La Lavagna Del Sabato 21 Luglio 2012 PREMIO STREGA (NOMEN OMEN) … dopo la sbornia mediatica Fabio Troncarelli
Scrivere e no
La parola scrittura è estremamente ambigua. Non solo perché può designare cose molto diverse, come ad esempio lo stile di un libro, un atto legale o una grafia medievale. Ma soprattutto perché è un bene comune di persone che hanno poco in comune, impropriamente accostate solo perché producono, a diverso titolo, testi scritti.
La scrittura è infatti patrimonio di scrittori, di scriventi e di scrivani: troppo spesso gli scriventi si credono scrittori solo perché utilizzano la scrittura, perfino quando è dubbio se possano considerarsi, più che scriventi, scrivani.
E’ dunque essenziale distinguere lo scrittore dallo scrivente: e, all’interno della sovente inesplorata selva oscura degli scriventi, altrettanto essenziale è distinguere l’autore di un testo destinato a una sia pur non edificante lettura o a una qualche distratta audizione, come i parolieri di canzoni usa – e – getta, dal puro e semplice trascrittore di parole altrui, come le dattilografe e i giornalisti. Del resto sarebbe ora che simili distinzioni entrassero nell’uso comune, permettendoci di evitare gli spiacevoli equivoci causati dell’overbooking di sproloqui e dal mancato smaltimento di pensieri tossici che affliggono la civiltà martoriata. Sarebbe ora cioè di distinguere nettamente il poeta dal verseggiatore, lo storico dal cronista, l’attore dall’esibizionista, il pittore dall’imbianchino, il dentista dall’odontecnico, il filosofo dall’opinionista, l’editore dal tipografo e soprattutto i maîtres à penser dalle maîtresses à penser.
La qualifica che compete a chi produce sottocultura non può che essere quella che sottolinea l’aspetto generico o dilettantesco di tale attività, salvaguardando termini più appropriati che diano rilievo alla professionalità di chi cultura autentica produce. Nel caso della scrittura, l’attribuzione del grado di “autore di testi” a scribacchini e parolieri è il minimo richiesto per preservare lo statuto di produttore di senso e di stile riservato allo scrittore.
E tuttavia, fatto il primo passo e registrato chi lo merita nel gelosamente ristretto albo d’oro dell’arte dello scrivere, resta ancora molta strada da percorrere.
La parola scrittore indica chi scrive: ma non che cosa scrive. Nell’uso comune è sinonimo di romanziere: ma si tratta di un abuso. Quanti grandi scrittori hanno scritto splendide pagine in prosa, senza essere romanzieri? Machiavelli, Poe, Leopardi sono certamente scrittori, ma non sono romanzieri. Che cosa distingue allora il vero romanziere dal semplice scrittore? La risposta a questa domanda, apparentemente banale, è in realtà più difficile del previsto. Dovrebbe essere evidente che costruire un romanzo significa saper architettare un meccanismo molto complesso ed avere consapevolezza di ciò che è necessario allo scopo. Eppure molti sedicenti romanzieri non sembrano curarsi di simili problemi. E men che mai se ne curano i romanzieri contemporanei. Chi ha ragione?
Il grado zero della scrittura
Può forse aiutarci a riflettere il rapporto dell’Osservatorio Permanente Europeo della Lettura: in Italia ogni giorno escono in media 41 romanzi (oltre a 130 libri di altro tipo), che si aggiungono ai 600.000 titoli già disponibili. Sono pubblicati da 8.000 case editrici, che nascono al ritmo di 70 al mese. I libri sono teoricamente distribuiti dalle 4000 librerie, delle quali solo il 16% appartiene alle grosse catene, per un fatturato globale di circa 3 miliardi di euro.
Inutile dire che neppure nell’Atene di Pericle e nella Firenze di Lorenzo il Magnifico si è mai vista tanta dovizia di geni, a tenere compagnia a Socrate, Sofocle, Aristofane, Euripide, Poliziano, Ficino e Pico della Mirandola.
Forse c’ è qualche cosa che non funziona.
A mio modesto parere, gli spensierati protagonisti delle effimere imprese dei romanzifici e dei librifici contemporanei dimenticano che per scrivere occorre avere la consapevolezza di cui parlavamo. E soprattutto trascurano il requisito minimo che è alla base della identità sia dello scrittore, sia del romanziere, pur non essendo l’unica dote richiesta per scrivere un romanzo: saper scrivere bene o, se si preferisce, essere un buon prosatore. Questo requisito è frutto di capacità istintive, ma soprattutto di una lunga pratica e di un affinamento del gusto che solo la vera cultura può assicurare, grazie allo studio della letteratura ed al confronto con gli spiriti magni che ci hanno preceduto. Come ha detto Eliot a proposito della poesia, chi pretende di continuare a scrivere dopo i venticinque anni deve avere la ferma convinzione che la Letteratura sia una cosa sola da Omero ai nostri giorni. E’ solo questo che ci permette di comprendere se nello specchio la nostra immagine è quella di un uomo o di una scimmia.
