IN PRIMAVERA SI LAVORA MALE Brano tratto dal racconto Tonio Kroger Thomas Mann
(…) “Disturbo?” chiese Tonio Kroger sulla soglia dello studio. Teneva il cappello in mano e, anzi faceva un leggero inchino, benché Elisaveta Ivanovna fosse la sua amica e a lei dicesse tutto.
“Risparmiatemi, ve ne prego, Tonio Kroger, ed entrate senza cerimonie!” ella rispose con la sua inflessione gorgheggiante. “E’ risaputo che siete stato allevato bene e che conoscete le buone usanze.” Parlando, aveva infilato il pennello nella tavolozza che reggeva con la mano sinistra e, porgendogli la destra, lo guardava in viso ridendo e scotendo il capo.
“Sì, ma voi lavorate” egli disse. “Fate vedere… oh, ormai siete a buon punto.” E osservava volta a volta gli schizzi a colori appoggiati sulle sedie ai due lati del cavalletto e la grande tela, recante un quadrato di linee intersecantisi, sulla quale le prime macchie di colore incominciavano ad apparire nel confuso e schematico abbozzo a carboncino.
Erano in una strada laterale della Schellingstrasse di Monaco, a un’altezza di parecchi piani. Fuori, al di là dell’ampia finestra posta a settentrione, regnavano il cielo azzurro, il cinguettio degli uccelli, il sole splendido; e il soffio giovane e dolce della primavera, che entrava nella stanza attraverso lo sportello aperto, si mescolava all’odor di vernice e di colori ad olio di cui era saturo il grande locale. La luce dorata del chiaro pomeriggio inondava liberamente la spaziosa nudità dello studio, illuminava schietta il pavimento un po’ malandato, il tavolo grezzo sotto la finestra, ingombro di boccette tubetti pennelli, i bozzetti senza cornice che pendevano alle pareti prive di tappezzeria; illuminava il paravento di seta lacera che, vicino alla porta, delimitava un cantuccio ammobiliato con gusto, fatto per i momenti di riposo; illuminava sul cavalletto l’opera nascente e, dinanzi ad essa, la pittrice e il poeta.
Ella era all’incirca della stessa età di lui, e cioè un poco oltre la trentina. Chiusa nel grembiale blu scuro costellato di macchie, stava seduta su di un basso sgabello, col mento appoggiato alla mano. I capelli castani, crespi e già lievemente brizzolati sui lati, le scendevano in leggere ondulazioni sopra le tempie, incorniciando il visetto bruno, oltremodo simpatico nel suo tipo slavo, dal nasino camuso, dagli zigomi fortemente sporgenti, dai piccoli occhi neri e lucidi. Intenta, diffidente e curiosa ad un tempo, osservava il proprio lavoro di scorcio, socchiudendo gli occhi.
Egli le stava accanto in piedi, la mano destra appoggiata sul fianco, mentre con la sinistra si tormentava i baffi scuri. Una contrazione cupa e faticosa agitava le sue sopracciglia oblique e, come di consueto, un lieve zufolio gli usciva dalle labbra. Singolare accuratezza e solida semplicità trasparivano dal suo abito d’un tranquillo color grigio e dal taglio severo. Ma sulla fronte tormentata, sotto i capelli neri divisi con così discreta naturalezza, balenava un nervoso sussultare, e i lineamenti del viso dal taglio meridionale apparivano già profondamente marcati, quasi rintracciati e incisi da un duro bulino; invece la bocca era sempre disegnata con dolcezza, il mento sempre molle … Dopo pochi istanti egli si passò la mano sugli occhi e sulla fronte, e poi volse altrove lo sguardo.
“Non sarei dovuto venire qui” disse.
“E perché, Tonio Kroger?”
