La Lavagna Del Sabato 14 aprile 2012 TRE ARTICOLI SUL BRASILE
LA NUOVA AMERICA
Federico Rampini
Nei prossimi otto anni il Brasile avrà bisogno di un milione e centomila ingegneri, più del doppio di quanti riesce a formarne nelle sue università. La presidente Dilma Rousseff ha appena lanciato un programma speciale, Scienze senza Frontiere, per finanziare gli studi post-laurea all'estero di centomila giovani brasiliani, ma non basta a colmare il "deficit di cervelli". Il piano Scienze senza Frontiere la dice lunga su quanto questo Brasile sia sicuro di sé.
La Rousseff non teme che quei giovani connazionali possano rimanere all'estero: dove troverebbero le opportunità che gli fornisce il loro paese? Se ne sono accorti anche i giovani europei. Per i nostri neolaureati dei Politecnici di Milano Torino e Genova, le città di Rio de Janeiro e San Paolo tornano a essere la terra promessa, proprio come ai tempi dei loro bisnonni.
Il flusso di questa emigrazione alla rovescia, dall'eurozona ex-ricca verso il gigante dell'America latina, sta diventando massiccio. È un'emigrazione qualificata, e tra i primi a trarne beneficio sono i giovani laureati spagnoli e portoghesi; non a caso, due dei paesi stremati dalla recessione dell'eurozona. Dalla Spagna in particolare fuggono gli architetti: formati nell'epoca del boom immobiliare iberico, troppi di loro sono disoccupati o lavorano gratis negli studi professionali che li sfruttano in un precariato senza sbocchi. Il Brasile offre molto di più.
Tra i Mondiali di calcio del 2014, le Olimpiadi del 2016, nonché le imponenti scoperte di giacimenti petroliferi offshore, le grandi opere infrastrutturali sono in costante aumento. Per gli esperti di trivellazioni petrolifere sottomarine, o di costruzioni stradali, o di centrali elettriche, è una Bengodi dove c'è posto per tutti. La potenza emergente del Sud dovrà investire in infrastrutture 500 miliardi di dollari solo in questo biennio: è più del doppio dell'intero Pil del Portogallo. E non a caso dal Portogallo l'emigrazione qualificata ha assunto le dimensioni di un esodo di massa: sono già partiti in centomila, dall'inizio della crisi.
La Spagna censisce 55.600 uscite verso l'emigrazione in soli nove mesi. Il Brasile non si accontenta di essere il magnete dell'immigrazione di talenti dall'emisfero settentrionale, sta anche facendo rientrare i propri emigrati. Ancora due anni fa il totale dei brasiliani residenti all'estero raggiungeva tre milioni; oggi si stima che quasi la metà siano tornati.
Per forza: con un mercato del lavoro che "tira" come quello attuale, una segretaria bilingue che parli perfettamente portoghese e inglese può guadagnare quello che fino a dieci anni fa era lo stipendio del suo capo.
La "febbre del Brasile" non sembra avere risentito finora del rallentamento della crescita economica. Eppure il gigante sudamericano ha frenato bruscamente la sua corsa. Nel 2010 la crescita del Pil era stata del 7,5% collocando la performance brasiliana subito dietro Cina e India. L'anno scorso il ritmo della crescita si è ridotto a poco più di un terzo: +2,7% è stato l'aumento del Pil nel 2011, un risultato decente se fosse accaduto negli Stati Uniti e addirittura fantastico per l'Europa, ma mediocre per un'economia emergente. A provocare la frenata sono stati gli effetti collaterali del boom: troppo "denaro caldo" dall'estero, tanto che il Banco Itaù in Borsa ha superato la capitalizzazione cumulata di due colossi di Wall Street come Goldman Sachs e Morgan Stanley. Gli investimenti speculativi hanno fatto sopravvalutare la moneta e così hanno penalizzato le esportazioni industriali. Il Brasile, contrariamente agli stereotipi più diffusi, non vive solo di export agricolo e di materie prime, ha un settore manifatturiero importante, che non può reggere a lungo una moneta troppo cara. Dall'inizio dell'anno Dilma Rousseff ha reagito con una robusta dose di protezionismo, e una politica monetaria volta a indebolire il real. Le previsioni ora indicano una leggera ripresa e molti economisti stimano che la crescita del 2012 sarà del 3,5%.