Scrivere bene o, se preferite, essere un buon prosatore significa due cose: che si dispone di una capacità espressiva naturalmente elegante e che si è raggiunto un livello professionale nell’arte di disporre le parole sul rigo. Ci vuole, in altri termini, una disinvoltura e una naturalezza nell’uso della lingua, ben diversa dall’imitazione servile del sentito dire, infarcito di luoghi comuni, che caratterizza parlanti e scriventi dei nostri giorni. Una simile disinvoltura si ottiene attraverso un esercizio continuo, sfiancante. E attraverso lo studio. Non nasce da sé, come le fragole dopo la pioggia.
Sento già i ragli inorriditi degli abitanti del Paese dei Balocchi che abbiamo la disgrazia di dover considerare contemporanei :“Ma come? La scrittura sarebbe qualcosa di “professionale”? Qualcosa che si apprende, come le buone maniere o la dizione? Ma siamo così retrivi? Non se ne può più delle buone maniere, delle voci impostate e della prosa d’arte! Ognuno ha il suo stile e buonanotte al secchio!”
Augurando a tutti di trovare e apprezzare finalmente le rose, che secondo Apuleio permettono ai somari di riacquistare le perdute sembianze umane, non possiamo fare a meno di notare che le agghiacciate obiezioni si disfano da sole come neve al sole. E’ senza dubbio possibile compiacersi nell’immaginare che un semialfabeta raggiunga la pienezza dello stile individuale senza masticare una parola della lingua in cui scrive, ma la realtà quotidiana smentisce simili chimere: senza aver raggiunto uno standard professionale nell’uso delle parole si resta al livello del balbettamento, alla goffa imperizia di un presuntuoso che non ha mai maneggiato una spada e sfida a duello un campione di scherma.
Lo stile professionale non si impara nelle demenziali scuole di “scrittura creativa” che infestano ormai l’Occidente, dando fittizio lavoro ai falliti della penna: si impara a scuola, facendo i temi. Sì, avete capito benissimo: il tema, non il saggio breve, il saggio lungo o il saggio di pianoforte. Il tema di una volta, con lo “svolgimento” che serve a insegnare ai giovani. adusi com’è costume oggi ad aprì bocca e daje fiato, a “sviluppare” un ragionamento, a “dipanare” il groviglio delle frasi fatte e dei luoghi comuni per estrarre qualche idea. Scrivere in prosa significa in prima istanza saper articolare il pensiero, saper argomentare le proprie affermazioni, saper rispondere alle obiezioni altrui e saper giungere a una conclusione intimamente logica e coerente. In seconda istanza (ma questo si impara solo col tempo e con studi superiori più raffinati delle semplici esercitazioni scolastiche) significa sapersi impadronire dell’arte oratoria e saper utilizzare le figure retoriche che incantavano gli antichi e assicurano anche ai moderni considerazione e rispetto. Saper distinguere i diversi registri del discorso e saper trascolorare dall’uno all’altro con abilità. Con fluidità. Con padronanza della lingua.
E’ questo, parafrasando e parodiando Barthes, il grado zero della scrittura. La qualità minima per essere comprensibile o incomprensibile. Non basta da solo a rendere uno scrittore “romanziere” ed anzi, come vedremo, può addirittura impedire a uno scrittore di diventarlo. E tuttavia è un requisito essenziale per essere leggibile o illeggibile.
Quando dico “leggibilità” non intendo dire, snobisticamente, che io non mi abbasso a leggere i balbettamenti dei bifolchi: voglio dire sic et simpliciter che se non si possiede il livello medio, professionale, della comunicazione si è al di fuori della comunicazione.
La parola “testo” significa etimologicamente “tessuto”: come ogni buon tessuto un buon testo deve avere una trama regolare, ordita da un telaio adatto. Se non si sa maneggiare il telaio e si produce un testo-tessuto pieno di buchi e di strappi, come è possibile pretendere che esso sia adatto a coprire e a velare il groviglio di passioni confuse che forma quello che Manzoni chiamava “quel guazzabuglio del cuore umano”’?
E’ solo a partire da questo livello standard, da questa base, eguale per tutti, che dovrebbe essere tentata – se è il caso – l’avventura dell’innovazione, la ricerca di uno stile personale scintillante e inconfondibile. Ma una simile impresa (da scoraggiare il più spesso possibile) non è può essere tentata se si ignorano le regole stesse della grammatica e si pretende di insegnare agli altri l’uso della lingua.
