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Sagarana MORIRE NON MI SPAVENTA


All’età di 96 anni, la leggendaria editrice e romanziere Diana Athill scrive: l’idea della morte non è mai stata meno spaventosa. Già il processo di morire è tutta un’altra storia.


Diana Athill


MORIRE NON MI SPAVENTA



Nel lontano 1920 mia madre non andava mai a un funerale a meno che non fosse costretta, ed era inorridita quando sentiva di bambini esposti a una simile esperienza traumatica; mio padre svaniva dalla stanza ogni volta che si menzionava la morte. Molto tempo dopo, negli anni ’60, quando la casa editrice con cui collaboravo pubblicò un bellissimo e divertente libro sugli ornamenti della morte, i librai si rifiutarono di ordinare un libro così “morboso”. Essendo nata nel dicembre del 1916, sono stata a lungo immersa nel rifiuto di contemplare la morte. Senza dubbio fu solo dopo più di trent’anni, quando dovetti recarmi nell’ufficio del medico legale per identificare una donna che era stata trovata morta, che pensai per la prima volta quanto straordinario – eppure quanto ridicolo – fosse aver vissuto così tanto senza aver mai visto un cadavere. Ho sentito dire che questo tirarsi indietro dall’argomento in questione fosse un risultato della prima guerra mondiale che riempiva le menti di tutti con un’acuta e sconvolgente consapevolezza della morte, ma la mia spiegazione era, ed è ancora oggi, che un simile atteggiamento è a un battito di pendola dall’ossessione per la morte del secolo passato: il gusto per il lutto, che andava dalla solenne contemplazione del cadavere da parte di giovani e adulti, all’accorata preoccupazione sull’esatta gradazione di nero da indossare e per quanto tempo (per il resto della vita se si trattava di una vedova). Un atteggiamento così estremo doveva senz’altro dare sfogo a una simile reazione.

Mi sembra che quello che influenza la consapevolezza in tempo di guerra non è la morte. È il fatto di uccidere. E no, non sono affatto la stessa cosa.

La morte è l’inevitabile fine dell’esistenza individuale di un oggetto – non dico”fine della vita” perché è parte della vita. Tutto inizia, si sviluppa – animale o vegetale, respira – poi svanisce: tutto, non solo uomini, animali, piante, ma cose che ci sembrano eterne, come rocce. Montagne che si consumano, da picchi frastagliati a pianure. Persino i pianeti si disintegrano. Questo processo naturale è la morte. Uccidere è l’osceno intervento della violenza, la violenza che impedisce a un essere umano o a qualsiasi altro animale di raggiungere la morte quando dovrebbe farlo. Uccidere ha sicuramente inciso sulle menti delle persone esposte alla prima guerra mondiale. Ha shockato molte di loro riducendoli al silenzio: molti degli uomini che sono sopravvissuti a quella lotta non ne hanno mai parlato; penso abbia avuto lo stesso effetto sulla maggior parte dei sopravvissuti. Era troppo orribile. Hanno volutamente rimosso.

Era abituale per l’epoca che gli unici oggetti che producessero musica nella casa dei miei nonni paterni, in cui i bambini della mia generazione trascorrevano tutte le vacanze, e dove alloggiavamo se nostri genitori servitori-dell’impero erano all’estero in qualche posto inospitale per i giovani, fossero un pianoforte verticale e un piccolo registratore che era appartenuto a mio zio quando era ragazzo: una condizione probabilmente impensabile per i bambini di oggi. Non c’era la musica pop perché non c’erano adolescenti, solo bambini e adulti. Certamente, una volta raggiunti i 12 anni i bambini diventavano irrequieti (gli adulti la chiamavano “l’età critica”) ma c’era ben poco da poter fare al riguardo. C’erano canzoni da varietà e musica da ballare, ma potevano arrivare solo tramite uno spartito e se c’era qualcuno che poteva suonare il piano; e il limite di chi sapeva farlo erano filastrocche per dilettare i più piccoli. Un accenno del futuro si poteva forse vedere nell’impazienza con cui noi bambini ci buttavamo sul piccolo grammofono di zio Billy, che era stato dimenticato dagli adulti. Ascoltavamo per ore e ore i pochi dischi che poteva leggere, alcune canzoni di Gilbert e Sullivan e due o tre canzoni spirituali cantate da Paul Robeson. Dietro alla credenza dove erano sistemati trovai una volta un altro disco, che si rivelò essere una canzone di guerra, una versione comica e piuttosto spiritosa di Who Killed Cock Robin chiamata Who Killed Bill Kaiser. Sebbene fossi nata prima della fine della guerra, era per me tanto remoto e irreale quanto la guerra delle rose: ero quindi eccitata come se avessi trovato, scavando, un elmetto medievale, e corsi a mostrarlo a mia madre. Tutto quello che disse fu: Quel vecchiume – è ancora lì? Fu uno shock improvviso capire che quello che per me era storia, per lei era solo qualcosa dell’altro ieri. Nessuna traccia di quell’altro ieri mi era stata iniettata nella coscienza dalle persone più grandi di me, quindi qualunque cosa sentissi riguardo alla morte, non aveva nulla a che fare con la guerra.

