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Sagarana SUL TEMPO


Brani tratti dal romanzo L’energia del vuoto


Bruno Arpaia


SUL TEMPO



(…) Molti anni dopo, Nuria Moreno avrebbe ancora ricordato il sole spento, l’acqua del Canal Grande plumbea e oleosa, la luce gelida che la investì appena il treno uscì dalla stazione di Santa Lucia e si affacciò sulla laguna tra Venezia e Mestre. Poi fu il trantran lentissimo dell’interregionale, Quarto d’Altino, San Donà di Piave, Latisana, le gru di Monfalcone, finché, dopo due ore, dietro una curva a destra, dal finestrino vide all’improvviso il golfo di Trieste increspato da riccioli di schiuma, la luce da naufragio sopra Miramare, le torri del castello contro il cielo cupo, simili agli alberi di un brigantino schiantato sulla riva.

Quando arrivò in stazione e attraversò la piazza, tirava un vento freddo che mulinava in mezzo ai giardinetti e costringeva la gente a camminare con le mani in tasca e il collo tra le spalle.

«Moreno... Ho prenotato» annunciò alla reception dell’albergo.

Sorridere al portiere, non ne aveva voglia, perciò prese le chiavi con un’increspatura delle labbra e salì in camera senza una parola. Fece una doccia, si preparò con cura e uscì in perfetto orario.

«Via Bonomea, alla Sissa» disse in fretta al tassista.

Dal finestrino, mentre la macchina si arrampicava sulle colline dietro la città, il mare le sembrò più mosso sotto il vento teso, l’aria più carica di sfumature livide di viola. Qualche chilometro in mezzo ai pini e ai faggi, verso Villa Opicina, e poi il tassista la depositò davanti a un edificio di cemento grezzo che dominava il golfo da metà collina.

«Marcello Milanesi, per favore... Sono Nuria Moreno e ho un appuntamento» disse d’un fiato alla ragazza della portineria.

Tre settimane prima, navigando in Rete, si era accorta che il professore doveva svolgere un ciclo di lezioni lì a Trieste proprio nei giorni in cui lei era a Venezia per un’intervista. Gli aveva scritto subito: se non disturbo, mi piacerebbe poterla rivedere. E adesso erano nella grande stanza che avevano assegnato a Milanesi. Dai finestroni si vedevano le aiuole squadrate del giardino e, oltre la collina che ruzzolava verso la città, le gru del porto e il mare.

Lei era agitata come una studentessa alla maturità. La prima volta che l’aveva visto, al Cern, Nuria non si era impressionata più di tanto; ma, allora, sapeva a stento che Milanesi era un fisico teorico importante, punto e basta. Adesso, invece, si era informata bene, adesso aveva letto perfino qualche suo articolo su ArXiv, adesso si era resa conto che Milanesi era un candidato al Nobel, rispettatissimo da tutte le comunità di fisici, uno che aveva cambiato alla radice il modo di affrontare problemi di ogni tipo, perciò era preoccupata di non essere all’altezza, di fare pessime figure nella conversazione. Però l’agitazione durò poco. Merito dei sorrisi: quello con cui l’accolse il professore, sincero, senza doppi fondi, e quello, un po’ tagliente, difensivo, che Nuria aveva ritrovato rovistando in fretta in fondo al suo arsenale.

«Vedo che fa carriera...» scherzò lei. «Da quello sgabuzzino al Cern a questo bell’ufficio... Complimenti.»

«Si fa quel che si può» le diede corda lui. «Ma qui sono in trasferta, come può capire...»

