La Lavagna Del Sabato 28 Aprile 2012 MOBILITÀ DEI LUOGHI Vito Teti
Passo accanto alle dimore, dimore di Laylà
Bacio quel muro, e questo
Non è l’amore per i luoghi che mi rapisce il cuore
ma l’amore per coloro che vi hanno abitato.
(Poeta arabo del VII secolo, citato da Mohammed Bennis)
Cosa è un luogo? Quale è il luogo in cui viviamo o pensiamo di vivere? Perché vi viviamo e come siamo vissuti dal luogo? Uno dei rischi di tanta letteratura sui luoghi (al pari di quella sull’identità, sulla tradizione e sulla memoria) è che si scivoli verso una sorta di metafisica del luogo, di un luogo colto nella sua immobilità e nella sua astoricità. Contro questo rischio, anche quando parliamo di “anima dei luoghi” e di sentimento dei luoghi, occorre ribadire la “storicità” dei luoghi, la loro “mobilità” anche in rapporto alla nostra mobilità. Uscire da una sorta di metafisica del luogo per coglierne l’affettività e i legami complessi, controversi, mutevoli che con esso si stabiliscono.
Il luogo non può essere assolutizzato: va considerato nelle sue determinazioni storiche e temporali.
La nozione socio-antropologica di luogo è stata associata a partire da Mauss e dalla tradizione etnologica a culture ben localizzate nel tempo e nello spazio, ma come non sono esistiti mondi armonici e pacificati, così non sono esistiti luoghi completamente isolati e chiusi. Il luogo antropologico è infatti di «scala variabile» nelle diverse società. Per quanto delimitabile, conoscibile, noto il luogo antropologico non è mai, neanche nelle società primitive e tradizionali, chiuso. Non esiste luogo antropologico se non in relazione a spazi esterni, vissuti come pericolosi e minacciosi, a territori popolati da spiriti, defunti, altri gruppi umani ostili o simili agli animali. Si può dire che ogni luogo riceve un senso da un «altro luogo» sconosciuto, ostile, pericoloso.
Anche l’uomo delle società primitive aveva la percezione del «fuori luogo», tracciava linee concrete immaginarie superate le quali poteva perdersi. La paura e il terrore degli spazi lontani, esterni, pericolosi, l'idea di potersi smarrire presuppongono un «sentimento del luogo» molto vicino alla nostalgia. Gli antropologi hanno messo in evidenza l’«angoscia territoriale» delle persone che si allontano dal centro, dal posto noto. Ernesto De Martino ha scritto pagine fondamentali sull'angoscia, il senso di smarrimento e di paura che colpiva le popolazioni calabresi e meridionali quando si allontanavano dal campanile del loro paese. Il forte senso di radicamento, la paura di perdersi, la nostalgia del luogo sono caratteristiche di comunità che pure avevano una storia secolare, sia pure difficoltosa, di scambi e rapporti con il mondo esterno. Non bisogna dimenticare che il Mediterraneo per molti versi ha rappresentato un “Grande Luogo” fatto di tanti luoghi comunicanti, uguali e diversi.
Il luogo non è facilmente rinchiudibile in uno spazio. Il luogo è mentale: richiede anche un’organizzazione simbolica (la letteratura sull’argomento è molto vasta). Il luogo è tale soltanto perché vi sono delle persone, degli individui che lo considerano il loro luogo, perché delle persone o dei gruppi lo abitano, lo popolano, lo vivono, lo modificano interagendo con esso. Il luogo è anche le immagini di esso ereditate. Il luogo è ciò che di esso hanno fatto le persone che lo hanno abitato e che lo abitano, quelle partite e quelle che arrivano. Il luogo ha una storia. Il luogo ha un senso, ci sente, ci avverte. Ci condiziona, talvolta ci possiede. Cambia anche la nostra relazione, la nostra percezione del luogo.
Il luogo ha a che fare con lo spazio, è qualcosa di individuabile, definibile, spesse volte circoscrivibile, dal punto di vista geografico, ma non è riducibile allo spazio. Il luogo dell’uomo ha a che fare con il tempo, con la memoria, con i ricordi, con l’oblio. Il luogo è una costruzione dell’uomo. Il luogo è un’invenzione antropologica. Il luogo antropologico è abitato, umanizzato, riconosciuto, periodicamente rifondato (si pensi alle nostre feste e ai nostri riti) dalle persone che di quel luogo fanno o si sentono parte. Ma questo vuol dire che anche le persone sono segnate dal luogo.
