RICONOSCERE IL REATO DI TORTURA Alessandra Cesari A partire da un invito dalla rivista Sagarana ad ogni nuova edizione uscirà un articolo inedito, su un tema di grande rilevanza in questo momento, suggerito dalla Redazione di Segnali di fumo: www.sdfamnesty.org magazine on line sui diritti umani di Amnesty International. Questo è il sesto articolo di un totale di otto. “Nessun individuo potràessere sottoposto a tortura o a trattamenti o punizioni crudeli, disumani e degradanti” (Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, articolo 5) Estrarre una sigaretta dal pacchetto, portarla alla bocca e accenderla senza nemmeno guardare; un gesto automatico che tanti di noi compiono tutti i giorni senza neanche farci più caso. Un gesto che per qualcuno significa terrore e sottomissione. Le bruciature di sigarette sono uno dei metodi di tortura più utilizzati, insieme a pestaggi, stupri, soffocamenti e semiannegamenti, privazioni del sonno, obbligo di mantenere posizioni dolorose per lungo tempo, umiliazioni fisiche e psicologiche; una troppo lunga lista di atroci vessazioni che pensavamo aver lasciato al tempo dell’Inquisizione. Il diritto internazionale, fin dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, ha riconosciuto la tortura come un atto inumano, proibendola in modo categorico, sempre, ovunque e contro chiunque. È del 1984 la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani e degradanti, che sancisce il divieto di tortura. La Convenzione delle Nazioni Unite definisce come tortura “qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o èsospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito”, e la vieta in modo assoluto, non ammettendo alcuna deroga, alcuna circostanza eccezionale, quale che essa sia, che si tratti di stato di guerra o di minaccia di guerra, di instabilità politica interna o di qualsiasi altro stato di eccezione, né riconoscendo l’ordine di un superiore come giustificazione. È considerato tortura anche un singolo atto, senza necessariamente che si tratti di un comportamento ripetuto e ricorrente, e nei confronti di atti di tortura vige il principio della “giurisdizione universale”, ovvero quando una persona sospettata di aver commesso atti di tortura si trova in uno Stato diverso da quello in cui tale atto è stato commesso o i cui cittadini siano stati coinvolti, le autorità sono comunque tenute a indagare in modo approfondito e imparziale, se necessario arrestando ed estradando il sospettato. Almeno 155 Stati nel mondo hanno ratificato la Convenzione, impegnandosi a vietare e perseguire ogni forma di tortura e a garantire giustizia e risarcimento alle vittime. Eppure, a distanza di trent’anni, purtroppo, non possiamo ancora festeggiare un mondo libero dalla più aberrante delle violazioni dei diritti umani. Naturalmente nessuno Stato dichiara apertamente di far ricorso a forme di tortura, e non vi sono quindi fonti ufficiali cui ricorrere. Tuttavia molte organizzazioni umanitarie raccolgono da anni documentazioni, prove e testimonianze; negli ultimi cinque anni, Amnesty International ha ricevuto denunce di tortura e altri maltrattamenti in almeno tre quarti dei Paesi del mondo, 141 Paesi solo tra il gennaio 2009 e il marzo 2014, in alcuni casi come fenomeno isolato ed eccezionale, in altri come pratica sistematica. Si tratta certamente di dati sottostimati, potendo far riferimento unicamente ai casi denunciati; ma si può facilmente immaginare che ancora di più siano gli episodi che rimangono taciuti, dato il contesto di segretezza nel quale la tortura viene praticata e perché le vittime hanno troppa paura per denunciare, non hanno fiducia in quelle autorità che spesso sono i torturatori, o perché, quando pure denunciano, sono ignorate. Dati tuttavia sufficienti a dimostrare che molto spesso i governi hanno ratificato i trattati internazionali che mettono al bando ogni forma di maltrattamento, hanno anche, in taluni casi, adottato legislazioni interne che vietano la tortura, salvo poi permetterla nell’ombra delle prigioni, delle caserme, dei luoghi di detenzione clandestini e nascosti. È per ottenere finalmente la piena applicazione della Convenzione ONU del 1984 che Amnesty International ha lanciato lo scorso 13 maggio la campagna globale “Stop alla tortura”. Per ribadire che la tortura è la madre delle violazioni dei diritti umani, una pratica disumana e anche inefficace, dal momento che sotto tortura si ottiene qualunque confessione, anche non rispondente al vero (sta riscuotendo successo sui social media la campagna di comunicazione “choc” per il lancio di “Stop alla Tortura” di Amnesty Belgio, che utilizza volti di personaggi noti, da Iggy Pop al Dalai Lama, che con i lineamenti deturpati da evidenti segni di tortura affermano