PREPARANDOMI A ESISTERE Fernando Pessoa 99 (172) Da quando le ultime gocce della pioggia hanno preso a rallentare sull’obliquità dei tetti e l’azzurro del cielo ha cominciato a specchiarsi lentamente sul centro lastricato della strada, il rumore dei veicoli ha preso un altro canto, più alto e allegro, e si sono sentite le finestre che si spalancavano contro la fine della dimenticanza del sole. Allora, nella via stretta, dall’angolo vicino è salito l’invito alto del primo venditore dei biglietti della lotteria, e i chiodi piantati nelle casse della falegnameria dirimpetto riverberavano nello spazio chiaro. Era un’incerta giornata festiva, autorizzata e senza durata. C’erano riposo e lavoro insieme, e io non avevo niente da fare. Mi ero alzato presto e indugiavo a prepararmi ad esistere. Passeggiavo avanti e indietro nella stanza e sognavo ad alta voce delle cose prive di nesso e di ipotesi: gesti che mi ero dimenticato di fare, ambizioni impossibili realizzate a caso, conversazioni ferme e continue che, se esistessero, sarebbero esistite. E in questo vaneggiamento privo di grandezza e di calma, in questo indugiare privo di speranza e di scopo, i miei passi andavano sperperando la mattinata di libertà, e le mie parole alte, pronunciate a voce bassa, risuonavano multiple nel chiostro del mio semplice isolamento. La mia figura umana, se la osservavo con un’attenzione esterna, partecipava del ridicolo che ogni cosa umana assume nell’intimità. Sui panni semplici del sonno abbandonato avevo indossato un vecchio cappotto che mi serve per queste veglie mattutine. Le mie vecchie ciabatte erano rotte, principalmente quella sinistra. E con le mani infilate nelle tasche del soprabito postumo percorrevo il viale della mia piccola stanza con passi larghi e decisi, compiendo attraverso il vaneggiamento inutile un sogno uguale ai sogni di tutti. Attraverso la freschezza aperta della mia unica finestra si sentivano ancora cadere dai tetti le grosse gocce della pioggia passata. C’era ancora un leggero fresco rimasto dalla pioggia. Però il cielo era di un azzurro conquistatore, e le nuvole sopravvissute alla pioggia sconfitta o stanca, ripiegando verso il Castello, sgombravano tutte le legittime strade del cielo. Era l’occasione di essere allegri. Ma mi pesava qualcosa, un’ansia sconosciuta, un desiderio senza definizione, ma non spregevole. Forse rallentava la sensazione di essere vivo. E quando mi sono affacciato alla finestra altissima sulla strada che ho guardato senza vederla, mi sono sentito all’improvviso uno di quegli stracci umidi che servono per pulire le cose sporche e che si mettono ad asciugare alla finestra, uno straccio che poi si dimentica aggomitolato sul parapetto che lentamente si macchia. 25/12/1929
Brano tratto da Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares – Fernando Pessoa – Titolo originale Livro do Desassossego por Bernardo Soares – Traduzione dal portoghese Maria Josè Lancastre e Antonio Tabucchi – Prima edizione in “Impronte” Novembre 1986 – Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano. Fernando Pessoa
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