Noi siamo il nostro corpo, la nostra famiglia, i nostri antenati, la nostra storia. Noi siamo illuogo in cui siamo nati e cresciuti. Siamo anche i luoghi abitati, conosciuti, vissuti, anche i luoghi sognati, i luoghi desiderati, persino i luoghi fuggiti, disprezzati, amati, odiati.
Nascere significa necessariamente nascere in un luogo, essere e sentirsi consegnato ad una residenza, avere un’appartenenza. Si può abbandonare o lasciare il luogo di origine, ma non si fugge dal luogo. Quel luogo in qualche modo, anche quando rimosso, dimenticato, cancellato, ci insegue per tutta la vita.
Il luogo di nascita è costitutivo di quella che, con un termine che spesso ingenera equivoci e a volte anche danni e drammi, chiamiamo identità del gruppo e dell’individuo. L’uomo delle società tradizionali era anche quello che erano stati i suoi genitori, i suoi nonni, gli antenati. Apparteneva ad un luogo ben definito, alle divinità, alle persone, ai defunti di quel luogo. Ancora oggi coloro che vivono nei paesi, restano individui con il senso della verticalità più che dell’orizzontalità. Sono figli del tale, di quell’uomo che ha avuto quella storia, assomigliano o non assomigliamo ai genitori, ne prendono o non ne prendono dagli antenati. Sono destinati dalla nascita ad un’appartenenza familiare, in passato anche sociale e culturale.
Le persone nate e cresciute nello stesso luogo hanno una comune appartenenza e un sentire comune che li contraddistingue, agli occhi degli abitanti del luogo, ma anche dei forestieri, degli abitanti dei paesi vicini.
Vi sono, dunque, sensazioni, emozioni, linguaggi, parole, gesti comuni alle persone del luogo. Esse si riconoscono una comune appartenenza e identità anche fuori dai luoghi di origine. Si sentono uniti da storie, legami, tradizioni. C’è qualcosa di magico, ma in realtà di storico, di una magia che viene elaborata nella storia - la lingua, i gesti, i portamenti, le tradizioni - che a volte rendono simili anche dal punto di vista fisico, della fisionomica, del modo di muoversi gli abitanti dello stesso paese. Noi ci assomigliamo perché assomigliamo ai luoghi, e assomigliamo ai luoghi perché i luoghi sono una nostra costruzione.
Nel luogo di nascita e di appartenenza l’individuo apprende la cultura dei padri, conosce il proprio corpo in relazione allo spazio esterno, riceve le sensazioni ed emozioni che l’accompagnano per tutta la vita, magari le emozioni che riappaiono nella vecchiaia, alla fine della vita, sul letto di morte. L’uomo delle società tradizionali si sentiva parte di vicende che l’avevano preceduto e in qualche modo pensa che continuerà ad essere presente nei luoghi anche dopo la sua morte.
Noi, intendo dire noi che abitiamo nei paesi, pensiamo ancora che i defunti non abbandonano mai del tutto i posti in cui si è svolta la loro vita. Essi hanno una profonda nostalgia dei loro familiari, dell’acqua, del cibo, della vita. Tutto questo ci raccontano i sogni, le pratiche, i modi di dire. Il culto dei defunti, la credenza, potrei dire la certezza, che essi continuano ad essere presenti nei luoghi, ad osservarci, a proteggerci, a consigliarci sono tratti costitutivi degli uomini di questa parte di mondo. Le nostre visite al cimitero, il nostro modo di vivere e di rivivere le feste, la nostra commozione al passaggio della statua del Santo, del Crocefisso, della Madonna, il nostro senso di gioia e di tristezza al momento del pasto festivo, cosa raccontano se non questa nostalgia di coloro che sono stati e non ci sono più? Cosa raccontano se non la speranza, la certezza, la sensazione che essi continuino ad essere qui con noi? Non si spiegherebbero la forza e la solidità delle feste del passato se non in relazione al senso del luogo, al nostro senso di appartenenza, all’educazione appresa da bambini, alla convinzione che i defunti continuino a vivere e anche a quella che noi una volta che non ci saremo più continueremo ad abitare questi luoghi. Noi, diceva Joseph Roth, che di erranza e di fine di mondi si intendeva, continuiamo (la ripetizione del verbo continuare è voluta) ad appartenere ai luoghi dove sono sepolti i nostri genitori.