Parolieri e parolai
Spiace dire che la presuntuosa fobia per voci impostate e buona prosa, non ha avuto solo gli effetti collaterali di una giuliva proliferazione di speaker del telegiornale comprati a saldo alla sagra del dilettante, con la “patata in bocca” e la pronuncia storpia dell’italiano, ma ha avuto il tristo effetto di incoraggiare sperimentazioni incaute di semialfabeti, ingannati e istigati dalle case editrici ad abbandonarsi a gargarismi da barbari.
Ne dubitate? Pensate che esageri? E che cosa dite allora di un autore di testi che afferma di essere invischiato in un “sandwich di emozioni”? Un sandwich di emozioni? E perché non un “hamburger di angoscia”? O piuttosto “un caciucco di ansietà”? Non vi basta? Ecco a voi alcune perle dello stile finalmente libero di scrivani e scribacchini, i meglio fichi del bigonzo, gente da Premio Strega o Premio Viareggio, che sbanca alle classifiche del più venduto (chi sia il più “venduto” non so). Stiamo parlando di Alessandro Baricco, di Andrea De Carlo, di Niccolò Ammanniti, di Pier Vittorio Tondelli, di Aldo Nove, di Fabio Volo, di Susanna Tamaro, di Alessandro Piperno. Sento già i gridolini delle centinaia di migliaia di fans. Non abbiate paura: non voglio privarvi del vostro gioco di società preferito e rivelarvi subito di chi sono le frasi prescelte. Scopritelo voi. Voi che sapete a memoria ogni parola pronunciata dai vostri idoli.
Dite spassionatamente, che ve ne pare di: “Fu come un sottile refolo. Uno spiffero sfuggito ai serramenti dell’oblio.”? Io francamente avrei preferito: “Un soffio d’aria scampato ai lucchetti della memoria”. O, se proprio volete: “Un goccio d’acqua scappato alle cinture di castità dell’amnesia”. E che dire di un aforisma come: “La sera, come tutte le sere, venne la sera. Non c’è niente da fare: quella è una cosa che non guarda in faccia a nessuno”? E’ forse preferibile: “Il giorno come tutti i giorni venne il giorno. E sono cazzi.”? In ogni caso sarà un caso se: “Il caso non è mai casuale”? Anche il destino, del resto, non è mai destinato ad arrivare a destinazione. La fortuna invece può essere fortunata o sfortunata: dipende dalle circostanze.
Che ve ne pare di: “Sono uno spicchio di me stesso”? E’ meglio o peggio di: “Mia moglie non è la mia metà, ma il mio doppio”? E il fatto che la noia si: “Infili a tradimento negli spazi vuoti” giustifica, e converso, il fatto che: “Il divertimento si sfila, col consenso di tutti, nelle strettoie in stile Biedermeier”? Ma il dilemma più tragico non è questo. E’ invece sapere se chi va a: “Pensierare in auto verso la prateria” sia lo stesso che è solito: “Sillogizzare in landò verso il dirupo”, che talvolta sorprendiamo anche ad: “Arzigogolare in moto lungo il bordo del pozzo artesiano” se non addirittura a : “Ragionierare in bici sul sentiero interpoderale”. In attesa di risolvere l’enimma, ci piacerebbe – confessiamolo- che “frasi luminose ci illumino l’encefalo come fuochi d’artificio” e che “storie di avventura ci infettino”, ma siamo costretti – dura lex, sed lex! – ad infettarci l’encefalo solo con la meningite e a tenerlo lì, spento, senza artifici, né avventure, ripetendo meccanicamente : “M’illumino d’immenso”.
Ci lascia pensierosi, comunque, il fatto che: “La vita era come un cartone animato in una videocassetta guardata troppe volte ma non si poteva togliere dalla tele essendo la vita reale”. Che succederà quando nell’ altra vita ci sposteremo dal Pal al Secam e il videoregistratore di Dio…non sarà compatibile? Non c’è che dire: il brivido metafisico è sempre il brivido metafisico. E di fronte a frasi come: “Ho messo la tutina della Chicco e sono uscito dal nulla assoluto…” non si può che sottoscrivere quanto afferma, lapidario, Andrea Cortellessa, che parla di: “Clausola micromegalica che può evocare il Canto del gallo silvestre leopardiano” (NOTA 1) anche se io non trascurerei il cantico del gatto Silvestro e l’influsso dello Pseudo Longino.
E’ pur vero, però, che anche di fronte al nulla che ci aspetta si vorrebbe pur sapere una buona volta: “Quando si lacera, il cuore che rumore fa?”. E’ un questione di principio. Se la videoregistrazione dell’esistenza in tutina Chicco si svolge proprio lì, di fronte al nulla come dianzi si diceva, dovrebbe svolgersi in silenzio. E se il cuore si lacera? Se com’è noto lacerandosi fa un casino della madonna e pare che sia crollato un palazzo. Come la mettiamo? Ahimé, c’è poco da fare. Ha ragione chi ha scritto: “Purtroppo non siamo esseri sospesi in bolle di sapone, vaganti felici per l’aria; c’è un prima e un dopo nelle nostre vite e questo prima e dopo intrappola i nostri destini, si posa su di noi come una rete sulla preda.”
