HIROKO Anna Kazumi Stahl Hiroko poggiò la tazza di caffè e alzò la forchetta. Se la passava da una mano all’altra sfruttando il freddo contatto dell’acciaio inossidabile. Spinse il piatto di maccheroni al formaggio fino al bordo del vassoio. Il formaggio, di color giallo brillante, era appiccicato ai maccheroni. Era il suo piatto americano preferito. Con la forchetta tirò un po’ di formaggio che si scollò dalla pasta. Lo infilzò e lo alzò dal piatto. Hiroko era esperta nell’uso della forchetta, sebbene avesse imparato a usarla da adulta. Le piaceva e l’aveva sempre considerata uno strumento ingegnoso, con proprietà specifiche: una parte piatta per scavare e sostenere, denti per infilzare e distribuire e bordi affilati quanto basta per tagliare. Mentre la luce si rovesciava attraverso la finestra della caffetteria Wyatt masticava il formaggio con gusto. Adorava il suo sapore salato, quasi come quello dei cetriolini sottaceto kombu. E la sua consistenza gommosa, in modo che il gusto salato si sentisse a ogni morso. Quando la madre di Dean fece commenti maliziosi alle spalle di Hiroko sui suoi modi presumibilmente “giapponesi”, la donna, chiamata in causa, disse a Dean: “Nessun giapponese mangia in questo modo! Questo è il mio modo di mangiare maccheroni al formaggio!” ripeté. “Mio! Tua madre non sa niente.” E Hiroko aveva continuato a mangiare maccheroni al formaggio in quel modo. Ann Rose Robbins li escluse dal menù della casa e non poté astenersi dal dire in un tono dolce ma velenoso al tempo stesso: “Ascolta, Hiroka cara, il contorno di oggi è purè di patate, così assaggi qualcosa di diverso.” Ma quando Hiroko e Dean si trasferirono a più di cinquanta miglia lontano da Monroe, a Huston, quei grandi pranzi familiari divennero più rari. Mentre Hiroko masticava, lottava per conservare il ricordo di Dean Edward Robbins di Kyoto, le era sembrato un uomo così promettente. Non avrebbe mai immaginato che le avrebbe dato una vita così comune, né che lei si sarebbe convertita, a sua volta, in un essere tanto indolente, peggio che comune. Hiroko era venuta in quel paese per abbandonare il Giappone che la opprimeva, riducendola a una figura bella e silenziosa. Negli Stati Uniti si convertì in una figura silenziosa però senza bellezza alcuna. Da adolescente Hiroko aveva scritto terribili storie di ragazze che saltavano da ponti o che si tagliavano fino a dissanguarsi. La sua domestica le trovò e le mostrò al padre della ragazza. “Una donna non deve scrivere”, le aveva detto Kitayama Isamu, con il palmo della mano appoggiato piatto e pesante sui manoscritti della figlia. Un secondo dopo li bruciò foglio dopo foglio di fronte a lei. “È uno spreco di lingua giapponese.” Hiroko aveva continuato a scrivere in segreto ma da allora, quando scriveva, lo faceva come se fosse stata un uomo. E anche oggi, che viveva nel paese della libertà individuale, continuava a scrivere in quel modo. Tutti i giorni dalle 10 alle 12 del mattino e dalle 3 alle 5 del pomeriggio, si sedeva in un angolino accanto alla dispensa e scriveva. Usava bloc-notes da ufficio in senso orizzontale, li riempiva di colonne verticali di ideogrammi complicati, kanji, numerosi kanji, secondo la retorica che era riservata agli uomini. E ogni volta che scriveva, lo avesse o no presente, c’era l’immagine di Tennesse Williams, un uomo delicato, paziente, elegantissimo. Lo aveva visto di persona una volta: pochi mesi dopo il suo arrivo negli Stati Uniti, lo scrittore aveva dato una conferenza all’Università di Tulane e Dean l’aveva accompagnata in auto fino a New Orleans per vederlo. Era un bell’uomo, Tennesse Williams. Languido come un fiore. Beveva