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Sagarana BALENE


Gabriel Wolfson


BALENE



 

 
...la bilancia non sembra essersi inclinata
definitivamente verso la rassegnazione.
Félix de Azúa
 
 
 
Per riferirmi a lui userò due lettere qualunque, per esempio AZ. AZ ha ventun anni, l’età indicata per intraprendere grandi viaggi. Suo padre è ebreo e sua madre giapponese, insieme sono stati tra i primi abitanti di questo posto. Questo posto è a Tokio.
AZ è nato qui. La sua lingua materna è lo spagnolo, lingua ufficiale della zona in cui ha vissuto fino ai quindici anni. Sua madre avrebbe desiderato riuscire a comunicare con lui in giapponese. Ma non poté far nulla contro lo spagnolo standard che AZ aveva imparato, formatosi con l’incontro di argentini, messicani, cileni, galiziani e catalani. Il catalano non esiste qui dentro.
Sul passaporto di AZ è indicato D8 come luogo di nascita. Che vuol dire: zona di lingua spagnola della fascia D (la quarta dal basso verso l’alto).
A suo tempo, la notizia della costruzione della Città si sparse in tutto il mondo. Fu forse l’ultima notizia di portata veramente mondiale, la gente credette di interessarsene. Passano le ore, i giorni, e per chiunque è naturale che le cose interessanti si dimentichino. Nessuno si sogna più di sconvolgersi per la felice amnesia che gorgoglia nella mente dell’umanità.
Ora, è chiamata Città per ovvie ragioni. Più logico sarebbe chiamarla Nazione, ma non è né l’una né l’altra. È un edificio. La notizia della costruzione dell’edificio, come ho detto, si diffuse con gran fortuna, e ancor più rapidamente svanì. È la parola giusta: l’immagine dell’edificio svanì dalla memoria di tutti. Attraverso la stampa mi sono fatto l’idea che, in molte parti del mondo, non tanto si ignora l’esistenza dell’edificio, quanto lo si considera una leggenda.
Anni fa ha avuto successo una frase pubblicitaria: “Vita moderna, moderna sicurezza”. Credo che significasse anche, o principalmente, questo: pensi pure quel che le pare, ma il mondo intorno a lei è talmente sicuro che resisterà all’allucinazione idealista di chiunque. Non vuol credere che l’edificio esiste? Non importa, lei non si preoccupi, i ministeri sono sempre al lavoro per evitarle fastidi. Non vuol credere che sua figlia inietta acqua nelle vene ai neonati? Non importa, non ci stia a pensare, qualche ministero se ne occuperà. Nella maniera più pulita.
In realtà volevo dare qualche informazione essenziale sull’edificio dove è nato AZ. Il suo nome ufficiale è Panopolis, ma questo non conta, nessuno lo chiama così. L’hanno progettato due architetti, un italiano e un coreano. La base misura un chilometro quadrato, e ha 543 piani. Strano: le cifre ora servono a qualcosa. Conferiscono all’edificio un carattere di ente possibile, per lo meno lontanamente possibile: 543 piani, un chilometro, cifre eccessive ma immaginabili. Entrano in qualunque neurone. Ma perché 543? Quando glielo chiesero, l’architetto coreano sorrise, si schermì e disse che non c’era nessuna ragione sostanziale, che 543 fa più impressione di 600.
La risposta riscosse l’approvazione generale, il mondo era orgoglioso dell’edificio. Se ne compiaceva perfino gente che neanche sapeva dell’esistenza di città comuni (ma certo: il trionfo della novità come salvezza). L’udire dati cretini suscitava un grande fascino. Per esempio: l’oscillazione al piano 543 può raggiungere i  quindici metri, eccetera. Come era prevedibile, si parlò dell’edificio come di una grande creazione, sintesi del talento umano accumulato nei tempi, traccia incancellabile per il futuro.
Frasi impeccabilmente vuote. Di fronte a un tale successo – il sorriso del successo, Dio mio! –, si progettava senz’altro d’innalzare altrettanti edifici-città a San Paolo, a Montreal, a Londra, ma il fallimento economico fu inaspettato e sicuro. Ben presto l’edificio assunse gli autentici caratteri di una città, anzi di una nazione. Cominciò a funzionare rivolto verso l’interno, per se stesso.
