6.17 Brano tratto romanzo Mãos De Cavalo Daniel Galera
Mentre sta passando sotto al nuovo viadotto della Protásio Alves, con la sua struttura che sembra ispirata a un antiquato modellino di base lunare, si immagina che sua moglie non esista, che se ne sia andata, o che sia morta, una fantasia ricorrente che continua a sorprenderlo e a sedurlo nei momenti più inaspettati fin da quando Adri è quasi morta per davvero, circa due anni e mezzo fa, dando alla luce Nara. In un certo senso, era come se lei fosse morta ma insistesse a stare al mondo per testardaggine, grazie a un’inesauribile diluizione omeopatica di depressione post partum. Aveva l’impressione di aver tentato di tutto per aiutarla a ritrovare l’esuberanza di un tempo, finanziando corsi di cucina, comprando regali e approfittando della sua condizione di medico per rifornirla di uno stock permanente di campioncini gratis di fluoxetina da 20 mg, in scatolette di cartone sul cui retro era stampata la promessa di “restituire colore alla vita”. Benché Adri fosse affettuosa e premurosa con Nara, aveva l’impressione che tutto ciò che la moglie negli ultimi tempi sentiva e faceva era il risultato dei comandi di un sofisticatissimo software di pilota automatico. Adri stava vivendo come lui stava guidando in quel momento, in terza e a basso regime, a circa quaranta chilometri all’ora, nella quasi completa incoscienza di quel che accadeva intorno a lui, come se gli occhi e gli arti che guidavano la macchina fossero comandati da un centro operativo indipendente da quello responsabile del flusso incessante dei suoi pensieri. Se ne rende conto quando una Ford Focus argento passa ad alta velocità ad un pelo dalla sua Pajero, sfrecciando giù per la discesa della larga corsia tripla del nuovo viale Salvador França, con l’aiuola centrale sovraffollata di rachitiche schiere di palme, che quelli del Partido dos Trabalhadores hanno avuto la faccia di bronzo di definire d’arredo urbano nella loro ultima e fallimentare campagna elettorale. Via via che il chiarore del giorno si va imponendo, si irrita nel ricordare di aver proposto diverse volte di mettersi in viaggio più presto, prima che facesse giorno, per guadagnare tempo e prendere meno caldo lungo la strada, però Renan, che non perdeva occasione di sputare regole e di ricordare che era lui lo scalatore esperto e il mentore della spedizione, gli aveva risposto «uscire dal letto prima delle sei è semplicemente inaccettabile», una battuta scherzosa che non si confaceva molto al tipo di istanza mentale e fisica che i due si proponevano di affrontare. L’amico a cui tra poco avrebbe affidato la propria vita, quello stesso soggetto che gli aveva garantito che tutte le tecniche per scalare su ghiaccio potevano essere apprese al campo base e nel corso della scalata stessa, considerava inaccettabile uscire dal letto due ore prima per garantirsi un primo giorno di viaggio tranquillo. La contraddizione gli provoca una tale rabbia che accelera al massimo, come se volesse inseguire il Ford Focus che l’aveva appena superato. Ignora il semaforo rosso di fronte al Giardino Botanico. Perché non ha svegliato Adri, pur sapendo che stava fingendo di dormire? A ripensarci, l’atteggiamento della moglie gli sembrava adesso una commovente richiesta di attenzione. E perché non aveva svegliato Nara, per sentire la sua vocina prima di uscire, per trasformarsi in pietra un’ultima volta? Era lo scherzo che a lei piaceva di più. In qualsiasi momento, senza preavviso, lui si fermava nella posizione in cui si trovava e fingeva di indurirsi, come se un maleficio l’avesse trasformato in pietra. Appena si accorgeva che il padre era immobile, lei lanciava un grido e cominciava a tentare di tutto per farlo tornare in forma umana, in una frenesia di spinte, pugni, solletico, salti e attacchi vari inframmezzati da scoppi di risa e frasi di un vocabolario sorprendente per i suoi due anni e mezzo, finché pure lui non scoppiava a ridere o crollava a terra o faceva qualsiasi movimento brusco