qualcosa di assolutamente improbabile, a rimarcare come la tortura possa portare chiunque a dire qualunque cosa). In Italia la campagna si concentra su tre Paesi chiave, il Messico, l’Uzbekistan e il Marocco/Sahara Occidentale, oltre che sul nostro stesso Paese. In Uzbekistan episodi di tortura e trattamenti crudeli risultano frequenti da parte delle forze di polizia e del personale carcerario, in particolare ai danni di persone arrestate e in attesa di giudizio; nonostante l’Uzbekistan abbia adottato alcuni provvedimenti legislativi, tra cui l’abolizione della pena di morte, di fatto non riesce ad arginare il fenomeno e soprattutto a condurre indagini efficaci su questi reati e processare i responsabili. Il Marocco ha visto negli ultimi anni un progressivo miglioramento della situazione, con modifiche dell’ordinamento penale rilevanti che hanno messo al bando la tortura, eppure nella pratica episodi di maltrattamenti continuano a verificarsi durante le detenzioni preventive e le confessioni estorte sotto tortura durante gli interrogatori della polizia sono ancora considerate prove attendibili nei processi, nonostante evidenze contrarie. Anche il Messico ha formalmente ratificato i trattati internazionali, proibendo la tortura financo nel testo costituzionale; ma mentre il governo si affanna a negare il ricorso alla tortura da parte del personale di polizia e militare e rifiuta di fornire dati in proposito, i numeri noti rilevano più di 7000 denunce verso ufficiali federali ricevute dalla Commissione nazionale dei diritti umani tra il 2000 e il 2013, a fronte di sette condanne per reato di tortura dal 1991 al 2013. È emblematica la storia di Claudia Medina Tamariz: giovane madre di tre figli, arrestata in casa sua all’alba con l’accusa di far parte di una banda criminale, dopo una giornata di torture in caserma con percosse, scariche elettriche, abusi sessuali, è stata obbligata a firmare una confessione senza poterla neppure leggere. Liberata su cauzione, ha ritrattato la confessione e denunciato le torture subite; le accuse nei suoi confronti sono decadute, ma a distanza di quasi due anni nessuna indagine è stata realmente avviata. Per Claudia, e per le tantissime persone che nel mondo vivono le stesse drammatiche esperienze, Amnesty International il 26 giugno, in occasione della Giornata internazionale di sostegno alle vittime della tortura, rinnova con ancora più forza la richiesta ai governi di adottare politiche concrete per impedire il ricorso alla tortura e a trattamenti disumani, innanzitutto ponendo fine alla diffusa impunità per chi si macchia di tali reati. È inoltre necessario che non vi siano detenzioni arbitrarie, che gli avvocati siano presenti durante gli interrogatori, che i detenuti abbiano accesso a visite e cure mediche imparziali e che possano incontrare i familiari. È infine imprescindibile che la tortura sia riconosciuta come reato in tutti gli ordinamenti. L’appello è in questo caso anche all’Italia, che dopo 25 anni dalla firma della Convenzione contro la tortura, non ha ancora introdotto il reato di tortura nel codice penale. E a chi possa considerare perfino inutile tale menzione di legge, ritenendo la tortura nelle carceri italiane ormai materia per i libri di storia, basti ricordare le tristemente note vicende della caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova, nel 2001, o anche i più recenti casi che vedono indagati, o condannati, membri delle forze di polizia per morti violente avvenute durante stati di fermo o detenzione. L’assenza del reato di tortura rende le indagini e i processi “depotenziati” in partenza, molti di questi episodi rimangono impuniti, o laddove giudicati, i responsabili sono imputati per fatti minori, con pene e tempi di prescrizione ridotti, e le vittime continuano a vedersi negate verità e giustizia. Fortunatamente l’imprescindibilità di questa modifica normativa sembra essere stata finalmente raccolta dalle istituzioni; dopo una serie di tentativi falliti, si è giunti a un unico disegno di legge, discusso e approvato con voto quasi unanime in Senato lo scorso 5 marzo, e ora all’analisi della Camera. Il passo è ora breve e imprescindibile, non si può più tardare nell’adozione della legge che introduce il reato di tortura, per sanare così una grave lacuna del nostro ordinamento e fornire uno strumento utile per evitare comportamenti gravi e disumani. Un passo in più per far sì che, nel mondo, la sigaretta resti solo un vizio da tabagisti. Alessandra Cesari: 32 anni, un lavoro in banca, da anni attivista per Amnesty International. Amante della storia, dei cantautori, del cinema, dei viaggi in camper. Non rinuncio alla curiosità, all'indignazione, alla fiducia.
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