I suoi creatori, i suoi patrocinatori, l’avevano sognato come il centro di produzione e commercio più grande del mondo. Al contrario: si trasformò in una vera e propria regione, con leggi proprie e norme di condotta specifiche. Non rappresentò una fonte addizionale di ricchezza per il paese, il Giappone in questo caso; rappresentò un nuovo paese, con cui si sarebbero potute stabilire relazioni diplomatiche e di interscambio come con qualsiasi altro. Finirono per accettarlo, con rassegnazione, con calcolo. Esattamente come prima, quando un nuovo stato si separava da un altro tramite una guerra e centinaia di cadaveri.
Quando nacque AZ, la città-edificio, la Città, erano anni che funzionava come un orologio svizzero; vale a dire, come un’inoffensiva democrazia svizzera.
In realtà AZ sono io, ma sapendo che in un certo senso non appartengo più a questa vita, mi risulta più facile raccontare le cose in questo modo. In realtà, riguardo al passato mi sarebbe impossibile fare altrimenti.
Sei fasce, la prima di quarantatré piani e le altre di cento ciascuna. Nella fascia D, alla zona 8 (di dieci piani) corrisponde lo spagnolo. Case, qualche scuola elementare, qualche negozio. Più in basso, la zona 7, plurilingue, che AZ conobbe all’età di tredici anni, portato lì da un compagno di scuola che cercava dell’alcol da pochi soldi. AZ aveva paura, ma bastò che trovassero una scala vuota nella stessa zona 7 per poter bere indisturbati.
Nella fascia C, zona 3, il conservatorio e le accademie d’arte. Inoltre alloggi per gli studenti.
Prima di trasferirsi nella fascia C, zona 3, AZ passò per diverse fasi: di noia, di apatia, e infine di totale incomprensione. Si dirà che sono fasi logiche per quell’età, e AZ lo sapeva, ma non per questo evitò di farsi alcune domande. In particolar modo, perché fosse già previsto che tutte le persone passassero per queste presunte fasi, e perché si accettasse il fatto con così mite rassegnazione.
Mandar giù grandi sorsi d’alcol senza etichetta per le scale sudice della zona 7, plurilingue: di questi primi eccessi, di queste prime trasgressioni, era piena l’amena e stupida letteratura delle riviste.
AZ uscì per la prima volta da solo dalla fascia D a quindici anni, per installarsi in uno degli appartamenti nei pressi del conservatorio. Un superbo appartamento di sei metri quadrati, senza esagerare. Sei metri quadrati più una presunta cucina incassata in una parete. Più un bagno, così piccolo che doveva sempre sedersi sul water, per lavarsi i denti o insaponarsi la testa.
La zona 3 della fascia C era ufficialmente multinazionale, benché se la accaparrassero due razze: gli austriaco-tedeschi e i coreano-giapponesi. Gli orientali avevano i soldi, più dei germanici, ma questi esercitavano un potere isterico, discreto e incontestabile. AZ ci mise alcuni anni per vederci chiaro.
La musica di Strauss, per esempio, continuava a suscitare un inspiegabile fascino in migliaia di persone di tutto il mondo – ed è chiaro: continuava e continuerà, finché l’edificio non crolli. Ci sono buone famiglie, buona educazione, nobili slanci, solidi valori che si conservano malgrado tutto. Se la si pensa in questo modo, non c’è niente di meglio che mandare i figli a studiare musica con gli eredi di Strauss. Poi si suona un valzer alla veglia funebre della nonna e s’intuisce, con un confortante sussulto, che il ciclo si chiude, che ogni cosa ha avuto la sua ragion d’essere.
Fin dall’inizio AZ si convinse che la musica non gli interessava particolarmente. Il resto dei ragazzi, l’enorme maggioranza, vi si aggrappava come a un pretesto per non accettare il fatto che in realtà non gli interessava niente in assoluto. Erano un ottimo esempio di quella buona educazione, dei nobili principi familiari. Quel che conta è la musica classica, si poteva leggere sempre sui loro volti perpetuamente ispirati.
Ma c’è una sorta di velo protettivo, l’ordine e la marcia inarrestabile del mondo formano un velo, come un rivestimento di garza che impedisce di assumere nella realtà ciò di cui uno via via si rende conto. Il meccanismo non si ferma, il sangue e il petrolio continuano a scorrere. Poi AZ ha contratto la malattia.
Non so se contrarre sia il termine giusto. Si contrae il male che fluttua nell’atmosfera. Piuttosto, acquistare meriti per la malattia?
