FUORI DAL GHETTO Brano tratto dal romanzo La misura del danno Andrea Pomella (…) L’approssimazione di quella visione delle cose lo rendeva pazzo. Lui era fatto di un’altra pasta. Lui non sarebbe rimasto contagiato dal morbo della mediocrità. Lo aveva capito fin da bambino, durante l’infanzia trascorsa sulla collina di Villa Spada, nella borgata Fidene, periferia nord di Roma. Andava male a scuola, era magro e aveva spesso la febbre, sembrava perennemente affetto da una forma di malaria endemica, ma nonostante questo era considerato un sobillatore, un ribelle. Sua sorella Angela era più grande di lui di quattro anni, seguiva sua madre ovunque, come tutte le ragazzine ne era una completa epigone. Ma ciò che gli riusciva più odioso era accorgersi di quanto Angela non volesse essere niente più di quello. L’odore di erbette lessate, il rumore delle mani che ruotano dolcemente sui cardini della macchina per fare la pasta in casa, le serate a guardare Corrado in Tv, erano il ronzio di sottofondo della sua infanzia. E ancora il Commodore 64 che gli avevano regalato i suoi per la cresima, le partite a pallone nel cortile della scuola, il Magic Cola dell’Eldorado da succhiare nei pomeriggi d’estate aspettando il 235 per piazza Vescovio mentre guardava i treni che sfilavano lungo il nodo ferroviario di Villa Spada: non c’era modo di penetrare in tutti quei ricordi ed estirparne il disgusto. La mediocrità era in quelle cose, era in quella continua resistenza alla depressione, era nella pioggia che bagnava i palazzi grigi di Roma, nella tristezza animalesca di “Ragazzo che aspetti, questa sera ci sono i fumetti, i fumetti, i fumetti, i fumetti in TV…”. Voi che siete nati dopo, voi che non c’eravate, non potete capire come quella nuova abbondanza che avrebbe dovuto rappresentare il paradiso per un bambino di nove anni, quel paese di bengodi che erano gli anni Ottanta, fosse in realtà la più criminosa costruzione in serie di demoralizzati da vai-cresci-e-sparati-un-colpo-in-bocca. A quel tempo Alessandro non immaginava ancora che ci fosse un altro mondo oltre a quello. Le borgate di Roma erano qualcosa di peggio di un ghetto, erano un anestetico, erano una lobotomia di massa, la soluzione drastica per separare la borghesia dal proletariato risolvendo alla radice il problema dei conflitti di classe. La terza media era ancora un traguardo, per quelli che continuavano c’erano gli istituti professionali, al massimo un tecnico industriale in cui limare pezzi di ferro in laboratorio spingendo e tirando per ore, scuole da arrivarci ogni mattina con tre cambi d’autobus, ammassati come bestie, al prezzo di un abbonamento intera rete studenti da 12.000 Lire. Lui però, sgretolato dall’ansia di distinguersi tenendo alta la fama del ribelle, aveva optato per il liceo, anche se, nella sua cerchia, fare il liceo era considerato roba da finocchi, nel migliore dei casi un buon sistema per entrare a vent’anni attraverso la porta principale nel mondo della disoccupazione. Sua madre aveva tentato di convincerlo in tutti i modi: «Non è un posto adatto a uno come te, sprecheresti soltanto il tuo tempo». Ma qual era il posto per uno come lui? Era forse la fabbrica di televisori e autoradio dove timbrare ogni mattina un cartellino ereditato da suo padre? No. Il posto dove consumare la sua energia di adolescente che brama il mondo era il liceo. E la sua scelta era caduta sul liceo Tasso di via Sicilia, uno dei più antichi di Roma, il liceo che era stato di Gassman e di Andreotti. Ma sua madre, alla fine, non lo aveva visto uscire di casa neppure il primo giorno di scuola. Era morta in estate per un cancro al colon. Era stata per nove giorni con l’intestino costipato senza confidarsi con nessuno. Il decimo giorno, mentre faceva la spesa al mercato, era svenuta dal dolore. Erano andati a prenderla con l’ambulanza e l’avevano portata al San Filippo Neri, dove l’avevano operata d’urgenza asportandole un pezzo d’intestino. Il suo cuore aveva retto solo fino al lunedì seguente. Ai funerali erano venute poche persone, a quel tempo le famiglie facevano ancora le ferie ad agosto, e quell’anno il caldo era umiliante. Alessandro, per tutta la durata del funerale, era stato preso in consegna dai pochi amici rimasti in città. Mentre guardava suo padre e sua sorella rannicchiati davanti alla bara posta in prossimità dell’altare, con le facce storte e le spalle piegate, come se sui loro corpi incombesse il caos, aveva pensato che nessuno può mai dire agli altri cosa devono essere e fare. Aveva quattordici anni, e come in una rivelazione aveva appena scoperto la forma più avvilente di disprezzo, quello verso le proprie radici. Brano tratto dal romanzo La misura del danno, Fernandel Editrice, Ravenna, 2013. Andrea Pomella nasce a Roma nel ’73. Laureato in Lettere, precisamente in Storia dell’arte contemporanea, alla Sapienza di Roma, dal 2002 al 2005 ha lavorato nella realizzazione di progetti di area storico-artistica per una casa editrice romana. Nel frattempo ha collaborato con varie riviste nella recensione di eventi d’arte contemporanea. Ha pubblicato I Musei Vaticani per conto dell’Editrice Musei Vaticani. Ha scritto Caravaggio – I percorsi dell’arte e Caravaggio – Un artista per immagini, con la prefazione di Maurizio Calvesi, per ATS Italia Editrice. Ha pubblicato la monografia Van Gogh, sempre per ATS Italia Editrice. Ha scritto i testi per “Le ceneri del mio tempo – Canto di guerra per Pasolini“, un’opera per clarinetti, sassofoni, inserti audio e canto popolare realizzata in collaborazione con il Laboratorio permanente di espressione artistica contemporanea Impromachine e con la partecipazione di Benat Achiary. Ha scritto il libretto dell’opera da camera per canto e fiati Visioni – Viaggio all’origine sacra del bene e del male. Nel 2008 ha pubblicato per Aracne Editrice il romanzo Il soldato bianco. Premio Gramsci 2008 per la narrativa col racconto Muro d’inverno, e nel 2013 La misura del danno. Dal 2009 collabora con la pagina culturale dell’Unione Sarda. Andrea Pomella è rintracciabile su PoetarumSilva e sul suo blog personale Stella D’occidente.
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