e sostenere guerre di aggressione è anch’essa una verità da ricordare. Dal 1994, almeno, clan malavitosi albanesi utilizzarono i proventi del contrabbando di droga e petrolio per finanziare la guerriglia contro i serbi del Kosovo. Lo fecero con il bene-placido di Germania e Stati Uniti, il cui interesse scaturiva da specifica cupidigia verso le ingenti risorse minerarie della regione e da generici motivi geopolitici. Le azioni terroristiche dei separatisti albanesi dell’UÇK – Ushtria Çlirimtare e Kosovës (o KLA – Kosovo Liberation Army, “Esercito di Liberazione del Kosovo”) portarono il governo serbo a scatenare la repressione, attingendo anche la popolazione civile. Quanto alle trattative di Rambouillet, che avrebbero dovuto creare le condizioni per la soluzione non armata della crisi, la NATO si prodigò per garantirne il fallimento. Interloquì con i guerriglieri dell’UÇK –e non con il pacifico movimento autonomista guidato da Ibrahim Rugova. Nella proposta di accordo previde per sé libertà di movimento, con uso d’infrastrutture, addirittura su tutto il territorio serbo, non solo sul Kosovo, e lasciò intendere che entro tre anni quest’ultimo avrebbe ottenuto l’indipendenza. Presentata come qualcosa da sottoscrivere o respingere, e non come base per la discussione, naturalmente la proposta non venne accettata. Era ciò che la NATO stava aspettando per sferrare il suo attacco, provocando quella catastrofe umanitaria che pretestuosamente diceva di voler evitare. L’Italia avrebbe fermato la guerra se avesse negato l’utilizzo del suo spazio aereo? La domanda è oziosa, ma il dubbio resta. La sudditanza dei nostri politici agli americani, con ogni probabilità, nemmeno fece prendere in considerazione l’ipotesi. Bisogna anche ricordare che Capo di Governo era un cosiddetto ex-comunista: la sua opposizione a iniziativa militare fortemente voluta soprattutto dagli Stati Uniti sarebbe equivalsa a suicidio politico. Smettere di dire cose di sinistra, fare lo sgambetto a colleghi di partito, trattare con astio gli alleati, posare occhi languidi sull’avversario politico, silurare il predecessore riuscendo a far credere ai più di non essere il mandante: perché rinunciare alla poltrona di leader dopo aver fatto di tutto per occuparla? Da Aviano e dalle altre basi NATO partirono i velivoli che per due mesi e mezzo bombardarono scuole, ospedali, mercati, case, treni, corriere, civili in fuga, accampamenti di profughi, torre della televisione, ambasciata cinese, centrali elettriche, ponti, monumenti. Si verificarono anche danni collaterali, allorché ad essere colpiti furono obiettivi militari. Le bombe erano così intelligenti che raggiunsero, addirittura, la Bulgaria. Micidiali quanto le armi furono le sparate verbali che il Governo dell’ex-pseudo-comunista utilizzò durante il conflitto: “è una guerra, ma umanitaria”, “i nostri aerei partecipano, ma con funzioni difensive”, “ i soldati italiani vanno in Albania, ma solo per assistere i profughi”, “i profughi colpiti erano stati utilizzati come scudi umani”. Avevo ricevuto la visita di una carissima amica brasiliana. In sua compagnia, nel maggio del 1999, partecipai all’edizione straordinaria della Marcia per la Pace Perugia-Assisi. Slogan della manifestazione era “Contro la doppia guerra del Kosovo”. A turno trasportavamo un cartellone su cui, in portoghese, avevamo messo per iscritto la nostra indignazione. Nell’immediata periferia di Perugia, improvvisamente, mi vidi davanti l’omuncolo dagli occhi a spillo e baffi succinti. Pensai di avere le traveggole: a meno che non fosse schizofrenico, come poteva Capo di Governo schierato a favore della guerra partecipare a Marcia per la Pace indetta per protestare contro quella stessa guerra? Ma era proprio lui. Quando me ne convinsi non era più così vicino. Non so, quindi, se udì gli improperi che gli indirizzai; inoltre, l’amica mi fece notare che erano deflagrati in portoghese, lingua in cui le mie passioni avevano potuto iniziare a esprimersi. La manifestazione procedette colorata, sonora, amichevole, simpatica, solidale, fra scambi di sorrisi, commenti, spuntini, indirizzi. Particolarmente emozionante fu l’incontro del nostro cartellone con la bandiera del Brasile, sotto la cui scritta “Ordine e Progresso” noi brasiliani facemmo un bel casino, richiamando l’attenzione divertita di quanti ci sfilavano accanto. Fu quello, credo, il momento in cui mi resi conto che la maggioranza dei marcianti calzava costose, globalizzate, Nike o Reebok. L’osservazione s’introdusse nella mia mente come sassolino nella scarpa: lo rimuovo oggi, tredici anni dopo, mentre scrivo questo brano. La marcia fu organizzata dal MST – Movimento dos Trabalhadores Rurais Sem Terra (Movimento dei Lavoratori Rurali