Sotto la massa di capelli bianchi, sotto i suoi occhi glauchi e minuziosi, sfoggiava un cashmirino azzurro e pantaloni di fustagno blu. Splendido sessantenne. Da farci un pensierino, quasi

quasi, se Nuria non avesse avuto altri mosconi che le ronzavano vorticosamente in testa. Dopo quei mesi passati a consumarsi gli occhi su particelle, stringhe, teoria olografica, gravità quantistica, ora era il tempo la sua vera ossessione: cos’è, di cosa è fatto, perché lo percepiamo come un fiume, cosa significa sul serio raccontare, se è vero che ogni istante della nostra vita non è legato agli altri da una sola linea che porta dal passato all’avvenire... E Milanesi adesso doveva dirle tutto, farle capire tutto, spiegarle tutto quello che sapeva. Lei era lì per questo, non si sarebbe fatta sfuggire l’occasione. Perciò, vincendo l’imbarazzo, si mise a raccontargli quello che aveva letto, i libri di Krauss e di Penrose, di Smolin e di Greene, di Feynmann e Lisa Randall, di Barbour e Rovelli, e lui annuiva compiaciuto per i suoi progressi, finché la vide esitare per un attimo, inquieta per il panorama che si scorgeva dietro la finestra: alle tre e mezza, fuori sembrava notte. Il cielo scuro e denso aveva sprofondato la città e i dintorni in una luce torbida, spazzata da un vento furibondo che superava le Alpi, attraversava di sbieco strade e piazze e si tuffava in mare.

«Tempo di bora...» disse il professore. «E oggi è bora scura. La chiamano così se il cielo è nuvoloso, invece, se è sereno, è bora chiara.»

Nuria annuì e corrugò la faccia, come per dire: altro che scura, questa è bora tetra, e lui sorrise ancora, prima di sussurrarle che gli spiaceva molto, ma che doveva andare, che aveva una lezione, però sarebbe stato un gran piacere portarla fuori a cena.

Nuria esitò, poi lo fissò negli occhi e si decise: «D’accordo, la ringrazio. Ma intanto, anche se non ci capirò sicuramente nulla, le spiace se vengo alla lezione?»

«Come ai vecchi tempi?»

«Esatto, come ai vecchi tempi» disse Nuria, ravviandosi i capelli con la mano.

Senza darlo a vedere, Marcello Milanesi arrischiò un’occhiata fra i suoi seni. Qualche minuto dopo, lui camminava avanti e lei gli andava dietro per i corridoi illuminati dalle luci al neon. Nell’ascensore che li portava alle aule del secondo piano, lei, con le guance in dentro, le labbra strette in fuori, si scrutava la faccia nello specchio, e lui pensava a quella sensazione strana, a quel formicolio, come un solletico, tra la pancia e il cuore.

(…)

Faceva un freddo da gelare i denti, però, dopo il tramonto, la bora era calata all’improvviso. Di tanto in tanto, solo qualche folata attraversava piazza dell’Unità d’Italia e si perdeva nell’oscurità dei moli oltre

la Riva. Le luci dei palazzi, allora, tremolavano e Milanesi e Nuria acceleravano per arrivare più in fretta al ristorante. Si erano fatti lasciare dal tassista un po’ più avanti, di fronte al Molo della Pescheria, ma si erano pentiti appena scesi: non era aria per fare quattro passi. Attraversarono la piazza illuminata a giorno senza una parola, senza uno sguardo ai merletti di pietra dei palazzi, il collo fra le spalle, gli occhi a terra, concentratissimi soltanto su quel maledetto freddo che ti rubava anche l’ultimo straccio di pensiero.

Nel ristorante, il brusco cambio di temperatura li fece diventare rossi come pomodori. Seduti a un tavolino d’angolo, davanti a una vetrata che dava sulla Riva, si guardarono in faccia e si sorrisero.

«Con queste guance così belle rosse, sembriamo due pagliacci» scherzò il professore. «Ti va un aperitivo?»

Si davano del tu, adesso. L’avevano deciso poco prima, uscendo dalla Sissa, mentre aspettavano che arrivasse il taxi. E Milanesi, allora, si era anche lanciato a parlarle in spagnolo invece che in inglese.

«No, grazie» scosse la testa Nuria. «Meglio che andiamo al sodo... Ho fame.»

