VENDETTA DI STATO Roberto Decio
A partire da un invito dalla rivista Sagarana ad ogni nuova edizione uscirà un articolo inedito, su un tema di grande rilevanza in questo momento, suggerito dalla Redazione di Segnali di fumo: www.sdfamnesty.org , magazine on line sui diritti umani di Amnesty International. Questo è il settimo articolo di un totale di otto.
Scott L. Panetti (vedi scheda di detenzione) è stato condannato a morte nel 1995. Prima di allora era stato ricoverato più volte in diversi istituti. L’uomo aveva una lunga storia di malattia mentale, in particolare soffriva di schizofrenia. In tribunale ha rinunciato al diritto di essere assistito da un avvocato, preferendo difendersi da solo. Durante il processo, definito da molti una farsa, indossava abiti da cowboy, citando come testimoni, tra gli altri, Gesù Cristo e John Fitzgerald Kennedy. Vendetta di Stato.
La pena di morte e la sfida dei diritti umani. Fra le tante sfide che la civiltà contemporanea si trova ad affrontare in questo inizio di millennio c’è sicuramente quella di riconoscere e definitivamente tutelare il valore dei diritti umani fondamentali dell’individuo. Dopo che la seconda guerra mondiale aveva mostrato all’umanità l’orrore dei campi di sterminio e la minaccia totalizzante della bomba atomica, una volta riconquistata la pace si è pensato bene di fondare su nuove basi le regole della convivenza civile. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (in seguito, dei diritti umani) nel 1948 enunciava, fra i primi 5, il diritto alla vita e il diritto a non subire torture né “trattamenti crudeli, inumani e degradanti”. Si capisce come entrambi questi diritti siano in aperta contraddizione con la pena di morte. In quell’anno solo 8 Paesi fra quelli che sedevano all’ONU avevano già abolito la pena di morte per tutti i reati. Oggi sono 140 quelli che hanno rinunciato de jure o de facto a uccidere in nome della giustizia, mentre 58 Paesi prevedono ancora formalmente questa possibilità (perciò detti mantenitori), che tuttavia si dà in casi sempre più rari: solo 22 vi hanno effettivamente ricorso nel 2013 (fonte Amnesty International, www.amnesty.it). In realtà, più del 90% delle esecuzioni avvenute nel 2013 erano appannaggio di un manipolo di Stati: la Cina (vige il segreto di stato, ma se ne stimano alcune migliaia), l’Iran (ufficialmente 369, ma potrebbero aver superato le 700), l’Iraq (almeno 169), l’Arabia Saudita (almeno 79) e gli Stati uniti (39). Da questi dati appare come la pena capitale sia un fenomeno tutt’altro che superato, ma è giusto rilevare il grande progresso verso l’abolizione compiuto a partire dagli anni 70. Il merito è da ascriversi in larga parte alle attività di lobbying che le associazioni umanitarie per prime hanno esercitato nei confronti dei paesi mantenitori nelle sedi istituzionali, principalmente all’ONU, così come attraverso una capillare e tenace opera di sensibilizzazione dell’opinione pubblica in tutti i Paesi del mondo. Fra queste organizzazioni vi è la Coalizione mondiale contro la pena di morte (www.worldcoalition.org), che dal 2003 dedica il 10 ottobre alla Giornata mondiale contro la pena di morte, organizzando in tutto il mondo eventi di sensibilizzazione e di raccolta firme e concentrando ogni anno la propria attenzione su temi specifici. Il focus della Giornata mondiale 2014 è duplice: da una parte, il sostegno alla Moratoria sulle esecuzioni capitali in votazione all’ONU tra ottobre e dicembre di quest’anno e, dall’altra, la campagna su “pena di morte e salute mentale” (vedi il poster dell’iniziativa). È la quinta volta che si vota al Palazzo di vetro una “moratoria sulle esecuzioni capitali”: la prima risoluzione è passata nel 2007, è stata ribadita nel 2008 ed è passata nuovamente nel 2010 e nel 2012, edizione in cui il numero dei Paesi sostenitori è salito a 111, con 41 contrari e 34 astenuti. L’obiettivo di quest’anno è aumentare i sostenitori convincendo i contrari a votare a favore o perlomeno ad astenersi, e nel contempo allargare la cerchia dei Paesi che “sponsorizzino” la moratoria (anziché votarla passivamente). L’altro obiettivo della Giornata mondialeè condannare l’uso della pena di morte nei confronti di individui affetti da ritardo e disturbo mentale. La salute mentale è, infatti, un elemento chiave di cui tener conto in tutte le fasi di un processo che prevede la pena di morte, dal momento che precede il compimento del reato fino all’esecuzione da parte dello Stato di una persona condannata, e anche successivamente dal momento che la pena di morte incide sulla salute mentale dei familiari coinvolti. La pena di morte è l’affermazione di un potere, quello repressivo esercitato dallo Stato, che è smisurato in rapporto al singolo individuo inerme. Inoltre, quest’individuo, nelle mani del boia, non costituisce altro che il mezzo per il raggiungimento di un fine, peraltro mai dimostrato, ovverosia il valore deterrente della pena. È da anni che Amnesty International va affermando che alla globalizzazione dell’economia dovrebbe seguire quella dei diritti umani fondamentali. Tuttavia, molti di tali diritti sembrano venire sempre più messi a rischio e derubricati rispetto alle agende dei governi. Il progresso evidente degli Stati verso l’abolizione della pena di morte e l’ennesima occasione che, con la votazione della moratoria all’ONU, il mondo avrà di schierarsi apertamente contro la repressione fisica irrevocabile dell’individuo, possono rappresentare due utili evidenze che, al di là delle divisioni e delle crisi geopolitiche in atto, almeno l’affermazione del diritto alla vita possa considerarsi una delle sfide più importanti vinte dall’uomo nel nuovo millennio. Sono Roberto Decio, ho 46 anni e vivo a Milano, dove lavoro in un’agenzia di comunicazione. Faccio parte da 12 anni del Coordinamento Nazionale Pena di morte di Amnesty International. Ho sempre voluto impegnarmi contro la pena di morte perché non riesco a immaginare forma d’ingiustizia più estrema, che l’umanità peraltro non sia in grado di risolvere.
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