I professori austriaci torchiavano i giovani corpi orientali e continuavano a spremerne soldi per anni. Diciamo, un alunno senza nessuna possibilità, uno tra i mille che semplicemente arrivano a eseguire senza note false qualche sonata di Beethoven. Mai uno di loro è stato rifiutato in partenza, a nessuno di loro è stato detto di non avere futuro. La crudele storia direbbe più o meno così: dopo dieci anni, il professore, in procinto di andare in pensione, chiama il suo discepolo e gli spiattella pari pari che non ha mai avuto talento; l’alunno, non più tanto giovane, piange e decide dunque d’iscriversi alla facoltà di Ingegneria. Ma le cose non andavano in questo modo. Il professore ammetteva i giovani giapponesi, riscuoteva le sue alte parcelle e dopo dieci anni di lezioni quindicinali li lasciava lì a fluttuare, nell’acqua tiepida della mediocrità, per il resto dei loro giorni.
Alla madre di AZ il matrimonio era servito per uscire da questo fango. Uscire e passare a un altro, più silenzioso.
Nella zona 3 della fascia C c’è un punto di non ritorno: quando, affacciandosi fuori dai saloni insonorizzati, le vecchie partiture e la mitologia dei bambini prodigio, qualcuno riesce a intravedere una domanda: perché dedico la mia vita a studiare musica, a perfezionare qualcosa di ormai così insignificante?
C’è la tanto celebrata idea del sacrificio, benché nessuno osi parlare della ricompensa. Per questa ragione gli appartamenti per studenti di pianoforte vengono concepiti così, con il Bösendorfer a mezza coda che occupa la metà dei sei metri quadrati. Bisogna scontare con una vita quotidiana così miserabile il fatto di consacrare il tempo a qualcosa di tanto nobile? O più semplicemente, la verità è che in questo modo si promuove la sterile pratica di studiare dodici ore al giorno? Gli studenti finiscono per abituarsi alla mancanza di spazio, ma questa meschinità, e quest’abitudine alla meschinità, sembrano contemplate fin dal principio. Come il solfeggio o il contrappunto: una materia in più del piano di studi, un requisito per il diploma.
L’idea migliore che ho mai avuto è stata di contrarre la malattia. Contrarre?
C’è una zona della fascia E senza numerazione. Deve avercela ufficialmente, ma è conosciuta come la zona delle vacanze. I genitori di AZ ce l’hanno portato per parecchie estati. Due piani di acqua turbolenta, laghetti e cascate, sole orientato, buffet ventiquattro ore su ventiquattro, giovani ebbri che si affogano nelle piscine. Si parla un inglese simile al protoindoeuropeo. E non è possibile far niente per volontà propria; tutto è già concordato,  discretamente e gratuitamente incluso nel pacchetto che si acquista all’agenzia di viaggi. I bambini scorrazzano con indosso maschere di supereroi, animati da una giovane puerile. I genitori bevono cocktail sdraiati ai bordi della spiaggia, benché per via della loro obesità abbiano sempre odiato sdraiarsi ai bordi di alcunché, perché si sa che è così che ci si gode la vita. AZ non ha mai visto il mare, ma la spiaggia della zona delle vacanze della fascia E invece sì.
La mitologia del bambino prodigio sembra essere stata foggiata dai greci, tanto è perfetta e implacabile. In un’altra epoca, il bambino prodigio sorgeva dai villaggi montani della Germania o dell’Austria come incarnazione della dea natura allo stato puro. Poi come al solito gli orientali si sono impadroniti del terreno. Ma non ha importanza, poiché l’esotismo rende, se possibile, ancor più prodigioso il bambino prodigio. AZ ne ha conosciuti diversi, uno turco, uno norvegese, un altro colombiano, venuti da fuori della Città. Nel conservatorio ci sono due diverse competizioni, in qualunque conservatorio: una tra la grande massa degli aspiranti e l’altra, riservata a quattro o cinque marmocchi diabolici. I genitori di questi bambini, le loro città di origine, il funzionamento del mondo intero, tutto sembra confluire nella fragilità maligna di quelle mani di nove anni che eseguono la sonata Waldstein senza errori. A cento chilometri all’ora, a trecentomila miglia al secondo.