La mia personale esperienza della seconda guerra mondiale lo confermò. Prima che iniziasse, durante gli orribili mesi in cui sentimmo che stava arrivando, dissi a una mia amica: “Se inizia penso che mi ucciderò” (sebbene si fosse parlato poco della guerra precedente, poeti e novellieri ne avevano scritto, così eravamo del tutto consapevoli che doveva essere impensabile ripetere una simile esperienza), la mia amica replicò: “Ucciderti per evitare di essere uccisa sarebbe stupido” e sentii tristemente che era ottusa. Non era la prospettiva di essere uccisa che mi affliggeva, era il fatto di dover conoscere quest’oscenità della vita. È quello, non la paura della morte, che inquinava la consapevolezza di tutti a proposito della guerra, tanto che alla fine della guerra ce ne saremmo dimenticati.

Perché è vero che ce ne dimenticammo. “È finita!” Quella consapevolezza cancellò ogni altra sensazione. Sebbene non avessi mai dubitato (il Cielo solo sa perché) che stessimo per vincere l’abominazione, c’erano stati tempi in cui non avevo pensato – forse “pensato” è sbagliato – quando non sentivo possibile che sarebbe finita. Quando si hanno vent’anni un anno è un periodo molto lungo, e ce ne sono stati così tanti. Ora mi stupisce sentire o leggere di persone che descrivono gli anni ’50 come terribili, perché per me furono meravigliosi. Che cosa importava se il razionamento tirava per le lunghe? Ricevevamo di più per i nostri coupon – era un sistema lento, certo, ma come poteva essere altrimenti dopotutto quello che avevamo passato? Ora avevamo un nuovo governo laburista, avevamo un Servizio Sanitario Nazionale (chi potrà mai dimenticare che miracolo fosse?), avevamo l’incantevole New Look di Dior, potevamo viaggiare di nuovo e chi se ne importava se non potevamo avere più di 25 sterline in tasca quando era incredibile vedere cosa si poteva fare con 25 sterline in Francia, o in Italia, o in Grecia. Non c’erano motivi per non essere felici, e la morte era soltanto qualcosa che sarebbe arrivata quando sarei diventata vecchia – e che non era, e non fu mai, qualcosa di cui avere paura.

Che io la pensassi così, lo devo a Montaigne. Non mi ricordo quando lessi, o quando mi dissero, che lui riteneva fosse giusto trascorrere un breve lasso di tempo, ogni giorno, pensando alla morte, abituandosi così alla sua inevitabilità e giungendo a capire che qualcosa di inevitabile è naturale e non può essere troppo dannoso; ero all’inizio della mia adolescenza, e mi colpì, mi sembrò un’idea ragionevole. Certo non mi misi a pensare alla morte regolarmente tutti i giorni, ma credo di averci pensato molto spesso e, di sicuro ha funzionato. Perché riuscire a vedere la naturalezza della morte avrebbe dovuto provocare la certezza dell’esistenza di una vita dopo la morte, non so dirlo, ma così è stato. Probabilmente quella fede non era niente di più di un’inspiegabile accettazione di qualcosa detto da un adulto: nella vita di un bambino ci sono cose più importanti da sapere rispetto alla probabilità di riunirsi dopo la morte con altre persone morte idee che sono riposte in uno scaffale polveroso della mente, come quegli oggetti che al momento non servono.

