RAGGIANTE DI RAPPORTO Brano tratto dal romanzo Un uomo solo Christopher Isherwood
(…) Sarà passata un’ora. Sono tutti e due ubriachi; Kenny abbastanza, George parecchio. Ma George l’ha presa bene, come non gli capita quasi mai. Prova a spiegarsi che genere di sbronza sia. Ebbene – per dirla in due parole – è come in Platone; un dialogo. Un dialogo tra due persone. Sì, ma non nel senso che si spacca il capello in quattro, o ci si lancia in funambolismi dialettici al solo scopo di poter dire “uno a zero”; non è un gioco di potere camuffato dalla falsa modestia, e neppure una discussione ammorbante su un tema sdato. Si può parlare di tutto e cambiare argomento quanto si vuole. In sostanza non conta di cosa si parla, conta essere uniti da una relazione molto particolare. George non riesce a immaginarsi un dialogo di questo genere con una donna, perché le donne riescono a parlare solo in termini personali. Andrebbe benissimo un uomo della sua età, a patto che per una ragione qualsiasi – la pelle scura, ad esempio – fosse il suo opposto. Sì, il nostro interlocutore dev’essere completamente diverso da noi. Perché? Perché le figure del dialogo sono simboliche – come lo sono, in questo caso, giovinezza e vecchiaia. Ma perché devono esserlo? Perché il dialogo è per sua natura impersonale. È un incontro simbolico. Non coinvolge direttamente le parti. Il che spiega perché in un dialogo, si può dire qualunque cosa. Anche la confidenza più intima, il segreto più bruciante, suonano come semplici metafore o illustrazioni di un principio, che non possono essere usate contro di noi.
George vorrebbe spiegarlo a Kenny. Ma è complicato, e non vuole correre il rischio di scoprire che Kenny non è in grado di capire. Desidera che Kenny capisca più di ogni altra cosa; desidera poter credere che Kenny conosca la dimensione di un dialogo del genere. E a essere sinceri in quel momento gli sembra possibile. Quasi sente il campo magnetico del dialogo che li isola e li avviluppa. Almeno, lui si sente avviluppato. Quanto a Kenny, gli sembra stupendo. Raggiante di rapporto è la frase con cui a George pare di poter descrivere Kenny. Poiché ciò che risplende, in Kenny, non è la semplice intelligenza, o un qualsiasi altro tratto di fascino. Stanno seduti lì a sorridersi – oh, molto di più – emanando mutua comprensione.
“Di’ qualcosa” ordina a Kenny.
“Devo?”.
“Sì”.
“Che posso dire?”.
“Qualunque cosa. Qualunque cosa ti sembri importante, in questo preciso momento”.
“Questo è il guaio. Non so cosa è importante e cosa non lo è. Mi sento la testa piena di sciocchezze insignificanti – insignificanti per me, beninteso”.
“Come ad esempio…”
“Vede, non voglio andare sul personale, professore – ma, ecco, le sciocchezze di cui ci stiamo occupando in classe…”.
“Non ti interessano?”.
“Cristo, professore, ho detto che non volevo andare sul personale! Le sue lezioni sono di gran lunga migliori delle altre; lo pensiamo tutti. E lei si sforza di mettere i libri di cui ci parla insieme a quello che succede ai giorni nostri… solo che, non è colpa sua, ma… noi abbiamo sempre la sensazione di finire impantanati nel passato; come stamattina, con Titone. Vede, non è che voglia criticare il passato, probabilmente da vecchio lo capirò quanto è importante. Sto solo dicendo che ai ragazzi della nostra età non interessa. A volte diciamo il contrario, ma così, per educazione. Dev’essere perché noi un passato non ce l’abbiamo, a parte qualche idiozia che preferiamo dimenticare, tipo le belle pensate che abbiamo avuto al liceo…”.
“Bene, giustissimo! Posso capirlo. Il passato non vi serve, non ancora. Avete il presente”.
“Già, ma il presente è una palla al piede! Io disprezzo il presente… cioè, così com’è in questo momento… cioè, eccetto stasera, naturalmente… Perché ride, professore?”
“Stasera sì, il presente no?”. George sta diventando rumoroso. Al banco, qualcuno si volta. “Beviamo a stasera!”. E beve, levando il calice.