Le difficoltà degli ultimi mesi non hanno ancora raffreddato il mercato del lavoro, dove il tasso di disoccupazione al 4,7% resta meno della metà di quello europeo. La presidente Rousseff ha dovuto incaricare una task force di varare corsie preferenziali per i rilasci di visti di lavoro agli stranieri qualificati. La missione è affidata all'economista Ricardo Paes de Barros, presso la Segreteria Affari Strategici della presidenza. «Il Brasile oggi è un'oasi di prosperità rispetto alla recessione europea, molti talenti vogliono venire, c'è interesse presso la manodopera qualificata, e abbiamo già concesso permessi al ritmo di 51.353 in nove mesi, un aumento del 32% rispetto all'anno precedente», spiega l'economista. I primi destinatari di queste Green Card brasiliane, permessi di residenza per chi si trasferisce a lavorare nei mestieri di punta, sono proprio i laureati europei. Dalla Spagna e dal Portogallo gli arrivi stanno crescendo del 45% all'anno: evidentemente non importa che il Brasile rallenti, perché i paesi più deboli dell'eurozona in confronto stanno in condizioni molto peggiori. Alcune multinazionali brasiliane, per velocizzare le procedure sui visti in ingresso, hanno perfino aperto degli uffici di reclutamento a Madrid e Lisbona, vanno ad assumere i giovani professionisti direttamente nei luoghi d'origine. Questa "fuga verso i mari del Sud" provoca curiosità e scatena commenti da una parte e dall'altra dell'Atlantico. Spagna e Portogallo vivono per la prima volta da molti secoli una situazione di questo tipo, in cui le ex-colonie diventano il porto d'approdo per chi fugge dalla mancanza di speranze nel proprio paese. I brasiliani osservano con un misto di curiosità, divertimento e rivincita. Matias Spektor, studioso della Fondazione Getulio Vargas (uno dei più autorevoli think tank brasiliani) ha notato una curiosa analogia con il passato del suo paese: «Quando sono stato a New York, e ho visto il movimento Occupy Wall Street a Zuccotti Park, mi è parso di rivivere la stessa indignazione per le diseguaglianze crescenti, la stessa diffidenza verso le oligarchie, che noi respiravamo in Brasile negli anni Ottanta». Profumo di anni Ottanta alla rovescia. Allora infatti quando si parlava di "default", bancarotte sovrane, o spread sui bond, i paesi sull'orlo del crac erano quelli dell'America latina. Era a Brasilia che arrivavano i tecnocrati del Fondo monetario internazionale, per imporre quell'austerity che oggi viene somministrata ad Atene, Roma e Madrid. Il debito pubblico brasiliano oggi gode di una solidità evidente: nel corso del 2011 il costo dei "credit default swaps",i titoli derivati che fungono da contratti assicurativi in caso di bancarotta, è sceso per i bond brasiliani al di sotto di quelli emessi dal Tesoro degli Stati Uniti.
L'arrivo di una massa crescente di giovani talenti, professionisti o neolaureati, dall'Europa al Brasile, è un rovesciamento dei flussi migratori in direzione Nord-Sud. Eppure non è una novità storica assoluta. Il Brasile in realtà ha avuto delle politiche d'incentivo all'immigrazione anche in epoche molto lontane della sua storia. Nel 1888 con l'abolizione della schiavitù partì un vasto programma per incoraggiare l'immigrazione dall'Europa. All'epoca, come ricorda il sociologo Sebastiao Nascimento dell'università di Campinas, uno degli obiettivi era quello di «riequilibrare la composizione etnica aumentando il peso della componente bianca nella popolazione». Oggi l'obiettivo della socialdemocratica Rousseff è ben diverso. Non interessa che i giovani italiani, spagnoli o portoghesi siano bianchi, ma che abbiano le lauree giuste e le competenze di cui il Brasile è affamato nella corsa verso la sua modernizzazione.
