LA STANGHETTA DEGLI OCCHIALI Brano tratto dal romanzo Rosa candida Audur Ava Olafsdottir Tengo entrambe le mani sul volante. L’antica strada dei pellegrini, con gli alberi a lato, scorre via curva dopo curva nel cuore della foresta. Fino a mezzogiorno il sole è proprio di fronte a me, dritto in faccia; poi i suoi raggi si riflettono tra uno specchietto e l’altro, come danzando. Guidare in solitaria è un piacere, anche se non sarebbe male avere qualcuno che controlla la cartina. Per non perdermi, devo mettere la freccia a intervalli piú o meno regolari e accostare qui nel bosco, che è di un verde cupo. Spengo il motore, consulto la mappa e ne approfitto per dare da bere alle piante nel bagagliaio. Da queste parti vivono cervi, cinghiali e altre bestie selvatiche, e dato che c’è il rischio di trovarseli davanti in qualsiasi momento, bisogna tenere gli occhi ben aperti, sempre. Mentre penso a tutti gli animali che potrei incontrare, mi sembra quasi di sentire la voce di papà al mio fianco: «Le foreste sono pericolose a volte. Ci si aggirano orsi, lupi… e perfino criminali! Probabilmente qualcuno nascosto nella boscaglia sta commettendo un delitto proprio in questo istante, a pochi metri da te. E tu lo vieni a sapere solo l’indomani, dai giornali locali. Certe ragazzine, ingaggiate da bande di ladri, fingono di fare l’autostop. In realtà sono delle esche. Tu fermi la macchina, ed ecco che i loro complici saltano fuori dai cespugli, per aggredirti». Le preoccupazioni di papà sono opprimenti. A differenza di lui, io ho fiducia nel mondo che mi circonda. Lancio un’occhiata ai lati della carreggiata. No, la mamma non c’è. Ho l’impressione che stia cominciando a sparire: ho una tale paura di non essere in grado di ricordare piú niente di lei, tra poco… Forse è per questo che adesso mi torna in mente la nostra ultima telefonata. Mi attardo su ogni dettaglio, anche il piú insignificante. Lei si trovava dentro l’auto capottata, chiamava da lí. Voleva parlare con papà, ma c’ero io all’apparecchio. Lui le aveva regalato un cellulare non molto tempo prima, però, a quanto mi risulta, lei non lo usava mai. Non credo nemmeno che lo portasse sempre con sé. Per sentirla viva dentro di me, m’ingegno di continuo a cercare qualcosa di nuovo su di lei; e ogni volta che mi lascio andare al flusso della memoria, porto alla luce particolari che fino ad allora ignoravo. Quella mattina papà l’aveva salutata come al solito. Non riusciva a perdonarmi perché ero stato io, e non lui, a rispondere; ma soprattutto non riusciva a perdonare se stesso perché non era in casa. Avrebbe voluto scambiarle lui, le ultime parole con la mamma. Avrebbe voluto parlarci lui, prima che se ne andasse. Non si capacitava di quello che era successo. «Aveva bisogno di me… E io ero uscito a comprare una prolunga», diceva lui. La morte prematura della mamma – «una donna di appena cinquantanove anni, sedici meno di me», ripeteva papà in continuazione – fu uno smacco fortissimo per lui, che aveva immaginato un futuro completamente diverso. Al telefono la mamma mi aveva avvisato che era stata vittima di un piccolo incidente; ma sul posto era già arrivata una squadra di soccorso, gente in gamba, niente di allarmante, era in buone mani. I tizi erano bravi e veloci, stavano già risolvendo il problema. «Hai forato, mamma?» «Credo di sí, – aveva risposto con tono pacato. – Non mi stupirebbe, se avessi forato. In effetti mi sembrava che la macchina fosse instabile». Forse la sua voce tremolava, ma per due volte mi aveva detto di non preoccuparmi, assolutamente, che si trattava di una stupidata, di un piccolo incidente. Aveva usato proprio quell’espressione, «piccolo incidente». Avrebbe richiamato lei quando l’auto fosse stata rimessa su strada. «La squadra è al lavoro», aveva continuato, neanche fosse un pilota di rally che ha un intero team al suo servizio. «Sei uscita di carreggiata?» «Se non rientrassi per tempo, vedi di occuparti tu della cena per te e per papà. Basta che riscaldi le