Ordinarono gnocchetti neri con bottarga e seppie marinate, frittura mista e un tocai friulano Borgo del Tiglio del 2003. Nuria scelse un sorriso, si avvicinò alla tavola e appoggiò il mento sul palmo della mano. Allora sbatté piano le ciglia e lo fissò. Turbato, inquieto, lui si passò la lingua sulle labbra secche e affrontò il suo sguardo a capofitto, cercando scampo nel primo tema di conversazione che gli venne in mente.

«Allora, cosa volevi chiedermi del tempo?»

«Tutto... Voglio sapere tutto» esagerò, scherzando, Nuria, prima di riappoggiarsi allo schienale. Mentre si raddrizzava sulla sedia, miliardi di fotoni provenienti dal grande lampadario della sala piombarono sulle sue pupille e, rimbalzando verso Milanesi, le fecero brillare come due diamanti. Ma non bastava: i seni, intanto, stretti nella camicetta, si erano messi a chiacchierare con il professore indipendentemente dalla proprietaria. E dagli. Marcello bevve un sorso di Borgo del Tiglio e la guardò negli occhi, con il bicchiere ancora sollevato a mezza altezza.

«Non so, potremmo cominciare...» disse, e si fermò. «Potremmo cominciare» riprese dopo un attimo «dalla relatività ristretta...»

«Ahà» annuì Nuria. «Inizia pure.»
«Prima degli gnocchetti?»
«Certo, prima.»

Non gli restò altra scelta che raccontarle dello spazio e del tempo «veri, assoluti, matematici» di Newton, immaginati come un fondale fisso sul quale si muove la materia, e poi di Einstein, che ribaltava quella concezione.

«Prima del 1905 si pensava che tutti percepissero lo scorrere del tempo nello stesso modo, che tutti fossero d’accordo sugli eventi che si verificano in un certo istante. Da qualche parte ci doveva essere un orologio cosmico che batte le ore di tutto l’universo, di noi terrestri e di quelli che vivono su Andromeda... Sembra evidente, no? Ma avrai imparato che quasi mai le cose sono come sembrano... Pensa a cosa intendiamo quando diciamo ’ora’... L’ora è tutto quello che, secondo noi, sta succedendo proprio in questo istante: io che ti parlo, tu che mi guardi e ascolti, quel cameriere che serve all’altro tavolo, la gente che sta camminando fuori in strada, e via di questo passo. Eppure quello che vediamo ’adesso’, a parte i tempi di elaborazione del cervello, in realtà è già accaduto, perché la luce ci mette un certo tempo per arrivare fino ai nostri occhi. Io vedo te com’eri cinque o sei miliardesimi di secondo fa, se guardo l’orizzonte vedo quello di un decimillesimo di secondo fa, il sole è vecchio di circa otto minuti, la stella più vicina la vedo così com’era circa quattro anni fa... Siamo d’accordo, no? Eppure non è tutto, questo ritardo nella percezione non è risolutivo. Da qualche parte, quell’orologio cosmico potrebbe sempre battere le ore ed essere valido per tutti, soltanto che la luce ce lo fa sfasare.»

«E invece no» lo precedette Nuria. «Quel tempo cosmico, uguale per chiunque, non esiste...»

«Già, perché arriva Einstein e dimostra che gli orologi di due persone in moto relativo, cioè che si muovono l’una rispetto all’altra, non segnano più lo stesso tempo. Più vai veloce e più la sincronia si perde. Alle velocità ordinarie, quelle di tutti i giorni, è poca cosa, scarti talmente minimi che non ce ne accorgiamo, ma più si va vicini a quella della luce, più questa differenza è rilevante, più il tuo tempo e il mio sono diversi, più non concorderemo su ciò che sta avvenendo adesso. Quello che per me accade ’prima’, per te può avvenire ’dopo’. Finora è tutto chiaro?»