Il luogo antropologico “per eccellenza”, il “luogo sacro” di questa parte del mondo è l’entità geografica, abitativa, mentale, culturale che chiamiamo paese. Il luogo-paese non può essere ridotto al luogo delle società etnologiche. È un luogo storico, segnato da mille passaggi.Nei piccoli paesi, spesso in villaggi di poche centinaia di persone, in agglomerati di poche famiglie – che si sono formati nel tempo per una serie di ragioni storiche, produttive, culturali – si è svolta per secoli, per millenni, la vita delle popolazioni.
Ogni paese si definisce e si autodefinisce – e qui non sfioro il grande tema dello sguardo esterno e delle percezioni degli altri – a partire da momenti salienti, fondanti, caratterizzanti la propria storia economica, civile, sociale, culturale, religiosa.
Il luogo-paese nella società tradizionale non è un luogo pacificato e compatto. Il paese è anche, è stato, il luogo delle vicinanze, ma anche dei conflitti, delle separazioni, delle invidie, delle calunnie, dei pettegolezzi. Tutti questi aspetti svolgono elementi di coesione, ma talvolta di dissoluzione. Uno stesso paese poteva essere costituito da più luoghi separati e contrapposti. In molti paesi della Calabria era spesso presente un dualismo spaziale che rifletteva separatezze economiche, sociali, religiose. L’individuo si sentiva spesso legato ad una zona del paese in opposizione ad un’altra (zona bassa e zona alta, parte destra e parte «mancusa», sinistra). Il legame era spesso non tanto con l'intera comunità ma con un luogo (un sub-luogo) preciso e delimitato della comunità. Il riferimento spaziale ancora negli anni Cinquanta era spesso ad una chiesa, ad un calvario, ad una «ruga». Non si trattava soltanto di paura dell’altro: c’erano forti legami con il mondo esterno, lontano e vicino.
Il luogo si sposta, si dilata e diventa altro da sé. Per l’identità del luogo-paese è fondamentale una storia di lunga durata, segnata di passaggi, conflitti, invasioni, arrivi, partenze. Per la nuova identità dei paesi, quella dell’ultimo secolo e mezzo, è stata decisiva un fenomeno come l’emigrazione. E’ con questo fenomeno che i paesi si spostano, esplodono, si trasferiscono altrove. Nascono i doppi. I paesi, per molti versi, si sono trasferiti in posti come New York, Toronto, Montreal. E anche chi non ha mai visto queste metropoli percepisce quel luogo come una sorta di continuità dello spazio paesano.
Allo stesso modo gli emigrati portano con sé il paese, lo rifondano, lo ripensano. Il luogo agisce anche fuori dal luogo. Gli emigrati hanno realizzato una sorta di dilatazione del luogo antropologico. Vi può essere un sentimento comune in persone che vivono a migliaia di chilometri di distanza. Si dice che oggi prevalgano i non luoghi, luoghi anonimi, informali, uguali, eppure proprio il non luogo Toronto (ad esempio) diventa il luogo per eccellenza, umanizzato, sacralizzato, caratterizzato dagli emigrati. Toronto diventa un altro luogo, e anche il paese diventa un altro luogo dopo l’emigrazione e dopo l’arrivo della modernità. I paesi vanno in America, e l’America arriva nei paesi.
Il mio paese d’origine non è solo questo luogo, ma è la trama che i tanti “compaesani” hanno stabilito tra questo luogo e i mille luoghi dove si sono trasferiti. Allo stesso modo che il loro nuovo mondo non è banalmente nuovo, è anche antico. Storie di legami, di partenze, di fughe hanno concorso alla definizione di una nuova identità.