polpette di pesce di ieri. Mi sa che qui ne avremo per un po’». Una pausa, silenzio. Poi aveva cominciato a descrivere il suo paradiso dalle tinte autunnali. Il sole, soprattutto, rimarrà un mistero per me. Pioveva sull’intero paese e, secondo il rapporto della polizia, era stato proprio l’asfalto umido a causare l’incidente. Ogni cosa era bagnata: i prati, i sassi, il manto stradale… Eppure lei mi parlava dei colori meravigliosi che aveva la terra, di come scintillava d’oro il muschio, illuminato dal sole al centro del campo di lava nera; mi parlava di quello stupendo bagliore e della luce, sí, della luce. «Sei finita contro le rocce, mamma? Sei ferita, mamma?» «Probabilmente mi toccherà cambiare la stanghetta degli occhiali». Era stato a questo punto che avevo capito che tutto, e non soltanto la telefonata, stava per finire. Per allungare il tempo dei ricordi, per ritardare nella mia mente il momento degli addii, per tenerla ancora un po’ con me, aggiungo al manoscritto della memoria le frasi che non sono riuscito a dirle: «Mamma, ascolta… Non è che dovremmo provare a spostare la rosa a otto petali dalla serra in giardino, in un’aiuola, per vedere se supera l’inverno?» No, forse sarebbe stato meglio domandarle qualcosa che richiedesse una spiegazione dettagliata: «Com’è che si prepara la salsa al curry, mamma? E la zuppa di cacao? E la zuppa di rombo, mamma?» Non ne sono del tutto sicuro, ma alla fine – mi pare – mi aveva raccomandato di continuare a essere buono con mio fratello Jósef, di portare pazienza con papà. Anche se era un tipo un po’ all’antica, anche se aveva le sue piccole manie. «Comportati bene con papà. E non dimenticare tuo fratello Jósef. Gli tenevi la mano, quando eravate nella culla». Possibile che siano state queste le sue parole? Allora aveva inspirato: era una specie di rumore soffocato, che mi aveva fatto pensare a un principio di polmonite. Poi, aveva smesso di parlare. La nostra conversazione era terminata, ma io avevo udito alcune voci maschili. «Il cellulare è acceso?» aveva chiesto uno. «Basta, è morta», aveva replicato il secondo. A quel punto avevano preso il telefonino. «Pronto, c’è qualcuno?» Io non avevo risposto nulla. «Caduta la linea», avevano detto dall’altro capo del filo. E infine: «Ecco, c’è l’ambulanza». «Non siamo riusciti ad arrivare a lei con le cesoie finché era viva. Perciò, abbiamo potuto fare ben poco, – mi aveva spiegato uno dei soccorritori, che aveva compreso bene il mio bisogno di porre domande. – Però abbiamo notato che la signora era al telefono. Una cosa incredibile, considerate le sue condizioni. Deve avere inghiottito molto sangue, di continuo. Non ci sono mai state speranze. Ed era improbabile che sopravvivesse per tutto il tempo che avremmo impiegato a tirarla fuori dalle lamiere». Ci avevano consegnato un sacchetto con i suoi vestiti e gli occhiali, senza dimenticare il rastrellino per raccogliere i mirtilli e altri oggetti che aveva in macchina. Gli occhiali erano sporchi di sangue; le lenti, in frantumi. Una stanghetta era piegata a novanta gradi. Io e papà non eravamo d’accordo sui fiori per la bara. Secondo me ci volevano regine dei prati, cerfogli, gerani di bosco, botton d’oro, erba stella: semplici fiori di campo. Papà pensava invece di comprare qualcosa di più solenne da un fioraio, tipo rose d’importazione. Ma alla fine aveva ceduto, affidando al figlio, a me, il compito di occuparsi delle decorazioni floreali. Brano tratto dal romanzo Rosa candida, Einaudi editrice, Torino, 2007. Traduzione di Stefano Rosatti. Audur Ava Ólafsdóttir è nata a Reykjavik nel 1958. Ha insegnato Storia dell’arte ed è stata direttrice del Museo dell’Università d’Islanda. Tradotto in tutti i maggiori paesi europei e negli Stati Uniti, Rosa candida è stato finalista al Prix Fémina e ha vinto il Gran Prix des lectrices de Elle, il Prix Page des Libraires 2010, il Prix des libraires du Québec e il Prix des Amis du Scribe 2011.
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