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BRASILE TERZA POTENZA GLOBALE.
– Si rompe il duopolio Usa-Cina 9 marzo 2012 –
Massimiliano Santalucia
Nella corsa a due fra Usa e Cina per la palma d'oro di potenza guida del XXI secolo forse si sta inserendo un terzo litigante: il Brasile. L'impetuoso boom economico di cui il gigante sudamericano si è reso protagonista negli ultimi decenni ha visto una nuova accelerazione e rende il paese carioca non più solo una potenza economica regionale ma lo promuove ad importante attore geopolitico mondiale. Non c'è solo l'economia dietro la recente ascesa del Brasile. Dalla Cina all'India, passando per la Russia, negli ultimi vent'anni sono diversi i paesi cosiddetti in via di sviluppo che oggi si mostrano più dinamici rispetto a Usa e Europa. Ma il Brasile ha qualcosa di più; ciò che lo rende speciale non sono solo le sue numerose risorse energetiche o quelle alimentari, bensì un insieme di aspetti politici e strategici che ne rafforzano lo sviluppo e forse potrebbero addirittura farne un nuovo modello di riferimento nel mondo. Attraverso tale scenario il Brasile è riuscito a trarre beneficio sia in chiave domestica sia sul piano internazionale. Sul fronte interno il paese si presenta come un'entità sostanzialmente omogenea; non vi sono grandi differenze linguistico-culturali e sul suo territorio mancano quei focolai d'instabilità come il Tibet, lo Xinjiang, il Kashmir o la Cecenia che causano problemi presso altre realtà. Anche il fatto di trovarsi in un continente pacificato e privo di aree di crisi potenzialmente esplosive come il Pakistan, l'Afghanistan o la Corea del Nord rappresenta un vantaggio poiché evita di distogliere risorse dallo sviluppo economico e tranquillizza gli investitori dall'estero. In tale contesto i benefici per il Brasile non sono stati solo di tipo economico ma anche politico. Rispetto a Cina e Russia il gigante sudamericano è riuscito a diventare una vera democrazia basata sul multipartitismo e sul rispetto dei diritti umani e politici. Inoltre il Brasile ha ridotto notevolmente le disparità sociali; il 60% dei ceti meno abbienti ha visto aumentare considerevolmente il suo reddito e nel paese si è creato un forte ceto medio. Ma la vitalità brasiliana non è rimasta circoscritta all'interno dei confini nazionali, essa si è espressa anche nella politica estera dove il Brasile tende sempre più ad avere un ruolo da protagonista. In opposizione all'unilateralismo americano, negli ultimi anni Brasilia ha promosso attivamente il pacifismo e il multilateralismo, ma lo ha fatto in modo diverso rispetto a paesi come Russia e Cina. Mentre l'operato di Mosca e Pechino si è spesso ridotto ad intralciare l'azione delle Nazioni Unite appoggiando indirettamente i regimi dittatoriali e le loro violenze, la diplomazia brasiliana ha invece supportato le organizzazioni internazionali e si è impegnata in azioni di peacekeeping. Un simile scenario fatto di ascesa economica e stabilità democratica pone l'interrogativo se il Brasile non sia oramai più solo una potenza regionale, quanto piuttosto un vero peso massimo della politica mondiale in grado di esercitare un proprio "soft-power" e di alimentare la sua immagine di nazione vincente. Interpellato da Affaritaliani.it il professor Luca La Bella, responsabile della sezione Asia-America del Ce.S.I (Centro Studi Internazionali di Roma) spiega come tale metamorfosi sia in realtà già un dato di fatto. "Il Brasile è già una potenza mondiale a tutti gli effetti e possiamo sicuramente parlare di soft-power brasiliano in grado di creare consenso. Credo che il paese cercherà di esercitare la sua influenza nel mondo, ma lo farà in modo da non spaventare i suoi vicini. I brasiliani intendono suscitare più rispetto che paura." Un effetto collaterale di una simile ascesa potrebbe però essere costituito dalla potenziale apprensione di qualche altra potenza che potrebbe poi entrare in rotta di collisione col Brasile