ad indicare che la statua si era trasformata di nuovo in padre. Due anni e mezzo. Spesso si abbandonava a lunghe speculazioni sull’esistenza futura della figlia, immaginandosi il modo di essere che avrebbe assunto nell’adolescenza, gli incidenti che avrebbe avuto, i suoi problemi odontoiatrici, le scoperte sessuali, se avrebbe affrontato la vita come un fardello o come un’avventura, e che ruolo avrebbe avuto lui in queste esperienze. Una cosa era certa, lei aveva preso molto di più da lui che da Adri nel carattere. Parlava poco, osservava tutto e aveva già un modo quasi adulto di soffrire in silenzio che faceva disperare Adri. Quando Nara era ancora in pancia, soltanto la voce di lui era in grado di calmare la figlia quando era agitata, e in genere, in quei casi, lui si metteva a descrivere dettagliatamente le cose che avrebbero fatto insieme quando lei avrebbe avuto due, tre, cinque, dodici, diciotto anni. «Papà ti porterà nel quartiere dov’è cresciuto, nella zona sud della città, e poi noi due saliremo in cima al colle bello alto che c’è lì, per vedere tutta la città da lassù.» «Si è già calmata», diceva Adri dopo due o tre minuti, affascinata da quell’interazione precoce tra padre e figlia. Il parto era stato un’esperienza così traumatica che lui l’aveva incoscientemente rimossa, ma adesso, con la macchina che scivolava ad alta velocità per la Terceira Perimetral, il lungo asse di viali che collega il nord e il sud della città, non può evitare che i ricordi ritornino in un flusso continuo, con immagini mentali che emergono dai più profondi recessi del suo cervello, a cominciare dalla constatazione che si erano rotte le acque e dalla strana serenità dei momenti successivi, tanto da parte di lui che di lei, che dopo la telefonata per avvisare il ginecologo aveva annunciato tranquillamente che andava a farsi il bagno, attardandosi in ciò una ventina di minuti, per lo meno. Nel viaggio in macchina fino all’ospedale lei era esultante. Il ginecologo, Thales, che era stato suo professore, era un medico di quarant’anni, competente e con una buona esperienza, benché eccessivamente buontempone per i suoi gusti. Le sue frecciatine, comunque, divertivano Adri, e se ciò la faceva sentire più a suo agio, tanto meglio. Quando lo incontrarono all’Ospedale Moinhos de Vento lui li accolse sorridendo e domandò: «Siete riusciti a rintracciare il padre?». In sala travaglio, per fortuna, Thales assunse modi seri, cessando del tutto le sue battute a partire dal momento in cui controllò la dilatazione e decise di somministrare l’ossitocina per indurre le contrazioni. Mostrò ad Adri l’indicatore numerico nell’apparecchio di monitoraggio e disse che per effetto dell’ormone il grado di dolore sarebbe arrivato a trenta, con picchi di quaranta, cinquanta e anche un po’ di più ad ogni contrazione. Lui tentò di prestare il minimo possibile di attenzione al lavoro del ginecologo, cercando di esercitare più il ruolo di marito che quello di medico, per qualche motivo gli sembrò infatti inopportuno mischiare troppo i due ruoli. Ma i dolori che Adri sentiva cominciarono a diventare molto forti, l’indice numerico andava molto oltre i cinquanta, e lui fu il primo a notare che ad ogni picco di contrazione il battito del cuore del neonato si riduceva drasticamente, finché non parve stabilizzarsi ad un livello molto più basso del normale. Richiamò l’attenzione di Thales, e a quel punto tutta la sicurezza e la tranquillità s’erano già dileguate. Adri aveva sviluppato diabete gestionale nell’ultimo mese di gravidanza, e cominciarono a sollevare le diverse complicazioni che potevano risultare da quel problema nel momento del parto. Il ginecologo si mostrò visibilmente nervoso quando seppe che Adri aveva riscontrato un’ipoglicemia la sera prima, cosa che lo stesso marito-padre-medico non sapeva, perché da qualche giorno aveva affidato alla moglie il compito di monitorare i tassi di glicemia con un glucosimetro. Sul monitor, il cuore del neonato si fermava e riprendeva a