Sarà per questo che concedersi: “L’ecfrasi della donna amata”, coglierne “il fluorescente splendore” e gustare il sapore di una bocca “impastata dei microrganismi dell’angoscia” fa girare la testa.
L’analfabetismo non ha mai scuse. E’ ora di farla finita con l’anticonformismo accattone di bambini viziati, coccolati dagli editori per compiacere papà potenti o politici influenti. Il ribellismo straccione da prete spretato affratella l’Italia conformista di Papini e quella controriformista di Ammanniti. Si è visto già com’è andata a finire: i teppisti che scherniscono la professionalità sono solo l’altra faccia di un paese di baciapile; i Bravi, che ridono in faccia ai deboli solo perché sono i cani da guardia dei potenti e dei prepotenti.
L’età della Restaurazione
In realtà il furore iconoclasta degli analfabeti serve solo a preparare il terreno allo scatenarsi della Restaurazione. Che infatti colpisce implacabile. E’ questa la strategia delle case editrici per fare gli sghei. La strategia degli spacciatori di droga. All’inizio la droga si regala a piene mani: così gli scolaretti in foia di maledettismo ci cascano in pieno. Per questo ben vengano i cialtroni della scrittura, gli ignoranti cronici che fanno sentire tutti una spanna più alti. Poi, dopo aver creato la dipendenza alla pagina scritta dai mentecatti, si passa allo spaccio pesante, pagato a caro prezzo: scaricando sui lettori, inebetiti dal pensierare e dalla fluorescenza e incapaci di reagire, una grandinata di opere neoconformiste, rigidamente codificate, disciplinate maniacalmente dalle regole d’acciaio del genere letterario precotto, il bestseller da quattro soldi, il romanzetto che si legge sulla spiaggia.
E’ questo che spiega la frenesia con cui negli ultimi tempi l’editoria spalleggiata da televisione e cinema, con costi di pubblicità da capogiro, ha costretto il pubblico a sorbirsi un overdose di gialli scritti coi piedi, di pulp ottocenteschi spacciati per novecenteschi, di letteratura di genere sui generis, per lettori maniaci, che non vogliono gustare la prosa, ma solo ingozzarsi di parole scritte in fretta, ansiosi soprattutto di leggere catechismi, in cui si ripetono sempre le stesse cose, con gli stessi stilemi , gli stessi tic ossessivi.
Questo generale delirio di regole strettissime e di gusti prevedibilissimi, anzi programmati a tavolino, contrasta in modo stridente con la libertà inizialmente concessa ai lettori e agli autori di testi. Ma il rischio è calcolato. Con incredibile faccia tosta le aberrazioni di chi scrive pensierare la pianura sono spacciate per pen club stories: la frase, naturalmente in inglese così fa più effetto, vuol dire che chi scrive a cazzo è uno “scrittore di penna” e copre il 19% del fatturato italiano, secondo l’Osservatorio della letteratura. Questo è l’antipasto. Il resto forma il nocciolo duro dell’editoria: un melting pot di generi assortiti, tutti egualmente rigidi, poveri di lessico e di idee: finti murder stories, legal thrillers, spy stories, horror, pulp, cui vanno uniti nuovi generi letterari con regole adamantine, come le saghe storiche su Cristo massone o sui Partigiani che sbranano poveri fascisti indifesi o le pseudoconfessioni morbose di ragazze in calore (meglio se scritte da uomini) con l’elenco per il confessore di pensieri, opere, omissioni, atti puri e impuri o il recentissimo sottogenere della Ethnic literature, cioè i libri scritti dai vu cumprà intervistati sulla spiaggia dalle signore abbronzate e annoiate. E’ questa la vera torta da dividere: quel 40% delle vendite che godono di diffusione e impunità assolute e tirature da sturbo.
Il bello è che questa coazione alla paccottiglia risucchia anche personalità con potenzialità creative, cui vengono offerti tappeti di gala per nobilitare il traballante suk della letteratura che è proliferato. Si forma così la spazzatura d’autore, che affascina il pubblico per il suo sapore di autenticità rispetto alla segatura di cui si rimpinza e mette in moto il circolo vizioso dei film-scandalo tratti da romanzi che rivelano verità inconfessabili. Non importa se poi viene fuori che sono bufale, come Ingannevole è il cuore più di ogni altra cosa, filmato da Asia Argento, tratto dal libro strappacore del presunto ragazzino emarginato, poverissimo e pluristuprato Jerome “Terminator” Leroy, frutto della fantasia di una donna, la pluripagata, pasciuta e riverita Laura Albert, che non sa manco dove sta di casa la miseria.