Senza Terra). I partecipanti, fra cui alcune decine di donne, furono scelti tra i militanti più qualificati durante assemblee regionali. Tre colonne partirono dagli Stati di São Paulo, Mato Grosso, Minas Gerais. Percorsero circa mille chilometri in due mesi. Gli indisciplinati e i sospettati di essere infiltrati vennero espulsi, mentre le asprezze del cammino portarono altri a desistere. Lentamente, la marcia richiamò su di sé l’attenzione dell’intero Paese. La moltitudine che la vide passare ne colse appieno il significato morale. Abitanti di città o campagna, editori di giornali piccoli e grandi, metallurgici, funzionari pubblici, professori, studenti, senza-casa, senza-lavoro, diseredati di tutte le specie aggiunsero i propri aneliti di giustizia alle rivendicazioni dei marcianti, così da trasformare la manifestazione in prodigiosa fonte di energia sociale. Le tre colonne arrivarono, e si congiunsero, a Brasilia il 17 aprile del 1997. Ricorreva il primo anniversario della morte di diciannove sem-terra massacrati dalla Polizia Militare a Eldorado dos Carajás. Pé-rapado significa “piede-rapato”, termine utilizzato per indicare uomo di umili condizioni sociali. Corpi indeboliti e piagati, spiriti giubilanti, nella capitale giunsero circa duemila “piedi-rapati”. Portavano infradito di gomma, l’unico tipo di calzatura che i brasiliani poveri, in quell’epoca, potevano permettersi. Il nome portoghese è accattivante, turistico e fuorviante: in realtà le havaianas sono espressione d’identità nazionale, di vite secche e dure, di resistenza e lotte. Il primo rito che i marcianti compirono giungendo a Brasilia fu di un simbolismo poderoso: si recarono in emoteca per donare sangue! Un bouquet di fiori venne offerto al più giovane di loro, Luís Beltrami Castro di ottantanove anni. Ad accogliere i “piedi-rapati”, e a manifestare nella Spianata dei Ministeri, c’erano quarantamila persone di ogni estrazione sociale. Iniziata dai sem-terra per protestare contro l’impunità degli assassini dei loro compagni e per rivendicare la Riforma Agraria, cammin facendo la marcia si era trasformata in crociata senza precedenti contro la politica neoliberale del Presidente Cardoso. Data la complessità di storia e realtà dei Balcani, avevo pensato di sospendere la stesura del brano riguardante la Guerra del Kosovo: non senza fatica, mi sono imposta di non arrendermi; la vittoria riportata su me stessa mi ha rivelato che più diversificati di quanto immaginassi sono gli argomenti di cui potrei trattare nei miei scritti, fermo restando che a sceglierli voglio continuare ad essere io. Non riesco a smettere di leggere un libro nemmeno se lo trovo ermetico, complicato, noioso: sembrerebbe espressione di masochismo; invece è anch’esso esercizio per sviluppare forza di volontà e resistere agli ostacoli. Cosa sarei se, scrivendo e leggendo, non cercassi di migliorarmi? In questi giorni i media non fanno che parlare della “crisi”. “Ma cos’è questa crisi?”, cantava Rodolfo de Angelis negli anni Trenta. L’unico Paese europeo a non trovarsi in difficoltà è la Germania: forse anche grazie alle ingenti risorse di cromo e rame dell’Albania acquistate a prezzi stracciati? I politici degli Stati in recessione guardano al Brasile “emergente”; non senza invidia, si stanno chiedendo come abbia potuto un Paese grande quasi come l’Europa trasformarsi da terzomondista in potenza economica nell’arco dei due mandati di Lula; di quel Presidente, cioè, che non era miliardario, né professore, né tecnico, né superesperto, ma solo operaio. L’ultima strofa della canzone sulla crisi dice così: “Chi ce l’ha li metta fuori /circolare miei signori e chissà… /che la crisi finirà!”. Bibliografia
Agenda 1999, MST – Movimento dos Trabalhadores Rurais Sem Terra, Gráfica e Editora Peres, São Paulo. Folha de S. Paulo, www.folha.uol.com.br.
Mana 7(2), Resenhas:197-200, 2001.
Repubblica (la), www.repubblica.it.
veja, http://veja.abril.com.br. Il brano “Dimmi cosa calzi e ti dirò per cosa marci” è uno dei capitoli del libro inedito A passo di tartaruga. Loretta Emiri è nata in Umbria nel 1947. Nel 1977 si è stabilita in Roraima (Brasile) dove ha vissuto per anni con gli indios Yanomami. In seguito, organizzando corsi e incontri per maestri indigeni, ha avuto contatti con varie etnie e i loro leader. Ha pubblicato il Dicionário Yãnomamè-Português e il libro etno-fotografico Yanomami para brasileiro ver. In italiano ha scritto Amazzonia portatile, Quando le amazzoni diventano nonne, e gli inediti Amazzone in tempo reale, A passo di tartaruga. Dell’inedito Se si riesce a sopravvivere a questa guerra non si muore più è la curatrice. È membro del CISAI – Centro Interdipartimentale di Studi sull’America Indigena dell’Università di Siena. home |