AUTORICAMBI Brano tratto dal romanzo Guardami Jennifer Egan (…) «Santo cielo, e ancora non ricordi com'è andata!», si sbalordì Mary Cunningham. «C'era un animale in mezzo alla strada, cara, o forse ti ha preso un colpo di sonno? Non è che per un secondo ti sei assopita al volante?» «Non mi ricordo. Non mi ricordo», dissi. Coprendomi, non si sa bene perché, le orecchie. «Ha sempre avuto una pessima memoria», disse Grace.
Era vero: avevo una memoria pessima, e Rockford era il posto di cui ricordavo meno in assoluto. Eppure la noia e la stasi della mia situazione presente mi stavano spingendo a ripensare al passato in modo frammentario, come una persona che rimane chiusa in una vecchia casa e puntualmente finisce per salire in soffitta a svuotare qualche scatolone. A tratti mi ritrovavo impregnata da sensazioni di Rockford che risalivano all'infanzia: un mondo rigoglioso e sensuale, fatto di verdi prati appiccicaticci e temporali violenti, montagne di neve che d'inverno luccicavano. Nella prima adolescenza avevo fatto una ricerca scolastica sui successi industriali di Rockford, leggendo nella biblioteca civica di un attacco autolegante per mietilegatrici, di una macchina da maglieria che produceva calzini senza cuciture, di un «giunto universale» lubrificato a olio il cui scopo avevo scordato; del «fianco a fianco», un set composto da libreria più scrivania; di torni, falciatrici e dei pezzi che li componevano. Ricordavo di aver letto tutto ciò con un senso di entusiastica aspettativa, attendendo il momento in cui Rockford sarebbe balzata alla ribalta, diventando l'invidia del mondo industrializzato. Avevo avuto la sensazione che quella gloria si avvicinasse con l'invenzione dell'automobile, che ben undici aziende di Rockford avevano progettato, e di cui una in particolare, la Tarkington Motor Company, aveva costruito un prototipo molto caldamente accolto a un salone automobilistico di Chicago negli anni Venti. E invece poi no, gli investitori si erano tirati indietro, l'auto non era mai entrata in produzione, e con quel fallimento la mia eccitazione aveva cominciato a addensarsi in qualcosa di più pesante. Non ci sarebbe stato alcun trionfo. E infatti Rockford era rimasta una città nota per le sue punte di trapano, le sue trasmissioni, i giunti, le seghe, le guarnizioni a tenuta stagna, i paracolpi regolabili per le portiere, le candele per auto – gli «autoricambi», così vengono chiamati tali prodotti – e per i suoi utensili agricoli. Insomma, per una serie di oggetti noiosi e invisibili che nessuno al mondo avrebbe mai conosciuto, né trovato degni di interesse. Dopo due giorni di letture, dalla biblioteca mi ero trascinata nel guscio vuoto del «centro città», che rispetto a casa nostra si trovava al di là del fiume, i cui piccoli negozi erano stati quasi tutti dissanguati dai centri commerciali sorti lontano, a est del fiume e vicino all'interstatale. Mia madre mi aveva suonato il clacson dal parcheggio sul Iato opposto della strada, ma io per un attimo ero rimasta immobile, stringendo la cartella e lasciando che la piccolezza e la pochezza di quel posto dimenticato mi circondassero. Rockford, ora lo avevo capito, era una città di perdenti, un posto che non si era mai neppure avvicinato al diventare famoso per alcunché, pur avendoci più e più volte provato. Un posto ammirato dai meccanici per il suo giunto universale non era posto in cui potessi rimanere. Quello mi era stato chiaro fin dall'età di dodici anni: la prima nozione chiara che avevo avuto di me stessa. Io non ero Rockford. Ero il suo contrario, qualunque cosa fosse. Lo avevo deciso lì, immobile davanti alla biblioteca civica. Poi avevo attraversato la strada ed ero salita sull'auto di mia madre. Brano tratto dal romanzo Guardami, minimum fax editrice, Roma, 2012. Traduzione di Matteo Colombo e Martina Testa. Jennifer Egan (Chicago, 1962) è autrice di una raccolta di racconti e di altri tre romanzi, The Keeo, The Invisible Circus e Il tempo è un bastardo, con il quale ha vinto il Premio Pulitzer per la Letteratura e il National Book Critics Circle Award.
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