Un’altra bufala, che manda in visibilio i minorati, è l’assassino furbetto e accattivante. Va tanto di moda. Appena ne acchiappano uno è il delirio. Gli occhi sbarrati da bravo ragazzo al telegiornale. Il pianto dirotto in diretta, tra tette rifatte e parrucchini rifritti. Il servizio in esclusiva dalla cella, con montagne di lettere di tifosi che gridano: ’Sei tutti noi!’. E subito arriva qualche ex-scrittore che ha venduto l’anima al diavolo, disposto a una forsennata radiocronaca dello straordinario evento, manco fosse lo sbarco a Hispaniola di Cristoforo Colombo: concitato, spiritato, scalmanato, cianotico, livido come la notte, ma col cervello slavato come l’alba. Non va meglio quando il delinquente recita la parte del capobanda di una banda inesistente, a cui credono solo i gonzi: il bulletto della Magliana, che si sente un pò dirigente della Spectre e un po’ Marlon Brando nel Padrino, ma è sostanzialmente una sottomarca del Miles Gloriosus e comanda solo al Gatto e alla Volpe. A simili fanfaroni gli estimatori allocchi non mancano mai. In men che non si dica spuntano fuori falsi romanzi più veri del vero, in stile libero, inventati da veri magistrati che non sanno davvero che fare nel tempo libero: gialli-inchiesta per lettori in crisi di astinenza, ricopiando i verbali della polizia pari, pari, tranne il fatto che il capobanda è meglio di Fantomas, un genio del male e pure un simpaticone. Di un simile supereroe bisogna passare al microscopio anche i peli della barba. E allora dagli giù coi verbali di polizia, spacciati per flusso della coscienza. Siamo all’interno del vecchio cliché del Giallo ricalcato sulla cronaca, scritto da un Poe sfigato che farnetica su una Marie Roget de noantri e riferisce, con scrupolo da Interrogato-il–morto-non-rispose, finanche la disposizione delle budella dopo ogni squartamento. E il lettore pensa: l’autore sa tutto e ha previsto tutto!!! Ma che caspita potrà fare qualunque assassino pazzo di diverso da qualunque altro assassino pazzo, che uno non lo possa ‘prevedere’ da prima? Squarta, strippa, mangia le vittime, le stupra dopo morte e via grandguignolando? Embè? E invece – dice il giudice-scriba-in-calore – ogni delitto è un’opera d’arte, una ficata, una creazione dal nulla, roba che Jahvé si rode ancora il fegato per l’invidia: per questo la cronaca scrupolosa di un atto così sublime, così atipico, così inimmaginabile, il giallo-inchiesta più vero del vero è – ça va sans dire – la… morte sua!
Tradizione e talento individuale
Tutto questo non sarebbe possibile se l’Italia avesse una tradizione culturale seria. E soprattutto se avesse avuto tanti scrittori di romanzi, professionisti intelligenti e pieni di talento come ad esempio l’Inghilterra. Purtroppo le cose non stanno così.
A questo punto, però, occorre porsi una domanda che va al di là delle nefandezze delle case editrici. Una domanda seria, di carattere generale. Perché da noi il romanzo vero non ha attecchito?
Io credo che il problema nasca proprio dalla distinzione tra buon prosatore e cattivo scrittore di cui ho parlato prima. Il nostro è un paese di grandi tradizioni letterarie: tradizioni che di recente si sono imbarbarite, ma che sono state vivissime un tempo. Lo studio dell’eloquenza, l’amore della letteratura, l’esercizio stilistisco continuo, a cui accennavo, sono stati pane quotidiano per gli artisti e per i letterati al Medioevo all’Età Moderna. E hanno lasciato il segno. Paradossalmente il romanzo che non può nascere oggi per l’incapacità di scrivere in bella prosa, non è nato ieri per l’eccessiva capacità di scrivere in bella prosa. Gli scrittori del passato cercavano strenuamente di raggiungere un superbo stile oratorio, degno degli esempi dei classici latini. Esausti dopo tanto sforzo, paghi e orgogliosi dei prodigiosi risultati raggiunti, non potevano sentire il bisogno di andare oltre sottomettendosi alle regole meticolose dell’arte del narrare. Geni multiformi, pieni di estro, alla Leonardo da Vinci, non hanno avuto la pazienza di trasformarsi in architetti, geometri, muratori e costruire edifici solidi e ben congegnati. Il loro unico scopo è stato infarcire con un do di petto ogni opera che hanno composto: di conseguenza, si è formato un pubblico da loggione, attento più al do di petto che all’opera nel suo insieme.