Erano già arrivati gli gnocchetti. Il cameriere li servì con gesti un po’ affettati e Nuria, per un attimo, lo immaginò vestito da valletto di fine Settecento, con la parrucca, le calze alle ginocchia e la livrea. Così come le era balenata nella testa, quella bizzarra immagine svanì e Nuria affondò la forchetta nella pasta.

«Squisiti, no? Ma mi stavi parlando del ’prima’ e del ’dopo’...»

«No, no: solo decenti. La salsa non è densa al punto giusto e non si amalgama bene con gli gnocchi. Il prima e il dopo, invece... Insomma, stavo dicendo che due osservatori che si muovono l’uno rispetto all’altro hanno concezioni diverse di ciò che esiste in un determinato momento, cioè hanno concezioni diverse della realtà. E non c’è neanche bisogno di andare alla velocità della luce per avere effetti rilevanti... Basta essere molto distanti nello spazio. Mettiamo che tu sia seduta qui e io nel mio salotto su un pianeta della galassia di Andromeda... Se stiamo fermi, non c’è nessun problema: concorderemo su quello che sta succedendo adesso. Però, se io mi alzo e cammino allontanandomi da te, gli eventi sulla Terra che sono il tuo adesso, per me saranno accaduti più di cent’anni fa, quando tu non eri ancora nata, mentre io sarò contemporaneo di Einstein. Invece se cammino nella tua direzione, il mio adesso sarà quello che per te accadrà dopo cent’anni. Eppure, paradossalmente, entrambi i nostri adesso saranno veri, validi.»

Il cameriere, sempre cerimonioso, ritirò i piatti. Nuria sbirciò dalla finestra il cielo diaccio, poi si voltò di nuovo verso Milanesi, invitandolo con gli occhi a proseguire.

«Oppure, basta che io e te ci incrociamo camminando per il lungomare e per noi sarà diversissimo quello che sta accadendo adesso su Andromeda... Per me, magari, sarà già partita una flotta spaziale che attaccherà la Terra, mentre per te la decisione di attaccarci non è stata ancora presa, e ci vorranno anni prima che gli andromediani la prendano davvero, ammesso che la prendano... Insomma, muovendosi, ognuno ha un ’tempo proprio’ che non coincide con quello degli altri. Ognuno di noi raccoglie, per così dire, un frammento del tempo newtoniano e lo porta con sé, soltanto che, diversamente da quello che pensava Newton, tutti quei ’tempi propri’, anche se diversi, sono veri e reali...»

Nuria gli inchiodò gli occhi giusto dentro i suoi, perplessa e assorta.

«Ma se è così, vuol dire...»
Lui annuì con aria seria e grave.

«Esatto» mormorò. «Per quanto strano ci possa sembrare, per quanto costi accettare questo fatto, vuol dire che la realtà comprende tutti gli eventi dello spaziotempo. Così come immaginiamo che tutto lo spazio esista davvero là fuori, dobbiamo immaginare che anche tutto il tempo sia davvero là fuori e che esista veramente. Tutti gli istanti, tutti gli adesso passati, presenti e futuri esistono già e occupano il loro posto nello spaziotempo. Almeno per la fisica, meglio: per molti fisici, non esiste nessun flusso. Il fiume del tempo è in realtà più simile a un infinito blocco di ghiaccio in cui tutti gli istanti passati, presenti e futuri sono per sempre congelati al loro posto...»

Nuria lo guardò incredula, mentre il valletto di fine Settecento serviva con i soliti modi esagerati la frittura mista. Fu allora che lei fece quel gesto: si ravviò i capelli con la mano gettando un po’ indietro la testa. Fu un gesto così naturalmente sensuale che Milanesi provò un lungo brivido. E allora proprio il dongiovanni che era in lui lo mise in guardia lanciandogli un allarme: non ci provare, ritirati in buon ordine, questa è pericolosa. Marcello Milanesi provò a scacciare quella dannata idea, a non pensare che era troppo vecchio, che ormai non era più il suo tempo.

«E non è ancora tutto...» disse. «E se poi il tempo non esistesse affatto?»