Il paese di oggi non è più – e non solo per l’emigrazione – il paese del passato. Il «paese presepe» (l’immagine è ricorrente nella letteratura meridionale e meridionalistica) come luogo antropologico, anche se non come spazio abitativo, è scomparso per sempre. Si è frantumato in mille schegge. È esploso. Noi dobbiamo pensare al luogo come a qualcosa di aperto, di mobile, che muta, che si dilata, si sfrangia, si scompone e non sempre si ricompone o si ricompone in maniera profondamente diversa. Analogamente anche il nostro senso di appartenenza, sia di quelli che sono rimasti, sia di quelli che sono partiti (oserei dire a maggior ragione) è profondamente mutato. Nel passato si era di quella famiglia, di quella confraternita, con tutto ciò che comportava anche a livello di vita pubblica, privata, familiare, lavorativa, del paese, ma già con l’emigrazione ci si scopre di essere delle Serre, della Calabria, dell’Italia. Poi si scopre, ad esempio, che si è canadesi. E oggi non si è più soltanto del paese o della congrega di appartenenza. Restano importanti le appartenenze, ma noi apparteniamo anche a più luoghi, geografici e mentali. Siamo abitatori di un luogo, appartenenti, per nascita, a una confraternita, ma poi siamo anche di questo o di quel gruppo politico locale, di questo o quel partito (sebbene anche questa appartenenza sia sempre più labile o a rischio), di destra o di sinistra, o di centro destra o di centrosinistra, dell’Inter o della Juve, della città dove siamo andati a studiare, del non luogo televisivo, della scuola e così via. L’identità oggi viene raccontata con l’immagine del sasso buttato nell’acqua che a partire da un centro si allarga in tanti centri. E questi centri non sempre si comprendono, non sempre si conoscono. In più, c’è il fatto nuovo e sconvolgente delle identità degli altri con cui entriamo in contatto. Chi immaginava che le nostre rughe vuote di paesani avrebbero visto le presenze di stranieri, di donne dell’Est? L’identità è plurale, variabile. Questo significa tante cose, ma significa che il punto di osservazione del luogo non è più quello interno, chiuso e spesso angusto, che ti faceva accettare tutto acriticamente, ma quello che si forma fuori. Noi guardiamo il nostro luogo con sguardi, culture, sensibilità apprese altrove. Ancora una volta la vicenda degli emigrati è esemplare. Essi guardano con amore il luogo di origine, ma anche con un misto di distanza, insofferenza che si è originata fuori a contatto con altri mondi. Talvolta il rapporto con l’esterno genera distanza, altre volte mitizzazione. Il luogo d’origine può restare il paradiso, il luogo di arrivo l’inferno. Ma il paese a cui ci si rivolge non è quasi mai quello vero quello reale, quello di tutti i giorni, è quello dell’estate, delle fughe e dei ritorni, dei ricordi, del mito, dell’infanzia. Tutto questo genera sentimenti di appartenenza, e insieme di spaesamento, ma anche la nascita di identità aperte, di sentirsi appartenenti a più mondi e a più vicende. Anche coloro che restano in un certo senso partono, costruiscono il senso del luogo con molteplici sensibilità. Tutti dobbiamo fare i conti con un paese, con i paesi che non sono più quelli del passato. Sono antichi e moderni, tradizionali e postmoderni, aperti e chiusi, luoghi e spesso dei non luoghi, o, come mi è capitato di scrivere altre volte, dei “non più luoghi” e dei “non ancora luoghi”.
I luoghi possono anche scomparire, possono anche morire. Dicono che i luoghi stiano scomparendo. Intendo i luoghi antropologici, i luoghi abitati e riconosciuti, i luoghi con un centro, i luoghi sacri. In un certo senso l’opera di desacralizzazione dei luoghi, la fine della loro sacralità, è cominciata molto tempo fa. Secondo alcuni è cominciata con la modernità e secondo altri già nel mondo antico. Con la fine di Delfi sarebbe cominciata la fine del sacro e del resto quella che noi chiamiamo modernità si afferma per certi versi già nel mondo antico. Ma è ai nostri giorni, nel periodo della mondializzazione-globalizzazione, che i luoghi tenderebbero a scomparire, a dissolversi come centri e come punto di riferimento, come reticoli di relazioni e di storie. Tutti i luoghi del mondo sarebbero uniformi, uguali, anonimi, quasi dei non luoghi, per l’appunto (secondo la fortunata espressione di Marc Augé). Aeroporti, stazioni, plaza, luoghi di transito, luoghi virtuali, reti, banche, ecc. danno un’idea del non luogo. Ma come non esistono i luoghi chiusi, separati, immobili (perché ogni luogo muta) così non esistono in assoluto i non luoghi. Non esistono luoghi abitati, di transito, dove in qualche modo non venga attuata o tentata una sacralizzazione, certo in termini diversi dal passato.
Il cristianesimo rifonda il centro con i pellegrinaggi, il culto delle reliquie e il culto dei santi. Gli emigrati ricostruiscono un centro nei nuovi luoghi. Nei paesi doppi della Calabria che nascono lungo le coste disabitate, malariche, anche se con fatica si afferma un senso del luogo. Le processioni a mare, in paesi spesso tutti uguali, senza centro, senza piazza, oltre a connotati turistici, diventano forme di riconoscimento, di autorappresentazione, di identificazione per persone che arrivano da luoghi diversi. Anche nei paesi abbandonati, disabitati si tenta una sorta di sacralizzazione.