“A stasera, sì!” ride Kenny, e beve anche lui.
“Benissimo” dice George. “Il passato, inutile. Il presente, squallido. Ti seguo. Ma una cosa non la puoi negare: al futuro siete legati. Non potete eliminarlo schioccando le dita”.
“No, è vero. Siamo legati al futuro. O a ciò che ne resta. Che potrebbe non essere molto, con tutti questi missili…”.
“Morte”.
“Morte?”.
“Sì”.
“In che senso? Non la seguo”.
“Ho detto morte. Volevo sapere se pensi molto alla morte”.
“No, perché? Quasi mai. Perché?”.
“Per via del futuro. È lì che si trova la morte”.
“Ah sì – sì sì, anzi, forse è il suo asso nella manica”. Kenny sfodera un sorriso. “Sa una cosa? Forse la generazione prima della nostra pensava alla morte molto più di noi. Penso che i ragazzi dovevano impazzire di rabbia all’idea che li avrebbero mandati a farsi ammazzare in qualche guerra del cavolo mentre i loro familiari se ne stavano a casa a giocare ai patrioti. Ma non sarà così, mai più. Ci saremo dentro tutti, o nessuno”.
“Potreste sempre prendervela coi vecchi. In fondo hanno avuto molto più tempo di voi, prima del botto”.
“Ecco, potrebbe essere un’idea. Mica male. Magari potrei prendermela con lei, professore”.
“Kenneth…”.
“Professore?”.
“Te lo chiedo per puro interesse sociologico, perché continui a chiamarmi professore?”
Kenny ha un sorriso maligno. “Se vuole smetto”.
“Non ti ho chiesto di smettere. Ti ho chiesto perché lo fai”.
“Le dà fastidio? Lo so che vi dà fastidio”.
“A chi, a noi vecchi?”. George sorride, in modo che si capisca che non se l’è presa. Ma senta che la relazione simbolica comincia a sfuggirgli di mano.
“Bene, la spiegazione normale è che non ci piace sentirci ricordare…”.
Kenny scuote decisamente la testa. “No”.
“No cosa?”
“Lei non è così”.
“Sarebbe un complimento?”.
“Forse… Il fatto è che a me chiamarla professore piace”.
“Sul serio?”.
“Una delle più grosse ipocrisie del nostro tempo è tutta questa familiarità. Fingere che non ci siano differenze tra le persone – insomma, come diceva lei a proposito delle minoranze, stamattina. Se fra noi due non c’è nessuna differenza, cosa abbiamo da darci? Come possiamo essere amici?”.
Capisce, pensa George, deliziato. “Ma due persone giovani possono essere amiche, no?”.
“Questa è un’altra cosa ancora. Certo che possono, si usa così. Ma c’è sempre ‘sta storia della competizione che mette il bastone fra le ruote. I giovani sono quasi sempre in competizione tra loro, lo sa?”.
“Sì, mi pare di sì. A meno che non siano innamorati, però”.
“Forse anche in quel caso. Forse è questo che non funziona tra…”. Kenny si interrompe bruscamente. George lo osserva, aspettandosi qualche confidenza su Lois. Che però non arriva, perché Kenny sta palesemente seguendo altri pensieri. Se ne sta seduto sorridendo in silenzio per qualche momento e – sì è così – arrossisce! “Sembrerà di una melensaggine infernale, ma…”
“Non ti preoccupare. Continua”.
“Certe volte vorrei… cioè, quando uno legge quei romanzi vittoriani… avrei odiato vivere a quei tempi, eccetto che per una cosa… Oh, all’inferno – non lo posso dire!”. Si interrompe, tutto rosso, ridendo.
“Non fare lo stupido!”
“Se lo dico suona così insulso, è la fine! Ma … mi sarebbe piaciuto vivere quando si dava del lei al proprio padre”.
“Tuo padre è vivo?”
“Certo”
“E allora perché non gli dai del lei? Qualcuno che lo fa c’è ancora”.
“Con mio padre non si può. Non è il tipo. Per di più, non c’è. Ci ha piantato, un paio di anni fa… Che cavolo!”.
“Che succede?”.