troppo ma lo faceva con la grazia della necessità. Sospirava e a volte restava muto, con lo sguardo perso nel bel mezzo di una frase. Hiroko lo trovava squisito, voleva essere come lui. Dopo quell’incontro prese sul serio la sua abitudine di scrivere. Era intenta a scrivere un racconto su di un omosessuale e la donna che avrebbe assassinato. Per scrivere doveva invocare il genio dolce ed ebbro di Tennesse Williams. Così uscivano i diversi kanji e solo allora si distaccava dalla propria esistenza. Sentiva che stava perseguendo qualcosa di immenso, capace di annichilire la donna che viveva dentro di sé. In genere terminava di scrivere alle cinque perché Dean rientrava intorno alle cinque e un quarto. A volte perdeva la cognizione del tempo e Dean la trovava imprigionata tra il tavolo della cucina e le mensole della dispensa riempiendo i fogli gialli di caratteri intricati che, per lui, erano illeggibili (ma per nulla carenti di significato, perché per lei sì che ne avevano). Si piegava e baciava sua moglie. E a quel punto la donna percepiva un vuoto, la sua condizione di donna. La sua mente resisteva ma il suo corpo no. Abbandonava le sue elucubrazioni e vedeva i caratteri, tracciati con scrittura maschile, che fino a poco tempo prima erano stati suoi, diventare illeggibili persino per lei. L’odore di Dean, il suo mormorare e il suo respiro la ubriacavano. Le braccia dell’uomo le facevano girare la testa, il suo accenno di barba le sfiorava il viso. Ogni pensiero e ogni creazione personale svanivano. Tornava a essere una donna. Dolce, premurosa. Ma se riusciva a pensare, in solitudine, a quella situazione, quasi soffocava di rabbia. Disprezzava Dean, disprezzava se stessa. Le sembrava una vita tanto comune, una condizione insopportabile. Una volta aveva perso le staffe e si era messa a gridare, stava quasi per bruciare la sua carta di soggiorno sotto agli occhi di Dean. All’improvviso si rese conto di essersi convertita in un demonio, come suo padre. Scoppiò a piangere. Senza dire una parola il marito l’abbracciò e la lasciò piangere. Ma da quel momento in poi sentì che si era allontanata da lui. Dean intuì che lo stato d’animo di Hiroko era legato al progetto a cui si dedicava ogni giorno, tracciando un kanji dopo l’altro nella sua grafia minuta. Pensò che sarebbe stata una buona idea far leggere a qualcuno i suoi racconti, ma quando lo propose, la donna disse: “No!” in modo aggressivo, e aggiunse: “A chi potrei far leggere queste cose?” Dean non osò dare altri suggerimenti in merito. Tuttavia iniziò a comprarle fiori un paio di volte a settimana. A Hiroko non piacevano i fiori, né l’idea di regalarli, ma in quanto parte del matrimonio li accettava in silenzio. Tratto da Hiroko (in Catástrofes naturales) di Anna Kazumi Stahl, Editorial Sudamericana, Buenos Aires, 1997). Traduzione dallo spagnolo a cura di Chiara Candeloro. Anna Kazumi Stahl (1963-) nasce e cresce negli Stati Uniti da madre giapponese e padre di origine tedesca. Inizia a scrivere da adolescente in inglese, ma negli anni ‘90 decide di utilizzare la sua lingua adottiva, lo spagnolo. Dopo gli studi in Letteratura comparata e soggiorni piů o meno brevi in Giappone e Germania, si stabilisce infatti in Argentina. Nelle sue opere il tema del multiculturalismo si intreccia con ricordi personali; in particolare compaiono spesso figure femminili giapponesi che vivono in un contesto a loro estraneo. Il brano proposto č uno stralcio del racconto “Hiroki”, pubblicato nel 1997 in Catástrofes naturales, un’antologia di vari racconti di cui solo uno č stato finora tradotto in italiano.
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