La tendenza è sempre alla sacralizzazione, anche quando ci sembra essere in presenza della dispersione più radicale. D’altra parte, anche in maniera complementare e per opposizione a tendenze omologanti, mai come adesso c’è un’attenzione alle culture locali, alle piccole patrie. Tutto questo sembra andare in senso contrario alla desacralizzazione, anche se la sacralità, il riconoscimento si traducono spesso in localismi, in chiusure, in leghismi più o meno espliciti, più o meno mascherati.
Bisogna però fare attenzione. I luoghi non solo si spostano, si modificano, si trasferiscono. I luoghi possono, come ci insegna la storia della Calabria, anche morire. C’è un rischio immanente alle civiltà, come alle culture, alle storie: ed è la loro fine. L’abbandono e le rovine sono una costante, un elemento caratterizzante e ricorrente della Calabria. Catastrofi naturali (terremoti, alluvioni, frane), invasioni, ricerche di nuovi spazi, nuove esigenze economiche hanno fatto della regione una delle più segnate dall’abbandono di centri abitati. Dagli anni Cinquanta decine di paesi sono stati abbandonati. Le cause sono le più varie, le ragioni le più diverse, le motivazioni le più variegate. L’abbandono delle zone interne è un problema aperto, è un rischio che ci riguarda da vicino. Interi territori vengono devastati e degradati. Si ribalta il rapporto con il territorio, con la montagna, che da luogo di cultura diventa periferia, deserto. (Il dibattito sulla ricostruzione e sulle new town a seguito del terremoto dell’Abruzzo e delle alluvioni in Sicilia e in Calabria, il desiderio di “restare” delle popolazioni, ma anche la loro inevitabile fuga, e anche le “catastrofi” come “affare” per i gruppi dirigenti ecc. sono temi che vanno affrontati tenendo presente storie di radicamenti e di sradicamenti, di fughe e di ritorni, di rabbia e di nostalgie).
Dobbiamo però interrogarci sul rischio-abbandono. Sappiamo che quando muore una persona anziana, molte volte non si chiude una storia, si chiudono le storie, si chiude un’epoca, si chiude una casa. Spesse volte quando si chiude una casa il rischio è che si chiudono le “rughe”, intieri quartieri. Tutti i paesi dell’interno hanno zone vuote. La rassegnazione si unisce ad una sorta di senso della fine. I paesi sono sempre meno soggetti protagonisti, attivi. Nel caso dei paesi che avevano basato la loro nuova vitalità, la loro nuova identità, sull’emigrazione, sui contatti, i legami, gli interessi con le zone dell’esodo bisogna segnalare che anche questa via, questa valvola, questa risorsa si sta spegnendo. Siamo ormai nel periodo della post-emigrazione. Gli antichi legami tra rimasti e partiti si stanno attenuando. Le generazioni nate in paese o legate al paese si stanno estinguendo. I paesi doppi si stanno frantumando, dissolvendo. I figli e i figli dei figli hanno sempre meno rapporti con gli abitanti del paese uno. Credo che la vicenda della doppiezza tipica di molti paesi calabresi si andrà esaurendo.
Vorrei sottolineare (senza alcun rimpianto per un “buon tempo andato” mai esistito) il rischio di perdita di memoria delle nuove generazioni, l’arrivo di nuovi modelli, l’erosione di quel tessuto agro-pastorale su cui si è basata la nostra civiltà, la nostra consapevolezza. Il tutto si traduce anche in scomparsa di quelle forme di socializzazione, di convivialità, di vicinanza che al Sud fondava una vera cultura carnevalesca (La morte del Carnevale è metafora della fine di un’epoca. Anche l’attenuarsi della vita delle confraternite significa perdita di socialità. Anche la fine delle tensioni e di contrasti, paradossalmente, significa fine di legami e di presenza).
Naturalmente nascono altri legami, altre iniziative, ma la sensazione è di un vuoto che colpisce il paese. Le scuole sono attive e fanno mille iniziative, ma le classi tendono a diminuire, a chiudere. Il senso di vuoto lo si vive d’inverno. Tutti i paesi dell’interno annaspano tra vita e morte, tra passività e azione, tra delusione e speranza. Siamo lungo un crinale in cui si affacciano non più luoghi e non ancora luoghi. Non esistono, dalle nostre parti, i non luoghi, ma i luoghi vanno rifondati, riguardati, riguadagnati. Questo articolo è la parte introduttiva, rivista per l’occasione, della relazione presentata all’Istituto studi mediterranei dell’Università della Svizzera italiana, Lugano, ottobre 2009 Vito Teti home |