battere. Adri lo guardò confusa, scusandosi per non averlo avvisato, e lo sforzo di valutare la gravità della situazione e la colpa che ricadeva su ciascuno di loro per quella negligenza lo fece sprofondare in una spirale offuscante di mea culpa da cui riemerse soltanto quando sentì Thales che chiedeva una sala operatoria per effettuare un cesareo urgente. Lei iniziò a piangere mentre veniva depilata, dicendo che aveva paura. Lui le strinse la mano e disse che sarebbe andato tutto bene, che sarebbe rimasto sempre lì accanto a lei, ma in realtà anche lui aveva paura, poiché malgrado fosse un chirurgo dalla promettente carriera, malgrado venisse considerato uno degli alunni più brillanti della storia del corso di medicina dell’università federale, in quel momento non era in grado di comprendere ciò che stava succedendo al corpo di lei e a quello del neonato. La sua parte di medico smise di esistere, e l’unica realtà era che la moglie che lui amava e il figlio che lei ancora portava dentro il suo utero stavano correndo un serio rischio di vita. Arrivò l’anestesista, una donna magrissima, che pareva avere ascendenze polacche. Fece le domande essenziali tralasciando le non essenziali, dato che non c’era tempo, e garantì ad Adri che non avrebbe sentito dolore, ma solo la sensazione dell’intervento chirurgico, che non doveva essere confusa con il dolore. Lui in fondo sapeva che l’anestesista si stava mostrando compiacente, ma la situazione imponeva tutta la compiacenza possibile. Il ginecologo e le infermiere si affannavano febbrilmente intorno al letto. Lui baciava Adri, ripeteva innumerevoli volte che era lì, che sarebbe rimasto lì. Fu somministrata la peridurale, che doveva fare effetto in quindici o venti minuti, ma con suo orrore Thales dichiarò che non c’era tempo e che l’incisione doveva esser fatta immediatamente. Le mani di Adri furono legate. Thales fece il primo taglio e lei urlò. Era evidente che l’anestesia non stava ancora facendo effetto. Tentò di passare la mano sul viso della moglie, ma lei chiese di non essere toccata. A ogni nuovo intervento del ginecologo la moglie ruggiva come una bestia che viene ammazzata, le vene e i tendini del collo irrigiditi, gli occhi riversi. Subì il suo primo calo di pressione dalla lontana infanzia, quando ancora si impressionava per queste cose. Gli si annebbiò la vista, le mani e le gambe tremanti, sudore freddo, nausea. Era sul punto di svenire come qualsiasi maritino alle prime armi, perché proprio a quello si era ridotto, nel vedere il volto della madre di suo figlio trasfigurato da un supplizio che lui non aveva modo di alleviare. Temette che lei potesse letteralmente morire di dolore, e non c’era nulla che lui potesse fare, poiché per quanto l’amasse non aveva alcun modo di dividere con lei quel tormento, assumersi una parte del dolore. Si ricordò di sua madre, dell’espressione sul viso di lei quando lui si faceva male da bambino, il desiderio impossibile di placare la sofferenza del figlio. Mai avrebbe scordato quell’espressione. Con lei, aveva capito molto presto che la sofferenza fisica è solitaria. Adesso lo poteva testimoniare, e rapidamente la vista del viso della moglie gli diventò insopportabile, così si alzò dal suo posto accanto al letto e vide, al di sopra della tenda che impediva alla partoriente di vedere, l’operazione che era in corso. Il sangue sgorgava a profusione, neutro e innocente, dal taglio alla base dell’addome. Nell’istante stesso in cui lui focalizzò lo sguardo sulla scena, il medico forzò l’apertura, mettendo in evidenza gli strati di pelle, grasso e carne del ventre di Adri, distinti come in un diagramma didattico, ma umidi e brillanti come solo la materia organica può essere, e là in mezzo poté distinguere la testa del neonato, inzuppata di sangue e liquido amniotico. Fu a quel punto che riprese il controllo e sentì il malessere del calo di pressione estinguersi poco a poco. Non era in grado di comprendere la sofferenza innominabile di Adri, ma l’interno di un