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Sagarana UN ANIMALE CHE FA RIDERE


Brano tratto dal saggio Il riso


Henri Bergson


UN ANIMALE CHE FA RIDERE



Non vi è comicità al di fuori di ciò che è propriamente umano. Un paesaggio potrà essere bello, grazioso, sublime, insignificante o brutto; ma non sarà mai ridicolo. Si riderà di un animale, ma perché in esso avremo sorpreso un atteg­giamento d'uomo o un'espressione umana. Si riderà di un cappello; ma quel che allora si irride non è il pezzo di feltro o di paglia, ma la forma conferita ad esso dagli uomini, il capriccio umano di cui ha preso lo stampo. Come mai un fatto così importante, nella sua semplicità, non ha attirato maggiormente l'attenzione dei filosofi? Alcuni hanno defi­nito l'uomo « un animale che sa ridere ». Avrebbero potuto definirlo altrettanto bene un animale che fa ridere, poiché se qualche altro animale, o un oggetto inanimato, vi riesce, è grazie alla sua somiglianza con l'uomo, grazie all'impron­ta che l'uomo vi imprime o all'uso che l'uomo ne fa.

Segnaliamo ora, come un sintomo non meno degno d'attenzione, l'insensibilità che abitualmente accompagna il riso. Sembra che il comico possa produrre il suo effetto solo a condizione di cadere sulla superficie di un'anima molto calma e uniforme. L'indifferenza è il suo ambiente naturale. Il maggior nemico del riso è l'emozione. Non voglio dire che non sia possibile ridere di una persona che ci ispira pietà, per esempio, o affetto: ma in tal caso sarà necessario, per qualche istante, dimenticare quell'affetto, far tacere la pietà. In una società di pure intelligenze è probabile che non si piangerebbe più, ma forse si riderebbe ancora; mentre delle anime costantemente sensibili, accordate all'uniso­no con la vita, in cui ogni evento si prolungasse in risonan­za sentimentale, non conoscerebbero né comprenderebbe­ro il riso. Cercate, per un istante, di interessarvi a tutto quel che si dice e a tutto quel che si fa, con l'immaginazione agite con coloro che agiscono, sentite con coloro che sen­tono, permettete infine che la vostra simpatia conosca la sua più grande fioritura: come per un colpo di bacchetta magica vedrete gli oggetti più leggeri prender peso, e una tinta severa stendersi su tutte le cose. Ora distaccatevi, assi­stete alla vita come uno spettatore indifferente: molti drammi si risolveranno in commedia. Basta turarsi le orecchie al suono della musica, in una sala dove si danza, perché i danzatori ci appaiano subito ridicoli. Quante azioni umane resisterebbero a una simile prova? non vedremmo forse molte di esse passare d'improvviso dal grave al diver­tente se le isolassimo dalla musica del sentimento che le accompagna? Il comico esige dunque, per produrre tutto il suo effetto, qualcosa che somigli a un'anestesia momenta­nea del cuore. Si rivolge alla pura intelligenza.

Ma questa intelligenza deve rimanere in rapporto con altre intelligenze. Ecco il terzo fatto su cui desideriamo attirare l'attenzione. Non potremmo apprezzare il comico se ci sentissimo isolati. Sembra che il riso abbia bisogno di un'eco. Ascoltatelo bene: non è un suono articolato, netto,

conchiuso; è qualcosa che vorrebbe prolungarsi ripercuo­tendosi a poco a poco, qualcosa che inizia con uno scoppio per continuare con un rimbombo, come il tuono in monta­gna. E tuttavia questa ripercussione non deve continuare all'infinito. Può espandersi all'interno di un cerchio largo quanto si vuole, il cerchio rimane comunque chiuso. Il nostro riso è sempre il riso di un gruppo. Vi è forse acca­duto, in uno scompartimento o a un tavolo d'albergo, di sentire dei viaggiatori raccontarsi delle storie che probabil­mente erano comiche perché essi ne ridevano di cuore. Avreste riso come loro se foste stati della stessa compagnia. Ma non essendolo, non avevate alcuna voglia di ridere. Un uomo al quale chiesero perché non piangesse a un sermone a cui tutti versavano lacrime, rispose: « Io non sono della stessa parrocchia ». Ciò che costui pensava delle lacrime sarebbe ancor più vero per il riso. Per quanto franco lo si supponga, il riso nasconde sempre un pensiero d'intesa, direi quasi di complicità, con altre persone che ridono, reali o immaginarie. Quante volte non è stato detto che il riso di uno spettatore, a teatro, è tanto più vivace quanto più piena è la sala? Quante volte non è stato fatto notare, d'altra parte, che molti effetti comici sono intraducibili da una lin­gua ad un'altra, e dunque relativi ai costumi e alle idee di una determinata società? Ma proprio perché l'importanza di questo duplice fatto non è stata compresa, si è visto nel comico una semplice curiosità in cui lo spirito si diverte, e nel riso un fenomeno strano, isolato, privo di rapporto con il resto dell'attività umana. Di qui le seguenti definizioni che tendono a fare del comico una relazione astratta perce­pita dallo spirito tra due idee, « contrasto intellettuale », « assurdità sensibile », ecc, definizioni che, anche se fossero realmente adeguate a tutte le forme del comico, non spie­gherebbero affatto perché il comico susciti il nostro riso. Per quale motivo, infatti, questa particolare relazione logica, non

appena percepita, ci contrae, ci dilata, ci scuote, mentre tutte le altre lasciano indifferente il nostro corpo? Non affronte­remo certo il problema da questo punto di vista. Per com­prendere il riso, bisogna collocarlo nel suo ambiente naturale, che è la società; bisogna soprattutto determinarne la fun­zione utile, che è una funzione sociale. Sarà questa, l'antici­piamo sin d'ora, l'idea direttrice di tutte le nostre ricerche. Il riso deve rispondere a certe esigenze della vita in comu­ne. Il riso deve avere un significato sociale.

Indichiamo ora con chiarezza il punto in cui convergono le nostre osservazioni preliminari. Il comico nascerà, così sembra, quando degli uomini riuniti in gruppo, dirigeranno tutta la loro attenzione su uno di essi, mettendo a tacere la loro sensibilità ed esercitando unicamente la loro intelligenza.







Brano tratto da Il riso – saggio sul significato del comico, SE, Milano, 2002. A cura di Federica Sossi.




Henri Bergson

Henri-Louis Bergson (Parigi, 18 ottobre 1859 – Parigi, 4 gennaio 1941) è stato un filosofo francese. La sua opera superò le tradizioni ottocentesche dello Spiritualismo e del Positivismo ed ebbe una forte influenza nei campi della psicologia, della biologia, dell'arte, della letteratura e della teologia. Fu insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1927 sia «per le sue ricche e feconde idee» sia «per la brillante abilità con cui ha saputo presentarle»





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