stesso. Gli Usa sono da sempre il principale attore geopolitico in Sud-America tanto da aver contrastato in passato ogni tentativo da parte di altri paesi di rafforzarsi nella regione. Ora Washington si ritrova a dover coabitare con un nuovo peso massimo privo di un passato neocoloniale che possa suscitare astio e il cui modello economico ha retto meglio di quello statunitense durante la recente crisi mondiale. Anche con la Cina potrebbero sorgere dei problemi, soprattutto in campo economico. Pechino è diventato il principale partner commerciale del Brasile con un volume di scambi superiore ai 12 miliardi di dollari nel 2010. Tuttavia i brasiliani si sono lamentati dell'ostruzionismo cinese nei riguardi delle loro aziende che cercano di esportare in Cina e, come ritorsione, Brasilia ha addirittura introdotto una legge decisamente protezionistica secondo la quale le case automobilistiche che non usano almeno il 65% di componenti brasiliani per la fabbricazione dei loro veicoli subiscono un aumento delle tassazione pari al 30%. "In realtà più che americani e cinesi ad essere allarmati dall'ascesa brasiliana potrebbero essere gli altri paesi latinoamericani" aggiunge ancora il professor La Bella. "Washington recentemente si è molto disimpegnata in Sud-America; collaborando con la nuova potenza potrebbe delegarle la tutela degli interessi comuni nel continente. Con la Cina sicuramente il Brasile cercherà di contrastare il dumping dei prodotti cinesi, ma senza sfociare in una vera guerra commerciale. Invece le apprensioni maggiori potrebbero venire altri paesi sudamericani poiché si ritrovano presi fra due giganti entrambi portatori di modelli diversi rispetto a quelli presenti in altre nazioni come ad esempio il Venezuela di Chavez". Malgrado l'impetuosità del boom brasiliano anche nella nuova potenza non mancano le ombre. La corruzione nel paese è particolarmente vasta e il suo peso si avverte in diverse attività economiche. Anche la violenza appare un problema ancora molto forte tanto da rappresentare un grosso ostacolo sulla via di un più ampio sviluppo del turismo, una risorsa che potrebbe contribuire in misura maggiore alla crescita economica ma che è frenata proprio dalla criminalità. Tuttavia tali aspetti non sembrano rappresentare un reale ostacolo all'ascesa del Brasile il quale, in un periodo in cui si parla di spostamento del baricentro della potenza mondiale nel Pacifico, sembra mostrare che la sponda atlantica ha ancora un potenziale modello di successo da offrire.
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BRASILIANE AL COMANDO
– Rivoluzioni in corso. Donna il presidente, Dilma Rousseff, donne i ministri e i sottosegretari. Ma anche i capi di grandi aziende e di squadre di calcio. Il Paese più popoloso del Sudamerica cerca il suo futuro nel potere rosa. Benedetto perfino dalle telenovelas –
Omero Ciai
In Brasile il potere è donna sempre di più. Insieme al trend economico positivo dell'ultimo decennio e al miglioramento delle condizioni di vita, almeno dal punto di vista del potere d'acquisto, di larghe fasce della popolazione, un elemento dominante è la rivoluzione del tasso di natalità. Un fenomeno diffuso in tutte le nazioni, una volta molto prolifiche, dell'America Latina, ma che in Brasile è stato più rapido e profondo. In mezzo secolo il tasso di natalità brasiliano è sceso da 6,15 figli per ogni donna (1960) all'attuale 1,9 di diventando uno dei più bassi di tutta la regione. Per i demografi che lo paragonano al crollo delle nascite della Cina, dove la regola del figlio unico è stata introdotta per legge nel 1978, è un processo difficile da spiegare, in un gigantesco Paese dove l'aborto è ancora completamente illegale e dove la Chiesa si oppone ad una pianificazione del controllo delle nascite. Ma soprattutto il dato che stupisce è l'omogeneità del crollo che riguarda ricchi e poveri ed è praticamente uniforme nelle metropoli industriali come nelle aree agricole, in una