(…)

«Cosa vuoi dire? Com’è possibile che il tempo non esista?»

Nuria si era bloccata con un calamaro a metà viaggio tra il piatto e la bocca. Marcello la guardò senza vederla per davvero, tutto preso a frugare tra i pensieri e a organizzarli prima di rispondere. Roba di qualche attimo, però quando rimise a fuoco quegli occhi neri e lucidi, il calamaro le era già sparito tra le labbra.

«Voglio soltanto dire» le rispose «che forse il tempo è fatto di qualcosa di più fondamentale, qualcosa che non conosciamo ancora... Ma adesso, per capirmi, devi seguirmi dalla relatività ristretta a quella generale, okay?»

«Okay, ti vengo dietro... Ma tu cammina piano.»

«Nella relatività ristretta, scompaiono, sì, lo spazio e il tempo assoluti newtoniani, però lo spaziotempo, come entità unica, continua a rimanere fisso. Le cose cambiano e si evolvono rispetto a quello spaziotempo, e noi ne misuriamo il cambiamento considerando due o più istanti di tempo successivi: le cose come sono all’istante t0, poi a quello t1, a quello t2, e via di questo passo. Invece nella relatività generale è proprio lo spaziotempo a diventare dinamico: anche lui cambia, si modifica, così il tempo non è più una variabile privilegiata, fissa, indipendente da tutto il resto. Scompare, insomma, definitivamente quell’orologio cosmico che batte tutto il tempo universale. Anzi, di più: qualcuno pensa che, prendendo sul serio fino in fondo le equazioni di Einstein, si possa e si debba fare completamente a meno della variabile che chiamiamo tempo. Finora è tutto chiaro?»

Nuria scosse la testa.
«Stavolta no, non riesco a seguirti...» mormorò.

«D’accordo, ci riprovo» sospirò Milanesi, portandosi alla bocca un’alice con testa, coda e spina. «Einstein ci ha insegnato che spazio e tempo sono oggetti dinamici, che si agitano come una specie di immenso mollusco in cui tutto è immerso. Però per lui lo spazio e il tempo sono continui, lisci, senza fratture e vuoti, infinitamente divisibili; invece la meccanica quantistica ci dice che ogni oggetto dinamico ha una struttura granulare, è fatto di quanti, di grani, di mattoncini infinitesimali, per cui, sotto una certa scala piccolissima, l’oggetto addirittura non esiste più. E dunque, per riconciliare Einstein con la meccanica quantistica, dobbiamo immaginare anche lo spazio e il tempo discreti e discontinui, dobbiamo immaginarli fatti di quanti, di pezzettini straordinariamente piccoli, dove al di sotto di quelle dimensioni non si possono più dividere le distanze e le durate in pezzettini ancora più piccoli, e dove perciò, a rigore, non ha più senso parlare né di spazio né di tempo. Ecco perché sono concetti che bisogna ripensare a fondo. È un po’ più chiaro adesso?»

Nuria annuì, ancora un po’ perplessa, mentre spogliava una triglia della pelle, e lui riprese.

«Noi siamo abituati a concepire lo scorrere uniforme del tempo, a immaginarlo come un grande fiume in cui siamo immersi e che ci trascina. Ma un vero fiume è solo una danza disordinata di milioni di molecole d’acqua; vista da lontano, quella danza disordinata diventa un placido e ordinato flusso a velocità costante: diventa, appunto, un fiume. Allora ci dobbiamo chiedere: e se, osservando la realtà alle scale più minute, anche il tempo si scomponesse in una danza incoerente e disordinata, in ’molecole’ di tempo? Se la nostra idea di un Grande Tempo che fluisce non fosse che una specie di approssimazione, una media, che ha senso per la nostra esperienza quotidiana, ma che non va più bene per capire il mondo più in profondità? Del resto, già Newton aveva scritto che l’esistenza del tempo è

solo un’utilissima ipotesi per mettere ordine nella complessità del reale...»