“Perché diavolo le racconto tutto questo? Sono ubriaco o che?”
“Non più di me”.
“Devo essere fatto”.
“Ascolta, se ti dà fastidio dimentica di avermelo detto”.
“Non ci riuscirò”.
“Oh sì, lo farai. Se ti dico di dimenticare dimenticherai”.
“Davvero?”.
“Ci puoi scommettere”.
“Bene, se lo dice lei, ok”.
“Ok, professore”.
“Ok, professore!”. Kenny è improvvisamente radioso. Si sente così soddisfatto da provarne quasi imbarazzo. “Ecco, vede, quando sono arrivato qui… cioè, da quando mi sono messo in testa che prima o poi l’avrei beccata, stasera… ho pensato di chiederle una cosa… una cosa che mi ricordo molto bene…”.
Butta giù il resto del bicchiere con una lunga sorsata.
“Riguarda l’esperienza. Continuano a ripeterci che quando saremo più grandi avremo esperienza, come se fosse chissà quale conquista. Lei cosa ne pensa, professore? L’esperienza serve davvero?”.
“Che tipo di esperienza?”.
“Be’, posti in cui si è stati, gente che si è incontrata. Situazioni già vissute, così che quando si ripresentano sai come affrontarle. Tutte quelle scemenze che con gli anni dovrebbero farti diventare saggio”.
“Lascia che ti dica una cosa, Kenny. Non posso parlare per gli altri, ma per quel che mi riguarda nulla mi ha fatto diventare saggio. Certo, siccome alcune cose mi sono già capitate, quando si ripresentano mi dico: ci risiamo. Ma non mi pare di nessun aiuto. Secondo me, io semmai sono diventato più stupido, anzi divento sempre più stupido: è un fatto”.
“Senza scherzi, professore. Non dice sul serio, vero? Non si sente più stupido di quando era giovane?”.
“Molto, ma molto più stupido”.
“Che mi pigli un colpo… Allora l’esperienza è inutile? Che uno ce l’abbia oppure no non cambia nulla?”.
“No, non sto dicendo questo. Dico solo che uno non se ne fa niente. Ma se non ci prova nemmeno… se si limita a saper che esiste, e che la si possiede… allora può essere meravigliosa…”.
“Andiamo a fare una nuotata” dice Kenny come se all’improvviso la conversazione lo avesse annoiato.
“Va bene”.
Kenny getta la testa all’indietro e scoppia in una risata selvaggia. “Oh… è mostruoso!”
“Che cosa è mostruoso?”
“Era un test. Quando diceva di essere stupido pensavo che bluffasse, così ho pensato, voglio fargli una proposta pazzesca, e se non accetta… anche solo se esita… saprò che era un bluff. Non si offende se glielo dico, vero professore?”.
“Perché dovrei?”.
“Oh, è mostruoso!”.
“Be’, visto che non bluffavo… che aspettiamo? O stavi bluffando tu, adesso?”.
“Cristo, no!”
Si alzano, pagano, scappano fuori, attraversano la superstrada; Kenny volteggia sul parapetto e piomba sulla spiaggia, due metri e mezzo più sotto. Nel frattempo anche George, un po’ rigido, scavalca il parapetto. Kenny guarda in su, il viso ancora illuminato dai lampioni stradali: “Professore, mi metta i piedi sulle spalle”. George esegue, con la confidenza dell’ubriaco , e Kenny, agile come un ballerino, lo afferra alle caviglie e ai polpacci e lo deposita in un baleno sulla sabbia. Durante la discesa i loro corpi si strofinano l’uno contro l’altro, per un attimo ma violentemente. Il circuito del dialogo è rotto. La relazione fra di loro, qualunque essa sia, non è più simbolica.
Si voltano e cominciano a correre verso l’oceano (…). Brano tratto dal romanzo Un uomo solo [titolo originale – A single man] Traduzione di Dario Villa, Adelphi Edizioni , Milano, 2009. Christopher Isherwood, scrittore inglese nato nel Cheshire nel 1904 e deceduto in California nel 1986, autore tra l’altro di Addio a Berlino, Un uomo solo, Ritorno all’inferno, Il mio guru, Leone e ombre e Ritorno al fiume.
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