***

Quando avevo 16 anni, mi dovettero asportare l’appendicite: un’operazione comune in quei giorni che oggi sembra essere passata di moda. Essere anestetizzata con il cloroformio, provocò un’interessante confronto con quell’idea. Da piccola avevo a volte sospettato che ci fosse un mostro sotto al mio letto che aspettava di uscire per prendermi, spaventandomi così tanto che dovevo essere calmata e dovevano assicurarmi che me lo stavo immaginando. Probabilmente l’anestesista che mi preparò per l’operazione abbassò il flusso di cloroformio troppo presto, perché divenni cosciente, senza la più pallida idea di dove fossi o cosa stesse accadendo: tutto quello che sapevo era che ero sdraiata, su un lettino, con degli artigli soffocanti sulla faccia. Mi hanno mentito! Il mostro era stato lì tutto quel tempo e ora era uscito per venirmi a prendere, stavo per morire! Chi sta per morire si sente come se stesse per cadere dall’orlo di un burrone nel nulla più nero. Mi stavo aggrappando disperatamente all’orlo di quel burrone. Stavo fissando quel nulla oscuro e orrore degli orrori, capii che non era il nulla: c’erano figure che fluttuavano, cose che accadevano, creature in abbondanza lì fuori, e io stavo per essere lanciata in tutto questo, impreparata, ignorante, totalmente incapace di far fronte alla situazione. Fu terrificante – sicuramente si cambia in qualche modo di fronte alla morte, ma io ero sempre la stessa, sempre miserabilmente inadeguata. Nella mia mente arrivò un pensiero: “Se inizio a credere in Dio forse potrò cambiare e saprò cosa devo fare?” Al che – e ne vado ancora fiera risposi a me stessa: “No! Sarebbe troppo vergognoso, solo perché ho paura!” Mi lasciai andare, e scivolai nel nulla oscuro.

Così, molti anni dopo quando fu veramente sul punto di morire a causa di un’emorragia dopo un aborto involontario, e sentii un dottore dire: “È vicinissima al collasso chiama il laboratorio e digli di muoversi” e capii che la persona che doveva muoversi era colui che mi avrebbe portato il sangue da iniettarmi, non ero affatto allarmata ma mi chiesi debolmente se avessi ancora forza a sufficienza per mettere insieme delle Ultime Parole decenti, conclusi che no, non ne avevo, e dissi a me stessa: “Oh, be’, se devo morire morirò.” Era sicura che il nulla fosse proprio quello.

Ora vivo in una casa di riposo con 42 altre persone, età media 90 anni, o forse anche un po’ di più. Quando si prende la difficile decisione (perché è davvero difficile) di ritirarsi dalla vita normale, sbarazzarsi della propria casa e della maggior parte dei propri beni, e trasferirsi in un posto simile (o essere trasferiti, che fortunatamente non è il mio caso) significa che si è giunti allo stadio di pensare: “Come farò a gestire la mia incompetenza in continuo aumento ora che sono così vecchio? Chi si prenderà cura di me quando non potrò più badare a me stesso?” La morte non è più qualcosa di lontano, ma la si può benissimo incontrare in qualsiasi momento.

Potreste supporre che questo dovrebbe renderlo più allarmante, ma a giudicare da quanto vedo intorno a me, succede il contrario. Essendo ben visibile, è diventata qualcosa a cui bisogna prepararsi. Una delle numerose cose che mi piace della mia casa di riposo è il ragionevole atteggiamento pratico verso la morte che pervade qui. Ti si chiede senza imbarazzo se preferisci morire qui o in ospedale, se vorresti essere mantenuta in vita qualunque cosa accada, o se preferiresti un infarto, per esempio, che facesse subito il suo corso, e cosa vorresti fosse fatto del tuo corpo. Quando qui arriva la morte per qualcuno è trattata con il massimo rispetto, e anche con uno stupefacente tatto in relazione ai sopravvissuti, tanto che dubito se qualcuno sia mai stato disturbato da una simile attività perché mi sembra normale che circondi il momento della morte, così come la rimozione del corpo: un’attenzione per la nostra pace mentale che una gestione ben programmata deve prevedere.

Tali questioni sono diventati argomenti di discorsi tra noi pensionanti, anche se, naturalmente non costituiscono la maggior parte delle chiacchiere dopo pranzo nel salone (le nostre uniche occasioni comuni) ma di tanto in tanto, forse quando ammiriamo lo stoicismo di qualcuno se la sua fragilità sta diventando dolorosamente evidente, o se ci sentiamo giù di morale di fronte all’incapacità di qualcuno di accettare quello che sembra essere imminente. Il risultato di questa franchezza, credo sia che la maggior parte delle persone qui riterrebbe folle avere paura di morire. Tutti noi, tuttavia, sentiamo una certa ansia riguardo al processo di morire.