Era da un po’ che Nuria negava con la testa e sorrideva, ma Milanesi socchiuse gli occhi e le mostrò i palmi delle mani aperte, invitandola a lasciarlo proseguire.

«Questa è la gravità quantistica, bellezza...» disse sorridendo. «In certe varianti della gravità quantistica ad anelli, le equazioni descrivono la dinamica dello spaziotempo come una danza di anelli piccolissimi, che nel loro continuo evolversi formano continuamente spazio e tempo, e tuttavia in quelle equazioni non c’è la variabile tempo. Perciò ci forzano a ripensare il mondo, senza mettere il tempo alla base della struttura della realtà. Se la teoria è giusta, il tempo non esiste. Il tempo sarebbe, come la velocità media dell’acqua di un fiume, come la temperatura di un oggetto, nient’altro che una nozione approssimata, utile solo a scale molto grandi, le nostre, rispetto alla trama minuta del reale. Per comprendere questa trama minuta, dobbiamo fare uno sforzo di immaginazione che ci porti fuori dalle nostre abitudini: pensare il mondo senza pensare al tempo.»

«No, non ci posso credere... Siamo sicuri che la teoria è giusta?»

«No, non ne siamo certi. E infatti altri colleghi, sempre nell’ambito della gravità quantistica o delle superstringhe, continuano a pensare che il tempo sia fondamentale e non intendono affatto rinunciarci. C’è anche chi ritiene che all’inizio, più o meno al Big Bang, era lo spazio che non esisteva, invece il tempo sì: era, è reale, sia pure quantizzato, discreto, non continuo, come richiede la teoria quantistica.» Stavolta fu Marcello a scuotere la testa e a sospirare. «In verità» riprese dopo un attimo, «nessuno sa davvero che cosa sia questo dannato tempo. Dopo duemilacinquecento anni di cammino, stiamo di nuovo ripetendo la discussione tra Eraclito e Parmenide, siamo di nuovo alle domande con cui è iniziata la filosofia, ci pensi? Ma è proprio questo il bello della scienza: quest’avventura, questo esplorare sempre più a fondo oltre i confini dei territori noti...»

Nuria annuì, pensosa, però restò in silenzio. Sul lungomare, davanti alla finestra, passò una ragazzina con un piumino azzurro. Sembrava che piangesse. Dietro di lei, c’era un ragazzo biondo e allampanato. Correva e la chiamava con una smorfia di rabbia e di fastidio sulla faccia.

Nuria scosse la testa, poi si voltò di nuovo verso Milanesi. «Se, come hai detto» sbottò all’improvviso, «la realtà comprende tutti gli eventi dello spaziotempo, se tutto il tempo, con il passato, il presente e l’avvenire, esiste già ’là fuori’, vuol dire che è già tutto scritto? E come mai io ’sento’ lo scorrere del tempo? Perché ricordo sempre e solo il passato e mai il futuro? E poi perché...?»

La bloccò il cameriere che arrivava. Con i suoi gesti lenti, sistemò alla perfezione le posate e si aggiustò i due piatti tra la mano e il braccio.

«I signori gradiscono un dessert?»

Lui, crème brulée; lei, spuma di tabacco con gelatina di arancia e cioccolato. Qualunque cosa fosse.

«Allora, mi rispondi?» incalzò Nuria, appena il cicisbeo si allontanò diretto alle cucine. Marcello le servì altro vino e sospirò come se avesse il mondo intero sulle spalle.

«Non lo sappiamo» disse. «Ci sono molte idee, decine di teorie e di congetture, però la verità è semplicemente questa: non sappiamo se il tempo esista o meno, e neanche, se esiste, come accidenti è fatto. Potrei provare, a darti una risposta, potrei tirare in ballo la coscienza, oppure l’entropia, ma poi ci infileremmo in un labirinto di ipotesi e obiezioni da cui non è sicuro che usciremmo vivi... E per fortuna adesso arriva il dolce...»