nazione che ha dimensioni continentali e la cui popolazione è un patchwork etnico di 200 milioni di persone. Meraviglia tanto che qualcuno ha pensato addirittura all'effetto telenovela. Un rapporto, redatto dalla Inter-American Development Bank, sostiene che in Brasile il numero dei divorzi è aumentato più rapidamente e il tasso di natalità è sceso più in fretta nelle zone del Paese raggiunte per la prima volta dal segnale tv di Rede Globo, la fabbrica delle soap opera nazionali. "Abbiamo scoperto - hanno scritto - che l'esposizione a stili di vita moderni ritratti in televisione, ai ruoli delle donne emancipate, e a una critica dei valori tradizionali, ha una relazione con l'aumento delle separazioni e dei divorzi da parte delle donne in tutte le regioni del Paese". Difficile diffidare della potenza della tv: appoggiando o ostacolando, negli anni Rede Globo ha fatto e disfatto perfino i presidenti del Brasile. L'episodio più eclatante fu quello di Fernando Collor del Mello nel 1990, ma è pur vero che più di dieci anni dopo Lula vinse solo quando anche la Globo, nelle ultime settimane di campagna, depose le armi e iniziò a non osteggiarlo.
Anche le telenovelas, d'altra parte, subiscono l'effetto dei vasi comunicanti e se descrivono nelle loro storie donne che lavorano, che non hanno paura di divorziare e tendono a costruire famiglie con pochi figli, è perché quelli sono trend nella vita reale. Uno studio pubblicato qualche tempo dal Ministero della Sanità segnalava come fra il 2000 e il 2008 il numero delle gravidanze in Brasile fosse diminuito da 3,2 milioni a 2,9 milioni all'anno, e come questa diminuizione fosse avvenuta quasi soltanto nella fascia d'età che va dai 15 ai 24 anni. Per questa ragione alcuni esperti non sono del tutto convinti che la tendenza verso un drastico declino delle nascite durerà nel tempo. È probabile che l'ultima generazione stia semplicemente rinviando il momento di avere figli e che nei prossimi anni - come è già accaduto negli Stati Uniti e in Europa - il numero delle gravidanze torni ad aumentare quando queste donne avranno quarant'anni. Non c'è dubbio comunque che crollo del tasso delle nascite e "famiglia ristretta" cominciano ad avere conseguenze sostanziali sulla società brasiliana e sulle aspirazioni delle donne. L'emblema di questa svolta è il nuovo presidente del Brasile, Dilma Rousseff, è non soltanto perché è la prima donna ad essere arrivata da primo cittadino nel palazzo di Planalto, la sede del capo dello Stato, a Brasilia. Dilma ha scelto apertamente di puntare moltissimo sulle donne. Lo ha detto quando ha giurato come presidente dopo aver vinto le elezioni nell'ottobre del 2010: "Sono qui per aprire le porte in modo che, in futuro, molte altre donne possano essere anche presidenti, e così che oggi, tutte le brasiliane possano sentirsi orgogliose e felici di essere donne". Poi lo ha anche fatto. Il Brasile di oggi è governato da un triunvirato tutto femminile. Nei tre incarichi più importanti del governo ci sono Dilma presidente, Gleisi Hoffmann nel ruolo capo della Casa Civil, che corrisponde al nostro primo ministro, e Ideli Salvatti alle relazioni istituzionali, ossia i rapporti con il Parlamento. Non basta, già nel suo primo governo la Rousseff aveva triplicato rispetto al precedente il numero dei ministeri affidati alle donne, nove invece che tre. Subito dopo, e per tutto il 2011, Dilma ha dovuto affrontare l'emergenza corruzione con diversi ministri ereditati dall'epoca di Lula messi alla gogna dalle rivelazioni della stampa. Prima di lei in Brasile era difficile che un ministro accusato di malversazione dei fondi si dimettesse. Lula li difendeva tutti e tirava avanti privilegiando piuttosto che l'onestà il delicato equilibrio dei partiti che lo appoggiavano e garantivano l'approvazione delle leggi e la gestione del governo. Con Dilma no. Lei ha preteso le dimissioni di tutti gli accusati. Sei, uno dietro l'altro. E spesso li ha sostituiti con donne.