corpo umano e la violenza del bisturi erano territorio ben noto a un chirurgo. Era come se le viscere esposte, contrariamente alle urla e alle smorfie di dolore, fossero anonime. Le mani di Thales forzarono ancor di più l’apertura del taglio, l’anestesista lo aiutò, allargando le costole, ma quando il ginecologo tentò di tirare il neonato per la testa quello non venne fuori e gli sfuggì dalle mani come fosse stato risucchiato di nuovo dentro l’utero. Adri gridava «basta» con tutto il suo fiato, prolungando la sillaba tonica quasi fino a esaurire l’aria nei suoi polmoni, riservando soltanto un ultimo sospiro per completare la parola. A quel punto, era palese il terrore di Thales, dell’anestesista e degli infermieri. Il neonato sfuggì dalle mani del ginecologo quattro volte di seguito. Lui era consapevole che tanto Adri quanto il neonato potevano morire ad ogni istante e voleva intervenire in qualche modo per evitarlo, ma non sapeva come, non c’era nemmeno spazio per l’intervento di più di un medico. Doveva essere solamente il padre, e non sapeva essere padre, ancora. L’anestesista salì sul letto e montò sopra l’addome di Adri, usando il peso del suo corpo per forzare l’uscita del neonato, una manovra brutale che in retrospettiva acquista un carattere quasi surreale. Ricordando quella scena, ha la certezza che è stato ciò che l’ha colpito di più in tutto l’episodio. Ma funzionò. Pochi secondi dopo il neonato era tra le mani del ginecologo, un esserino minuto, violaceo, quasi nero. E silenzioso. Fu tagliato il cordone e il neonato fu portato via rapidamente. Il ginecologo e l’anestesista consolavano Adri dicendo: «È tutto finito, è finito», ma i medici, le infermiere e la sua stessa moglie avevano smesso di esistere in quel momento, poiché ebbe la certezza che la figlia era morta. Non c’era pianto. Restò catatonico in un angolo della sala operatoria per quasi due minuti, estraneo a tutto, fino a che finalmente udì il pianto esiguo che cominciò come un soffocamento, poi un gemito, e infine un richiamo singhiozzato e stridente che era il segnale massimo di vita, la protesta del neonato per esser stato espulso dal bozzolo della gestazione nell’atmosfera gelata e sterile dell’ospedale. Mosso da una nuova iniezione di adrenalina, andò a vedere la figlia. Cinquantadue centimetri. Tre chili e cinquanta grammi. Un mammifero minuscolo. Un fagiolino vivo. Tutto ciò che aveva vissuto e realizzato culminava in quella creaturina, e tutto ciò che sarebbe accaduto da lì in avanti fino alla sua morte sarebbe stato solo un riflesso dell’avvenimento fondamentale che si stava svolgendo in quell’esatto momento. Preso da tale euforia, condusse il neonato alle braccia della madre. Adri spiò con l’angolo dell’occhio e gemette soltanto un «adesso no». Solo allora si accorse che il ginecologo le stava suturando la pancia, la moglie in stato di shock, che sopportava eroicamente la tortura. Più tardi, dopo che il neonato aveva già poppato e i familiari della coppia lo stavano vedendo attraverso il vetro dell’incubatrice, scoprì che l’intero parto era durato sette minuti. A lui erano sembrate sette ore, e settimane dopo gli sembrava che fosse durato un giorno intero. Quando lo disse ad Adri, lei rispose che nel suo ricordo le sembrava che tutto fosse successo nell’arco di pochi secondi. «A dire il vero, non mi ricordo nulla.» «Come nulla?» «Nulla. Non mi ricordo quel che è successo all’ospedale, non mi ricordo del dolore. Di nulla. L’ultima cosa che mi ricordo è il bagno che ho fatto prima di uscire di casa.» Dal momento in cui avevano saputo il sesso del neonato, Adri aveva difeso il nome di Felícia, ma alla fine, dopo molta insistenza, lui era riuscito a far passare la sua proposta: Nara. Un capitolo del romanzo brasiliano Mãos De Cavalo, ancora inedito in Italia. Traduzione di Angela Masotti. Daniel Galera è tra i più importanti e premiati scrittori brasiliani della generazione apparsa alla fine degli anni ’90.
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