L’oratoria ha prevalso sulla narrativa e la retorica ha sempre sconfitto la drammaturgia: siamo il paese di Cicerone, un paese di solisti, di primedonne, di Vati che sanno ammaliare le masse con parole superbe, ma che non reggono allo stress di costruire una storia che sia un ponte tra l’Io del singolo e quello dei suoi ascoltatori. Già perché il problema è tutto lì: questo ponte. La differenza tra un architetto e un Poeta Vate sta tutta in questo meraviglioso arco che sfida l’arcobaleno: il primo sa fabbricarlo, il secondo no. Nel caso del romanzo, il ponte è rappresentato da trama, personaggi e gusto del racconto. Tutte cose che i nostri autori non dimostrano davvero di conoscere. Sono veramente rari, tra Otto e Novecento, gli scrittori capaci di raccontare una vicenda insolita e appassionante, animata da personaggi memorabili e coinvolgenti. In genere i nostri scrittori sono poeti prestati alla prosa, come D’Annunzio: quando va bene sanno evocare atmosfere suggestive, analizzare psicologie tortuose, rappresentare individui attraverso comportamenti e soprattutto scrivere in un italiano forbito. Ma raramente sanno creare quel meraviglioso amalgama di azione e interazione che costituisce l’essenza di un romanzo. Insomma, nel migliore dei casi, abbiamo avuto buoni prosatori, a volte eccelsi stilisti, ma raramente veri narratori.
La realtà romanzesca
Giunti a questo punto è necessario che parli di me, perché solo parlando di ciò che conosco fino in fondo posso esprimere compiutamente ciò che intendo dire e terminare il mio discorso. Non so se io sono uno scrittore o piuttosto uno scrivente o addirittura uno scrivano. So solo che non posso fare a meno di mettere le carte in tavola e terminare il discorso che ho iniziato spiegando quelle che sono le direttive di fondo della mia ricerca in questo campo.
Io credo che la trama e i personaggi siano la sostanza del romanzo: se una storia non si regge, se i suoi protagonisti non sono credibili, crolla tutto, come avviene in una casa che, sia decorata o no, sia raffinata o no, se vuole essere chiamata casa e non capriccio deve reggersi sulle sue fondamenta. E questo vale perfino per la casa sulla cascata di Wright, che non è certo banale o tradizionale, ma non di meno, si regge splendidamente sulle fondamenta incastrate nell’acqua.
Dunque trama, personaggi e senso della narrazione. E’ essenziale che questi ingredienti si fondano e che collaborino insieme coinvolgendo il lettore. Che abbiano cioè una coerenza e una coesione. Ma come si può ottenere una simile armonia?
Questa domanda fa nascere immediatamente due problemi, uno vecchio (e sempre attuale) ed uno nuovo (e in realtà antichissimo): il primo è il problema del realismo della rappresentazione; il secondo è quello della validità dei generi letterari. Infatti, chiedersi come si possano fondere storia e personaggi significa automaticamente chiedersi, da un lato se ci sia ancora spazio nella letteratura moderna per una narrazione di tipo tradizionale in cui esistono ancora storia e personaggi; dall’altro, se i generi letterari, con il loro repertorio di situazioni, canovacci prestabiliti ed eroi stereotipati favoriscano la stesura di un romanzo degno di questo nome. La prima domanda ha suscitato negli anni sessanta un aspro dibattito sui limiti del realismo e del neo-realismo e sul valore delle sperimentazioni stilistiche delle avanguardie, la cui eco, affievolita, è ancora avvertibile oggi. La seconda domanda ha provocasto di recente vivaci discussioni: basti ricordare quello sui limiti del romanzo poliziesco che è addirittura finito sulle pagine dei giornali, dando alla letteratura un posto d’onore nella cronaca, che di solito non le compete. Di fronte al successo imprevisto di romanzi infarciti di delitti, inchieste, killers e commissari i partigiani del giallo e i suoi detrattori si sono scatenati negli ultimi tempi, così come nei tempi passati si erano scontrati su fronti, opposti e complementari, i difensori del neorealismo, i paladini della tradizione e i seguaci dello sperimentalismo verbale. Ecco, io vorrei uscire dalle polemiche e dal conflitto fra opposti estremismi che, come sempre in Italia, fa il gioco di chi ha il potere. Quando intorno c’è troppo clamore, cerco rifugio nel silenzio, nel contatto con chi si è espresso con un eloquente mutismo, limitandosi a parlare attraverso ciò che ha fatto. Tale è il caso dei grandi pittori che ci hanno lasciato un messaggio persuasivo grazie alle loro opere e soprattutto grazie all’esempio di un’operosità laboriosa e schiva. Pensiamo a Caravaggio. Nessuno può negare che sia un autore audace e rivoluzionario: eppure nessuno può sostenere che abbia violato i limiti delle convenzioni estetiche del suo tempo, con novità formali inconsuete e lambiccate. In un certo senso si potrebbe dire che la sua grandezza consiste nell’aver fatto implodere la realtà, facendola rinascere senza quasi che si rendesse conto di essere nuova e diversa, come accade a volte durante un sogno