Milanesi sorrise sotto i baffi mentre il valletto serviva pomposamente i piatti, descrivendo un’ampia parabola col braccio. Nuria si concentrò sulla sua spuma, o almeno fece finta, perché rimase a lungo a giochicchiare con il cucchiaino, finché, all’improvviso, lo fece tintinnare contro il piatto e sollevò lo sguardo.

«Ma allora?» domandò a bassa voce. «Allora che vuol dire raccontare? Io ho sempre pensato che un romanzo fosse una specie di battaglia a morte con il tempo, un tentativo di riordinare il caos della realtà in una successione un poco più ordinata, manipolando il caos però senza svilirlo, senza

ridurlo a un semplice modello troppo prevedibile... Ecco, questo è il racconto. Però, se il tempo non esiste, se la realtà, come ci dice la teoria quantistica, è diversissima da quella che vediamo, allora qual è il senso? A cosa serve provare a raccontare?»

Sembrava scoraggiata, affranta. Davanti, aveva ancora metà della sua spuma di tabacco con gelatina di arancia e cioccolato, ma lei, con gli occhi bassi, ci rimestava dentro, la tormentava con il cucchiaino. Marcello guardò fuori, sul lungomare ormai quasi deserto. Soltanto poche macchine sfidavano quel gelo da mozzare il fiato.

«Io posso solo dirti» mormorò, fissando ancora fuori «quello che certamente non è il tempo. Non è questo presente eterno, immobile, questo ’tempo reale’ a cui ci hanno ridotti, rubandoci il passato e l’avvenire. Per questo, raccontare, adesso, è ancora più importante: perché ridà qualche spessore al tempo, qualunque cosa sia, perché fa in modo che ce ne riappropriamo. Insomma, io penso che raccontare sia, come la scienza, fare domande complicate al mondo, che portano ad altre domande complicate e mai a risposte definitive e certe.»

Nuria alzò lentamente gli occhi e i loro sguardi s’incontrarono al centro della tavola, mentre Marcello, visto che il tentativo di conforto funzionava, provava a proseguire.

«Tu sai benissimo che il romanzo non soltanto riflette la realtà, quella che noi vediamo con i nostri sensi, ma ne crea una nuova, una realtà che prima non c’era, senza la quale non riusciremmo nemmeno a concepire la realtà più profonda, più fondamentale. Ed è in questa maniera che il romanzo crea anche un altro tempo... Però bisogna stare attenti a non confondere la realtà con il linguaggio: il linguaggio è molto più adatto a descrivere l’esperienza umana che a esprimere le leggi della fisica...»

«Forse» s’illuminò a quel punto Nuria, «forse bisognerebbe provare a raccontare mettendo insieme, come posso dire?, mettendo insieme ’quanti di narrazione’ che poi, come quegli anellini di cui tu parlavi, nell’esperienza di chi li sta leggendo formano il ’tempo proprio’, diverso per ciascun lettore...»

«Forse» concesse lui, annuendo. «Ma non è mica facile...»

«Già, non è facile» ammise sottovoce Nuria.

E allora lo rifece. Si ravviò i capelli con la mano gettando un po’ indietro la testa e domandò: «Ma tu che cosa pensi, in fondo in fondo? Che il tempo esista o no?»

Marcello la guardò con gli occhi lucidi. In pochi istanti, pensò alle ore e ai giorni che gli scorrevano veloci tra le dita come gocce d’acqua, pensò ai suoi acciacchi che si andavano alleando lentamente, pensò alle sue macchie scure sulle mani, alla pancetta che non riusciva più a tenere a bada, immaginò con una lama affilata di vergogna il proprio corpo nudo accanto a quello formidabile di Nuria...

«Io temo che purtroppo esista» sospirò.







Brani tratti dal romanzo L’energia del vuoto, Guanda editrice, Parma, 2011.




Bruno Arpaia

Bruno Arpaia (Ottaviano, 31 agosto 1957) č uno scrittore e giornalista italiano.





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