Come negli sport, la grande massa degli alunni si orienta con i record: cinque anni fa – si ripete nei corridoi del conservatorio, celatamente – Nils Klaeveland, undici anni, ha suonato la coda della prima Ballata di Chopin più veloce di Marta Argerich. Adesso, Ümit Temizkanoglu, dieci anni, l’ha suonata al solito tempo ma con un grado di difficoltà superiore: ha fatto la scala finale in doppie terze.
Da dove vengono? Come hanno imparato? Chi è il loro maestro? In questo, nel porsi tali domande, la grande massa degli alunni non si distingue dal grande pubblico. Amano i bambini prodigio con un amore flagellante, creano intorno a loro un’aura di mistero, di mistica oscurità. Però la grande massa degli alunni, oltre all’amore infervorato, soffre perché sogna – lo sognano tutti, lo giuro! – di prendere il bambino prodigio e tagliargli le dita con uno stiletto.
Da bambino, in gita scolastica, AZ aveva visitato la zona 6 della sua fascia D, la zona industriale. Poi era tornato spesso a fare un giro tra i giganteschi bidoni di idrocarburi e i chilometri di tubature ossidate. Dietro a un’autobotte, lungo una recinzione elettrificata, era solito trovarsi con qualche compagno di scuola, per fumare sdraiati sull’erba.
Le case più care sono quelle con le finestre, sui quattro lati della Città. I quadrati concentrici tracciano la spirale della mendicità. Benché no, in realtà non ci sono poveri, AZ non ne ha mai visto uno nella sua zona natale. Si hanno i soldi per mangiare, pagare la scuola e le vacanze, superare con successo la sfrenata lista degli acquisti di ogni giorno: la differenza sta nella luce. Le case care hanno la luce naturale; in quelle interne, il sole elettrico abbronza più del dovuto chi vi abita. Lo Stato sostiene i costi del sole elettrico. Tutti, a cominciare dai proprietari delle case con finestre reali, pagano un’imposta affinché lo Stato si faccia carico del sole elettrico. Si direbbe che la pagano con piacere, per poi imbattersi nei corridoi con vicini dalla pelle brunita e pupille trasparenti.
Una dottoressa ha detto ad AZ il nome della sua malattia e i sintomi che avrebbe via via presentato. Gli ha dato poi degli opuscoli sulle abitudini che deve assumere chi ne è affetto. Gli opuscoli includevano un programma di attività mensile, un altro settimanale, e informazioni sui pacchetti offerti da varie residenze per malati terminali.
Si prenda, diciamo, un gruppo di tre note. Si possono suonare le prime due legate e l’ultima staccata, oppure al contrario, la prima staccata e le ultime due legate. Nel Concerto Italiano di Bach, solo nel primo movimento, ci sono più di duecento gruppi di questo tipo. La differenza tra un’esecuzione straordinaria e un’altra sublime può consistere nel fatto che due di questi gruppi siano stati suonati con il conveniente fraseggio. Chi tra il pubblico potrà mai distinguere una tale sottigliezza in un mare di migliaia di note? Il professore, e i due o tre alunni con buon orecchio. Un buono stomaco, questo è il conservatorio, che rigurgita se stesso incessantemente.
Molte persone comprano dischi. Per Bach, Glenn Gould è il preferito. Non mi piace Gould, ma si è guadagnato il prestigio che ha perché era un genio. Interpreta Bach come se non suonasse un pianoforte, bensì un marchingegno rudimentale, di ferraglia e legno scricchiolante. Ma alla buona coscienza degli abitanti della Città torna bene tenere sempre a portata di mano, dentro una piccola scatola in un angolo della sala, un genio tormentato.
Il professore è infallibile; sente tutto, capta fino alla più piccola sfumatura. Il signor professore sa, quale possessore della più affinata eredità musicale – da Bach tracciano una linea diretta che arriva fino a loro! È lui che dice come si deve suonare, e bisogna dargli retta: Mozart è leggero, Beethoven è temperamentale, Debussy è acquatico, Liszt è diabolico. Una sola volta all’anno smette di perorare e si siede al piano per mostrare al suo alunno come bisogna fare. Così, senza riscaldamento, senza avere fresca la partitura. La ragazza giapponese lo contempla inebetita e poi va a casa a studiare tredici ore di fila, senza mangiare nulla, per cercare di suonare uguale a lui.