che sembra reale e non lo è. Caravaggio non mise mai in discussione il fatto di essere un pittore di genere: dipingeva madonne e santi, come tutti; ma le sue Madonne avevano i tratti delle prostitute e i suoi santi avevano gli occhi dei bari nelle taverne. Era questo che faceva la differenza: la sua emozione del mondo. Il pennello, guidato dall’emozione, sceglieva soluzioni formali congruenti all’ispirazione: il resto non contava. In apparenza lo stile era quello di un pittore come gli altri e ricerche formali come quelle dei Manieristi o dei primi artisti barocchi erano assenti; ma a ben guardare il risultato era inaudito e scandaloso perché rifletteva una percezione del mondo che non aveva eguali. I quadri erano più veri del vero e allo stesso tempo non del tutto veritieri. Caravaggio si serviva della realtà per esprimere la sua realtà interiore e se si rivolgeva a un baro o a una puttana era per regalargli una rosa, in segreto; per suggerire che somigliava all’uva trasparente, alle mele brillanti dei suoi canestri di frutta; che aveva diritto alla carezza della luce calda che partiva dal dito di Gesù come dal suo pennello, capace di redimere perfino le tenebre. Dosando sapientemente luci e ombre, lirismo e oggettività, artificio e spontaneità, attraverso la ‘citazione della realtà’ Caravaggio è riuscito a darci un nuovo modo di vedere la realtà plausibile, ma anche illusoria: non una ‘fotografia’ del mondo, ma piuttosto una sua rievocazione appassionata e comossa.
Ora, richiamandomi a questo modello, vorrei dire che se io cerco di esprimere il mio mondo interiore, non mi sento in imbarazzo perché devo percorrere la strada di un genere tradizionale, né perché sarà la realtà la mia Fata Morgana invece che lo ‘sregolamento di tutti i sensi’ di Rimbaud.
Ma neppure mi sento tentato di essere iper-realista, gareggiare con la cronaca, di smarrire il senso della mia identità trasformandomi da scrittore in giornalista, come fanno purtroppo molti autori oggi. Insomma, io sento di non avere bisogno di sperimentazioni, di effetti speciali, di ammiccamenti ed allo stesso tempo di non dover essere limitato nei confini ristretti del realismo o di un genere che impone regole rigide. Io credo che l’esistenza di un mondo interiore, di ciò che ho chiamato la mia ‘emozione del mondo’, richieda che io sia fedele solo ad essa e mi autorizzi a muovermi con libertà, scegliendo i colori più adatti per realizzare il mio quadro, guidato solo da ciò che l’ispirazione ‘mi detta dentro’. Le mie storie sono il mezzo per comunicare le mie emozioni. Per questo mi affido ad esse senza riserve, ed ho piena fiducia nei miei personaggi. Scrivere un romanzo è questo: fare un atto di fede nei propri personaggi e desiderare che vivano di vita propria, che camminino con le loro gambe e coinvolgano il lettore in una danza indiavolata. E’ necessario mettersi umilmente al servizio delle storie che si raccontano e non giocare a fare la primadonna come fanno tanti sull’esempio di Pirandello nei Sei personaggi, in cui non conta la loro vera vita ma solo lo spettacolo che essi – poveri burattini!- danno a noi mossi da un puparo sempre pronto a fare capolino ed a mostrare che li tiene in pugno e li fa ballare. No, i personaggi sono come i figli: devono vivere di vita propria e noi dobbiamo essere felici di vederli crescere e fuggire via, come una farfalla su fiore da cui esala profumo. I prosatori italiani, chiusi nella torre d’avorio del loro orgoglio di Autori con la A maiuscola, non mostrano quasi mai un amore disinteressato per trame e personaggi. Per questo hanno fallito nel romanzo. Sono stati invece gli autori con la a minuscola, i guitti, i teatranti e i cinematografari a darci le narrazioni più importanti dell’Italia del Novecento: i mestieranti dello spettacolo hanno saputo rinunciare a dare spettacolo del loro Io e hanno creato nel passato e ancora sono in grado di creare capolavori raccontando storie fatte da esseri umani: storie che a volte sono dei noir senza dirlo, come Ossessione e Ladri di Biciclette; storie che oggi il cinema italiano, contagiato da furori dannunziani postmoderni, sembra aver dimenticato, proprio oggi, quando grandi film disperati come Mystic river ci invitano, per paradosso, a sperare nel futuro del genere noir e del genere umano, capace di mettersi a nudo con tanto coraggio. Rispetto ai Vati in crisi di astinenza da applausi e da ispirazione vera, i guitti e i giullari ci hanno insegnato a guardare la Commedia Umana con altri occhi, a ritrarci sgomenti di fronte alle tragedie della storia ed a sognare nelle notti di mezza estate quando le fate scendono sulla terra. Io credo che la scelta di esprimersi sul piano artistico nasce dall’urgenza di comunicare un’emozione del mondo: non una ‘visione del mondo’, ma proprio una ‘emozione del mondo’, un modo di sentire le cose che avvolge la realtà in una specie di sfondo. La parte più segreta di noi, che ciascuno vive a modo proprio con un’intensità, con un ritmo che è solo suo.