Per dare un'idea della "rivoluzione rosa" di Brasilia il settimanale tedesco Der Spiegel ha scritto: "Dovunque si guardi in questo palazzo di marmo bianco (il "Planalto" disegnato cinquant'anni fa da Oscar Niemayer), ci sono ministri di sesso femminile, consulenti di sesso femminile, esperti di sesso femminile, sottosegretari di sesso femminile. Solo i camerieri e le guardie di sicurezza all'ingresso sono uomini. Grazie al presidente Rousseff tutto il resto nella sede del governo è saldamente in mano alle donne. Tutti tranne uno i consiglieri della sua cerchia più ristretta sono donne. E tutto ciò non è la conseguenza di una politica delle quote. "Quando bisogna scegliere fra un uomo e una donna con lo stesso curriculum, si preferisce assumere la donna", confessa candidamente Gilberto Carvalho, l'unico uomo nell'ufficio di presidenza". Si dice che i deputati tremino di fronte ha questo governo di donne determinate e pragmatiche. E che tremino tanto da alleviare i propri timori con qualche perfida ironia. Gleisi Hoffman nei corridoi del Congresso è stata soprannominata "il trattore" mentre la Salvatti è diventata "la tigre". Il problema però è caldo e anche i prossimi mesi dell'avventura di Dilma dipenderanno dal suo scontro con il potere maschile della coalizione di partiti che la sostiene e con i cacique della politica brasiliana abituati a gestire molto liberamente i fondi pubblici e a sentirsi un casta di intoccabili.
L'ultimo colpaccio Dilma lo ha fatto con Petrobras, il colosso pubblico e privato del petrolio. Il nuovo amministratore delegato della maggiore azienda energetica dell'America Latina (al 34 posto tra le principali imprese del mondo) è la sua amica Maria das Graças Silva Foster. Per la prima volta un'altra donna su una delle poltrone più importanti del Brasile. Come Dilma, divorziata due volte e madre di una sola figlia, Maria è un altro simbolo della "rivoluzione rosa" brasiliana. Gli uomini di Petrobras la chiamano "l'orco", ma lei è cresciuta in favela, in una famiglia numerosa, e si è pagata gli studi raccogliendo e rivendendo spazzatura riciclabile, carta e lattine, prima di laurearsi in chimica e in ingegneria.
Non ci sono solo la politica e le grandi aziende. Le donne del Brasile iniziano a primeggiare quasi ovunque. C'è un esempio perfino nel campionato di calcio. Ed è Patricia Amorin, diventata presidente di uno dei più antichi club del football verde oro, il Flamengo di Rio de Janeiro. È lei che ha fatto impazzire i tifosi maschi riportando a casa un figliol prodigo come Ronaldinho. Altri numeri: in Brasile un terzo delle famiglie sono formate da donne sole con figli. Che lavorano. Per legge esistono anche le quote. Almeno il 30% dei candidati nelle elezioni comunali, in quelle parlamentari o per i governatori degli Stati, dovrebbero essere donne anche se finora quella delle quote femminili è una legge rimasta sulla carta. Il grande argomento sospeso di questa stagione brasiliana è l'aborto. Durante la sua campagna elettorale Dilma Rousseff ha evitato di promuovere il suo parere favorevole a una legalizzazione dell'interruzione della gravidanza per non perdere il sostegno dei gruppi religiosi, evangelici e cattolici. La pratica dell'aborto illegale è una delle prime cinque cause di morte per le donne e provoca 200mila decessi all'anno. Una tragedia sulla quale il nuovo potere tutto rosa non potrà chiudere gli occhi.
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Tratto dal giornale La Repubblica, marzo 2012 home |