L’UOMO CADUTO Brano trato dal romanzo Storia di mio figlio Nadine Gordimer (…) Nel cielo infuriava il temporale. Scagliò i suoi dardi saettanti su di loro nel pomeriggio buio e si allontanò con grande fragore in un rimbombo di tuoni come carri armati. Si erano dunque addormentati: lo sguardo di Sonny tornò a fuoco su un mazzo di gigli. I fiori che aveva comprato per lei in una bancarella all’angolo di una strada il giorno prima che accadesse – la cerimonia funebre. La settimana prima era stata la volta di un mazzo di rose. Rose rosse, chiuse come un ombrello; le rose hanno il profumo del sesso, aveva detto lei, i gigli la forma: con lei, Sonny, scopriva tutte quelle delizie. Si avvicinarono uno all’altra, in un’esaltazione dei sensi. Nessuno dei due dormiva più ormai, ma non erano ancora così svegli da riuscire a parlare. Quando Sonny era giunto al villino di Hannah il suo umore era affatto cambiato: la perdita della figlia – il suo impegno rivoluzionario, totale e inatteso – era divenuta una questione di orgoglio e persino di eccitazione. – Da sola! Ha preso una decisione così importante da sola! La mia bambina! – All’improvviso, tutto gli era parso chiaro mentre prima, con Aila, era come oscurato; dall’esistenza stessa di Aila. Hannah era commossa – ma anche fiera, per lui. Le emozioni di Hannah venivano dal loro comune impegno, un mondo che lui e lei condividevano, erano emozioni mutate da aspre circostanze per mettere le persone in grado di affrontare situazioni non previste dalle faccende familiari. Hannah una volta aveva confortato quella ragazza diretta ora a un campo di addestramento dei Combattenti per la libertà, lo aveva fatto quando era ancora una bambina in lacrime al processo del padre; l’aveva confortata non “come una madre”, no, ma come una compagna, qualcuno che non è mai estraneo alla disperazione di un altro (quella di Sonny). C’era un filo di continuità tra quel giorno e questo. Con Hannah sentì quello che doveva sentire. Baby non era più la graziosa figlioletta di un insegnante, ora. Aila doveva capire che non vivevano più umilmente nel luogo a loro assegnato fuori Benoni … L’intensa emozione che provava per Baby naturalmente confluì nel desiderio, tra lui e Hannah non vi era nessun conflitto, nessuna paura di guastarla perché in lei – nel bisogno di Hannah – la felicità sensuale e l’impegno politico erano una cosa sola. Fecero l’amore ancora coi vestiti addosso e poi si addormentarono. Al risveglio, guardando i gigli, Sonny collegò tra loro impressioni e ricordi sconnessi. La rosa di Baby. Lo splendore dei petali e delle foglie sulle tombe. Hannah … la sua voce, un giorno in cui stavano parlando, che criticava qualcuno del movimento … “Che l’azione scaturisca sempre dall’autoconservazione – paradossalmente? Se qualcuno sta annegando, e io mi butto in acqua per salvarlo, cosa c’è dietro la mia compassione? (che – d’accordo – è la molla che fa scattare il mio coraggio, perché ho paura.) Non è forse la paura che se fossi io sul punto di annegare, qualcuno potrebbe allontanarsi ignorandomi?” Sentì una contrazione al cuore e fu subito desto (la luce della lampadina che lo fissava in carcere), di colpo gli venne in mente ciò che l’ansia per Baby gli aveva fatto completamente scordare. Ciò che non era stato nominato, a parole o nei silenzi, prima di fare l’amore e di addormentarsi. L’uomo colpito dal proiettile cadde nuovamente davanti a loro, e il corpo di Sonny, obbediente ai principi instillati in lui, le antiche professioni del ghetto di Benoni, si girò a spingere Sonny stesso qualche passo più indietro nella folla per aiutare il caduto a rialzarsi, ma a quel punto un altro proiettile aveva mancato la testa di lei solo di qualche centimetro sfiorandole i capelli biondi e allora lui aveva disobbedito ed era corso via con lei. Accanto all’uomo c’era Mayekiso; la struttura ossea della fronte di Mayekiso brillava per il sudore, la persistenza di quell’immagine irrilevante testimoniava il modo in cui tutto era realmente accaduto. L’uomo era probabilmente morto, comunque. E Mayekiso si era subito fermato, avrebbero potuto ammazzarlo mentre era là inginocchiato accanto all’uomo appena ucciso. Per fortuna (per volontà divina, come avrebbe detto il padre con la croce sul petto) i proiettili avevano mancato anche Mayekiso, malgrado lui non fosse tornato indietro. Le antiche professioni del ghetto di Benoni. Non vivere per sé ecc. Non vivere solo per sé, avrebbe dovuto precisare. Lei non era il “sé”; né lei né l’uomo caduto. Entrambi, lei e l’uomo erano l’altro – l’altra vita, fuori dal sé. Correre o fermarsi: una scelta tra queste due possibilità. Chi poteva dire quale fosse la più preziosa? Ma quella donna, la cui mano ora era rannicchiata contro il collo di Sonny, non era forse il “sé”, un suo bisogno? Aveva salvato se stesso.