La mia sensazione del mondo è tragica e divertita e questo io ho voluto comunicare scrivendo un romanzo – anzi due (NOTA 2) – piuttosto che un saggio. Se teniamo presente quest’emozione di base, come una stella polare che ci orienta, potremo muoverci meglio nelle acque torbide in cui siamo finiti.
Partiamo da qui: l’esigenza di esprimere il proprio mondo interiore. Per me questo significa soprattuto dolore, pietà e memoria. Per i perdenti, per i deboli, per gli emarginati, per coloro che piangono e non saranno mai consolati, per chi sogna, per chi ha paura. Come ha detto Graham Greene: “il fine dello scrittore è suscitare simpatia per chi non ha diritto alla simpatia”. Aggiungerei che il fine dello scrittore è tenere vivo il ricordo di chi non ha diritto ai ricordi.
E significa anche ridere o almeno sorridere della follia mascherata da ragione che ci avvolge e ci soffoca. Greene – che abbiamo scelto per nume tutelare – lo ha chiamato l’umorismo dei vinti, ma c’è da chiedersi se non si tratti piuttosto del ridicolo dei vincitori, che la risata fragorosa, omerica dei vinti denuncia e demistifica, di volta in volta, anticipando solo di qualche anno il giudizio inesorabile del Tempo.
Non è difficile capire che tutto ciò è in antitesi radicale con la contemporaneità: con questo mondo tronfio e ridicolo, angariato dal mito del successo, che idolatra solo chi è vincente; questo mondo usa-e-getta in cui tutto deve essere goduto e dimenticato in un attimo; che ricatta tutti con la tirannia del presente, del contingente, dell’effimero. Un mondo in preda al furore di cancellare passato e futuro che insidiano il primato dell’immediato, quei ricordi dolorosi che ossessionano l’avaro nel Canto di Natale di Dickens.
Questo mondo è fatto per l’uomo che non deve chiedere mai perché ha tutto subito. L’uomo che come dicono gli psicoanalisti, cerca solo il trionfo maniacale, l’unica gratificazione possibile di una psiche profondamente malata, incapace di tollerare la frustrazione e il senso del limite.
Di fronte a questa disperata coazione alla rimozione vi sarà sempre un Baudelaire disposto a dare voce al turbamento di Andromaca ingiustamente schiava del brutale Pirro; a evocare la ferocia di una città che cambia più veloce del cuore di un mortale e dire, come fa il poeta niente nella mia malinconia si è mosso…
Penso alla negra, per la tisi magra,
con l’occhio cupo e il fango sporco ai piedi,
che dietro il muro immenso della nebbia cerca le palme e l’Africa perduta
e a chi ha smarrito ciò che mai ritrova,
mai, mai, mai più! Chi con il pianto placa la sete e col Dolore, come latte
di lupa, orfano scarno, fiore secco.
Così nascosto dentro il bosco il cuore
s’esilia ed un Ricordo antico il corno
suona, suona! Ed ai vinti, ai prigionieri
ai marinai su un’isola deserta
penso … E a tanti altri… Tanti altri ancora!
Ed ecco allora, con l’umiltà e l’orgoglio di un commediante, che io vi presento i miei eroi: eroi che ci fanno pena e che ci fanno ridere, con una risata, spiritata, appassionata, feroce, dissacrante, come Belli e come Goya. Cialtroni, bizzarri, inconcludenti, usciti da qualche romanzo picaresco del Cinquecento e smarriti per le vie di Roma. Sì, eccoli ed ecco Roma, personaggio essa stessa, simile ai suoi figli; Roma stracciona, stravagante, strapazzata, strofinata, stropicciata da tutti, ma carezzata e conosciuta solo da chi ci è nato, da chi le appartiene. Roma che sembra opulenta e solare o tutt’al più cinica ed è invece una città drammatica, in cui la tragedia è nascosta dietro le mura, le mura fra le quali vive tanta gente che, come diceva Woody Guthrie, non ha altro che ‘le sue mani vuote’. Le mani dell’uomo che da sempre a Roma è faber e fabbrica, nel bene e nel male, con le sue mani la sua fortuna.
NOTA 1: Andrea Cortellessa, in “Alias”, supplemento de “Il Manifesto”, 27 Marzo 2004.
NOTA 2: Un guscio di noce, Roma, Robin 2003; Il fuoco dell’ellisse, Lecce, Manni, 2005 Tratto dal Blog Daniele Barbieri e Altr* Fabio Troncarelli home |