La Lavagna Del Sabato 28 Luglio 2012 I NEUROSCIENZIATI A LEZIONE DAI ROMANZIERI Edoardo Boncinelli
L’esperienza non è mai limitata e non è mai completa; è una sensibilità immensa, una sorta di enorme ragnatela di sottilissimi fili di seta, sospesa nella stanza della coscienza, che cattura nel suo tessuto ogni particella portata dall’aria » dice Henry James ne L’arte della narrativa del 1884. Quello del narratore è un mestiere affascinante ma non facile: «Proiettare te stesso nella coscienza di una persona che è essenzialmente il tuo opposto richiede l’audacia di un grande genio; e persino gli uomini di genio sono prudenti nell’affrontare il problema» dice da un’altra parte sempre James. Sono due citazioni letterarie, accomunate dall’intento di esplorare l’idea di coscienza, riportate da David Lodge nel suo smagliante saggio La coscienza e il romanzo (Bompiani), che tenta di gettare un ponte fra le indagini sulla coscienza portate avanti dalle moderne neuroscienze e il contributo dell’opera letteraria, esemplata principalmente sul romanzo anglosassone degli ultimi tre secoli, e più in dettaglio dell’ultimo.
Il nostro autore sostiene in sostanza che: «La letteratura costituisce un genere di conoscenza della coscienza che è complementare al sapere scientifico». Si tratta di una posizione non nuova e abbastanza diffusa in certi ambienti, ma illustrata in questo libro in maniera magistrale da qualcuno che diversamente dal solito non ignora affatto il dibattito moderno sulla natura scientifica della mente e della coscienza. Anzi. Il critico e romanziere inglese David Lodge mostra di possedere una solida conoscenza, quasi di prima mano, di ciò che sta bollendo in pentola nel dibattito contemporaneo sulla coscienza e la sua relazione con le altre attività mentali.
Il fatto è che fino a un secolo fa circa si riteneva più o meno apertamente che tutto quello che accadeva nella nostra testa fosse conscio o almeno accessibile alla coscienza. Ci sono voluti la psicologia sperimentale di fine Ottocento (che nessuno conosce) da una parte, e la psicoanalisi (che tutti conoscono o credono di conoscere) dall’altra, per persuaderci che le cose non stanno per niente in questi termini. La vastissima maggioranza dei processi che vanno avanti nel nostro cervello non sono coscienti,ma procedono parallelamente, gli uni accanto agli altri, in maniera non esplicitabile o, se più ci piace, sub-simbolica o pre-verbale. Solo alcuni di essi possono temporaneamente emergere alla coscienza. Il problema delle neuroscienze di oggi non è quindi l’inconscio, bensì la coscienza e i meccanismi che conducono ad essa.
Ebbene, tutto quello che accade nella nostra mente fino alle soglie della coscienza può essere oggetto di un’indagine neuroscientifica; ma è possibile analizzare scientificamente la mia propria coscienza, la mia percezione individuale di ciò chemi accade intorno? Di tutto posso parlare in terza persona fuorché di questa squisita individualità, per la quale appare appropriata solo una narrazione in prima persona. Proprio per questo Lodge parla di «conoscenza complementare» della coscienza originata dalla letteratura e più in particolare dal romanzo moderno: solo la narrazione poetica può catturare quel lato ineffabile e privato della coscienza che la scienza non può cogliere. E cita Virginia Woolf a proposito della resa letteraria degli «atomi di esperienza» che affiorano di volta in volta alla coscienza: «Registriamo gli atomi così come cadono sulla mente e nell’ordine in cui cadono, tracciamo il disegno, per quanto sconnesso sia all’apparenza, che ogni immagine o incidente incide sulla coscienza». Come esempio laWoolf cita James Joyce. Questo scrittore «si impegna, costi quel che costi, a rivelare il tremolio di quella fiamma interiore che fa lampeggiare i suoi messaggi attraverso il cervello».
È questa conoscenza veramente complementare a quella dataci dalla scienza? Sì e no. In linea teorica no, perché una molteplicità di resoconti in prima persona si possono incontrare anche negli esperimenti di neuroscienza, ma in pratica sì perché nessuno leggerebbe né legge quei resoconti, mentre la letteratura è alla portata di tutti, soprattutto oggi. Quindi la letteratura può effettivamente aiutarci a comprendere fino in fondo, mostrandoci le diverse intime facce della nostra coscienza personale e approfittando del fatto che «come i ragni tessono la tela e i castori costruiscono dighe, così noi raccontiamo storie» su noi stessi e sugli altri.
Ma è questo il vero ruolo della letteratura? Direi proprio di no, come l’autore stesso deve ammettere di lì a poco. Perché c’è un problema nella scrittura: «Il linguaggio verbale è essenzialmente lineare. La parola o i gruppi di parole si susseguono e noi capiamo il loro significato sintatticamente cumulativo in ordine lineare, nel tempo. Quando parliamo e ascoltiamo, quando scriviamo e leggiamo, siamo legati a questa linearità. Ma intuitivamente sappiamo, e la scienza cognitiva lo ha confermato, che la coscienza stessa non è lineare».
Eh no! Secondo me questo non è vero: la coscienza, come da noi esperita di volta in volta, è lineare e sequenziale o, meglio, seriale, altrimenti non sarebbe coscienza; ma è tutto il resto della nostra interiorità che non è lineare, bensì parallelo e molto labilmente connesso, se non magmatico, e se lo vogliamo rappresentare, anche il resoconto autobiografico più rigoroso e attento ai particolari ci va stretto. Occorre alludere, evocare, connettere sottilmente, far risuonare e chiamare a raccolta diversi piani di realtà contemporaneamente. Solo così la narrativa, ma anche la lirica e il teatro, possono ambire a rappresentare «il tutto umano», a dare una sintesi del Pandemonium (Daniel Dennett) che è la nostra mente. E questo sta appunto accadendo nella letteratura contemporanea. O forse è sempre accaduto. Tratto dal Corriere della Sera – La Lettura – Dicembre 2011. home |