Ora aveva qualcosa che non avrebbe mai detto a nessuno, men che meno a lei. Già. E se ne fosse compiaciuta come di una prova d’amore? Un trionfo femminile. Cosa gli avrebbe fatto? Al giudizio che aveva di sé. Alla sua convinzione che lei fosse diversa da tutte le altre donne e che il loro rapporto fosse fondato su una morale speciale e differente: la tormentosa riformulazione del significato dell’amore nella lotta, che gli faceva celebrare quel particolare tipo di separazione dalla figlia. La coscienza di Hannah tornò in superficie ai margini della sua, forse attraverso il contatto dei loro corpi, senza intuire quanto lui stava vivendo accanto a lei ma circoscrivendo d’istinto il pericolo del suo contesto. “Quando si commettono violenze, l’ultima parola su chi ha ragione e chi torto, ecco – tu la conosci bene questa tesi, voglio dire – ‘la lotta non è migliore dell’oppressione perché la violenza da parte degli oppressi non potrà mai essere giustificata’, li riduce allo stesso livello degli oppressori e così via … chi la pensa così è terribilmente ingenuo … oserei dire innocente. Non voglio dire che la cosa debba scusarli. Sono solo balbettii di infanti che non sanno ciò che dicono perché non vivono da abbastanza tempo per sapere come legare le parole alla realtà delle azioni. La maggior parte dei bianchi qui non ha vissuto … non ha vissuto cosa vuol dire vivere veramente qui … se vogliamo definire la vita di un Paese sulla base dell’esperienza generale. Se ci fossero stati anche loro l’altro giorno, solo per una volta, se avessero visto la carica della polizia, così senza ragione, quando stavamo già lasciando quel posto … se l’avessero vista sparare a quel modo, quei tre morti … Quell’uomo, morto. Se ci fossero anche loro quando succedono certe cose, almeno per una volta, e ogni giorno succede da qualche parte. Allora capirebbero perché la gente ammazza gli informatori con ogni arma su cui riesce a mettere le mani.” Grazie a lei, ora navigava nel mare aperto dei concetti generici. “Sì, ma c’è di più. Se stabilisci quando la violenza è una necessità, vuol dire che accetti che in questo mondo non se ne può fare a meno. E questa è una cosa difficile da accettare, anche qui, anche ora.” “Oh Sonny, almeno sappiamo qualcosa quando siamo costretti, dentro di noi, ad accettarla. Sappiamo che sotto la patina degli eserciti si nasconde solo la verità, e cioè che la guerra è sangue, agonia, marciume e merda. È sempre stato così. L’alta tecnologia dell’ARMSCOR di cui si vanta tanto Magnus Malan. Le meravigliose sofisticazioni dell’ultimo killer, quell’affare, il Rooikat, il carro armato di cui si dice che sia superiore per portata e potenza a tutto quello che hanno fatto i russi e americani. Il grandioso esercito napoleonico in ritirata da Mosca con i piedi congelati. I giapponesi scorticati vivi con quella cosa che hanno sganciato su Hiroshima. È questa la famosa tradizione militare. Le nostre guerre – la guerriglia – hanno posto fine alla menzogna con la loro rozza improvvisazione. Nessuno andrà più a combattere salutato dallo squillo della fanfara. Se salti per aria insieme alla bomba che stai piazzando, solo la polizia verrà a raccogliere i tuoi brandelli. Prendi i dirottatori e chi tiene i passeggeri in ostaggio: ammazzano le vittime o se gli va male sono loro ad essere ammazzati; o tutte e due le cose insieme. Non è nient’altro che sofferenza. Ogni tipo di guerra, ogni tipo. Così se dobbiamo accettare la violenza, almeno sappiamo cosa facciamo, non ci mettiamo tanti fronzoli. Per me funziona.” “Per me no. Non ho mai pensato di poter accettare la violenza, anche se non ero io a commetterla … Anche se erano altri a commetterla per me. Partecipo alle riunioni, prendo parte a decisioni dove si dà per scontato che la controviolenza … la nostra violenza … ha un suo ruolo assolutamente necessario. È così che si dice, un suo ruolo; è così che dico anch’io. Come a teatro; io non interpreto quel particolare ruolo, ma sono nel cast.” “Potresti interpretarlo anche tu?”
Ma quello era un mistero; Sonny non poteva neppure dire che non lo sapeva. Un mistero di cui l’insegnante non aveva tenuto conto, di cui non aveva nemmeno sognato l’esistenza nel periodo in cui, ancora lontano da quella scelta di impegno militante, si scervellava sul mistero non religioso del potere: il potere della vita e della morte. Avrebbe potuto dire solo: tutto quello che avevo era il coraggio di essere una vittima. Fino ad ora.(…) Brano tratto da Storia di mio figlio. Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 1991.Traduzione di Franca Cavagnoli. Nadine Gordimer (Johannesburg, 20 novembre 1923 – Johannesburg, 14 luglio 2014) è stata una scrittrice sudafricana, autrice di romanzi e saggi, vincitrice del Booker Prize nel 1974 e del Premio Nobel per la letteratura nel 1991. Nel gennaio 2007 le viene assegnato il Premio Grinzane Cavour per la Lettura.
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