Il processo in questione dipende di cosa stai per morire. Il corpo può decadere in modi estremamente penosi, lenti e dolorosi, che richiedono molto stoicismo, o può spegnersi per nient’altro che un piccolo capogiro. Nella mia famiglia sembra che siamo inaspettatamente fortunati sul quel fronte. Un mio zio di 82 anni era a una riunione delle Norwich Stag Hounds, stava bevendo coi suoi amici quando crash!, cadde da cavallo, morto. Una mia cugina ottantenne cadde e morì mentre stava riempiendo un bollitore per preparare il tè, e un’altra cugina, 98 anni, che scivolò così delicatamente che la sorella che le teneva la mano non si accorse che aveva smesso di respirare. Mia madre, una settimana prima del suo 96esimo compleanno, ebbe un giorno sfortunato di cui, per mio sollievo, non ricordava nulla il mattino dopo, poi morì nel sonno e le sue ultime parole furono: “È stato assolutamente fantastico”, parlando di una recente gita in macchina in un posto che amava. Mio padre, ahimè, ebbe un’intera settimana d’inferno dopo che un vaso sanguigno del cervello si ruppe. Alzò gli occhi quando qualcuno varcò la porta, naturalmente per salutarlo, quando si accorse di non poter parlare, un’espressione di dolore e di stupore comparve sul suo volto: capì che qualcosa non andava, ma non sapeva cosa fosse. Il momento della sua morte, tuttavia, fu istantaneo e indolore. Mio fratello fu l’unica persona vicina a me chiaramente contrariata dalla morte, perché aveva raggiunto uno stile di vita che gli calzava alla perfezione, e ne voleva ancora. Non era spaventato dalla morte. “Nessuno oltre gli 80 anni d’età ha alcun diritto di lamentarsi della morte”, mi aveva detto però non molto tempo prima.

Questo record fortunato mi fa credere che sebbene sarebbe avventato aspettarsi una morte facile, non è irragionevole sperarlo. E per il dopo, credo proprio che vorrei che le mie ceneri fossero sparpagliate o bruciate in un posto che amo (ho disperso quelle di mia madre nel suo giardino – e il vecchio che se ne occupava quando lei non poté più farlo disse “Perbacco! La metà dei fiori non crescerà!”). Ma una simile sensazione, per quanto forte, è davvero assurda, perché a cosa importa al morto di cosa ne è del suo corpo? Sono i familiari a dover fare quello preferiscono.

***

Poco tempo fa ho partecipato a un programma televisivo sulla morte, pensato dal fotografo Rankin, per aiutarlo a superare la paura che ne ha, che ha coraggiosamente ammesso di avere. Se sia servito allo scopo non lo so – credo di no, perché la paura è prodotta nell’intestino, non nella mente, e mi ricordo che un uomo che conoscevo ne aveva così tanta che mi disse che era solito svegliarsi nel cuore della notte e chiamare la sorella per pregarla di venire a casa sua. “E lei che faceva?” chiesi, e rispose che gli preparava un tè, gli diceva cose sensate, ma che non fece molto effetto perché il pensiero di tutti quei maledetti uccelli cinguettanti e quei bastardi che camminavano avanti e indietro per strada quando lui non era lì a controllare lo facevano diventare matto. Ma anche se il programma di Rankin non riuscì a farlo sentire meglio (cosa che mi auguro), era eccellente, e molti telespettatori risposero con entusiasmo. L’avevo già capito dalla risposta al mio libro, Somewhere Towards the End, che il tabù sull’argomento della morte, così forte quando era giovane, stava evaporando, e che anche questo era un esempio lampante di quanto fosse vero. Persino gli adolescenti ne parlano volentieri.

Il partecipante al programma che mi ricordo con più piacere era l’uomo che disse che non esistere per migliaia e migliaia di anni prima della sua nascita non lo aveva preoccupato neppure per un secondo, quindi perché tornare alla non-esistenza avrebbe dovuto causargli sgomento? Tutti risero quando lo disse, anche io, e mentre ridevo pensai: “Ha ragione da morire!”







Tratto dal periodico inglese “The Guardian”. Traduzione di Chiara Candeloro.




Diana Athill
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