Nell’informarlo della sua malattia, la dottoressa ha detto ad AZ che gli rimanevano sei mesi. La prima decisione reale della mia vita è stata quella di non raccontarlo a nessuno. Ora mi resta un mese. Trenta giorni reali.
Nei telegiornali, la notizia straordinaria è sempre quella relativa a un suicidio, qualcuno che si è lanciato verso l’esterno della Città. Oppure persone che sono morte asfissiate in qualche ascensore di lunga percorrenza. Ma nessuno tra i compagni di scuola di AZ, neppure quelli del conservatorio, ha mai visto un morto dal vero. Vengono assassinati certi personaggi malconci della zona plurilingue, improvvisamente s’infortuna un vecchio magnate idiota della fascia F, però in realtà la morte non esiste.
Vorrei prolungare la mia vita purché la malattia si mantenga dentro di me.
Per il suo diciassettesimo compleanno, AZ organizzò una festa nei corridoi della sua area di appartamenti. Arrivò prima degli altri Ümit, il bambino prodigio turco, che con i suoi quattordici anni appena compiuti aveva inciso il suo primo disco con la Filarmonica della Città, i concerti di Chopin. Confidando nel clima rilassato della riunione, lontano dal conservatorio, qualcuno cercò di attaccare discorso con lui. Nessuno riuscì a scoprire nulla, Ümit non fu in grado di imbastire tre frasi. Praticamente non sapeva parlare. Seduto sul pavimento, passò tutta la sera a giocare con un portachiavi di plastica a forma di bruco.
I professori non odiano gli alunni orientali, semplicemente non li vedono. Questi crescono, si sposano e mandano i figli di nuovo in quelle celle, affinché si coltivino nell’apprendistato della musica barocca, del valzer viennese, dei lieder tedeschi. Il professore va in pensione o muore, e al suo fianco ce n’è subito un altro pronto a rimpiazzarlo, già quasi vecchio quanto lui e ugualmente avvezzo alle arti della crudeltà. Il ciclo si ripete infaticabile, ma a ogni giro Mozart si trasforma sempre più in un fantoccio: il busto di marmo, la torta degli sposi, il diploma in lettere gotiche, tutte le cose che giacciono, come un sedimento fossilizzato, nelle menti delle nobili famiglie della città.
A tredici anni ero andato in cerca di alcol da pochi soldi. Non accadeva nulla in superficie, ma si poteva sempre supporre che nelle profondità di quella zona plurilingue si generasse l’autentica violenza. Così si diceva. Si sentiva parlare delle enormi perdite causate da frodi, traffici, omicidi e sequestri della zona plurilingue. Ma è possibile che queste zone oscure della Città, invece di sorgere spontaneamente, siano state contemplate fin dal principio, fin dal tracciato planimetrico, come contrappeso allo splendore metallico del resto?
Sono convinto che è quanto meno possibile. Questa incessante marcia della Città, che tutto ha già contemplato, i successi, il lavoro, l’ordine familiare, le feste regionali, i mali congeniti, la musica, il disprezzo, i salti audaci, le indecisioni, tutto, non si fermerà mai perché ogni semplice atto di chiunque è il sintomo e la causa, un’ulteriore spinta al funzionamento della Grande Ruota.
Che tutto ha già contemplato, sì, tranne questo. Entro un mese scenderò più di centocinquanta piani e uscirò per la prima volta. Allora non ci sarà più modo di perdere.




Traduzione di Angela Masotti angelamasotti@hotmail.com




Gabriel Wolfson
Gabriel Wolfson (Puebla, 1976) è un giovane talento della narrativa messicana contemporanea. I suoi racconti sono apparsi su riviste, supplementi letterari e antologie collettive, come Nuevas voces de la narrativa mexicana (Joaquín Mortiz, 2003) e Mejores cuentos mexicanos (Joaquín Mortiz, 2001 y 2002). Ha pubblicato la raccolta di racconti Ballenas (Tierra Adentro), vincitrice del Premio Nacional de Cuento Joven Julio Torri 2003, il volume di prose Caja (UD-LAP) e uno di cronaca Ponte la del Puebla (Profética), ed è appena uscito il suo primo romanzo Los restos del banquete (Libros Magenta). È collaboratore della rivista «Crítica» e docente di Letteratura Messicana all’Universidad de las Américas di Puebla.




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