“Mi sono appena alzato dal mio tavolo da lavoro, Lisaveta, e quello che c’è nella mia testa somiglia esattamente a questa tela. Un canovaccio, un pallido abbozzo imbrattato di correzioni, qualche macchia di colore, no? E ora eccomi qui, e vedo la stessa cosa. E lo stesso conflitto, lo stesso contrasto ritrovo qui” continuò, annusando l’aria “che mi tormentava nella mia camera. E’ strano. Se un pensiero ti domina, lo trovi espresso dappertutto, ne senti perfino l’odore nel vento, nella vernice, nel profumo della primavera: no? Arte e … già, qual è l’altro termine? Non dite “natura”, Lisaveta; la natura non snerva. Ah, no, miglior consiglio sarebbe stato d’andarmene a passeggio, anche se poi resterebbe da vedersi se me ne sarei trovato meglio! Cinque minuti fa, a poca distanza da qui, ho incontrato un collega, Adalberto, il novelliere. “Dio maledica la primavera!” ha esclamato, nel suo stile aggressivo. “E’ veramente la più atroce delle stagioni. Ditemi un po’, Kroger, come riuscite a formulare un pensiero coerente, come potete trovar la calma necessaria a mettere a punto un accento, un effetto, quando un indecente formicolio vi attraversa il sangue e siete disturbato da una folla di sensazioni fuor di luogo, che, appena esaminate, vi si rivelano subito come vergognosamente triviali e totalmente inservibili? Per mio conto, me ne vado al caffè. Quello è terreno neutro, non vi pare? Inaccessibile al volgere delle stagioni; quello rappresenta, per così dire, la sfera trascendente, elevata, della letteratura; lì non siete capace che di lecite fantasie …” E se n’è andato al caffè; e forse avrei dovuto seguirlo.”
Lisaveta si divertiva.
“Bene, Tonio Kroger. Bene in particolare per l’indecente formicolio”. Sì, in un certo senso ha ragione: la primavera non è precisamente la stagione più indicata per lavorare. Ma ora state attento. Ora io, ciò nonostante, finisco ancora questa cosetta, metto a punto questo tono o effetto, come direbbe Adalberto. Poi ci ritiriamo nel “salottino” a prendere il tè, e voi direte tutto quello che avete da dire; poiché oggi avete gran bisogno di scaricarvi, lo vedo bene. Per adesso, posatevi dove meglio vi pare, magari su quella cassa, se non temete per i vostri aristocratici indumenti …”
“Ah, ma smettetela coi miei indumenti, Lisaveta Ivanovna! Vorreste che andassi attorno con una giubba di velluto a pezzi o con un gilè di seta rossa? Un artista è sempre un avventuriero, nel suo intimo. Almeno esteriormente, diavolo, bisogna che vesta bene e si comporti come una persona ammodo … No, non ho bisogno di scaricarmi” proseguì, guardandola preparare una miscela sulla tavolozza, “ ve l’ho detto, è soltanto un problema, un contrasto, quello che occupa il mio pensiero e che disturbava il mio lavoro … Già, di che parlavamo poco fa? Di Adalberto il novelliere, e dicevo che sorta di uomo sia, sdegnoso e fermo. “ La primavera è la più atroce delle stagioni”, m’ha detto, e se n’è andato al caffè. Infatti, è necessario sapere quel che si vuole, non vi sembra? Vedete, anch’io sento sui nervi l’effetto della primavera, anch’io sono sconvolto dalla soave trivialità dei ricordi e delle sensazioni che essa risveglia; solo, non riesco a vincermi sino al punto d’ingiuriarla e di vilipenderla; perché sta il fatto che provo vergogna di lei, vergogna della sua schietta naturalezza, della sua gioventù vittoriosa. E non so se debba invidiare Adalberto oppure compatirlo di non capacitarsi di tutto ciò …
“In primavera si lavora male, certamente; e perché? Perché si è aperti alle sensazioni. E perché solo gli imbrattacarte possono credere che colui che crea debba “sentire”. Ogni vero e sincero artista sorride di così madornale cantonata: tristemente, forse, ma ne sorride. Perché quello che si dice non può mai, in nessun caso, essere la cosa più importante, bensì null’altro che la materia, indifferente di per sé, dalla quale si deve ricavare, in un composto dominio di giuoco, l’immagine estetica. Se quello che avete da dire vi preme troppo, se il vostro cuore palpita con troppo slancio a suo riguardo, allora potete essere certa di un fiasco completo. Cadrete nel patetico, nel sentimentale; qualcosa di pesante, di goffamente serio, di non dominato, non ironico, scipito, noioso, banale uscirà dalle vostre mani, e per concludere non otterrete che indifferenza tra il pubblico e delusione e desolazione in voi stessa … Proprio così, Lisaveta: il sentimento, il caldo e cordiale sentimento è sempre banale, inservibile; soltanto le esacerbazioni, le fredde estasi del nostro corrotto sistema nervoso di “artisti” sono valevoli ai fini dell’arte. E’ necessario essere qualcosa di extraumano, d’inumano, è necessario trovarsi, rispetto all’umano, in una situazione stranamente lontana e neutrale, per essere in grado e anzi solo per sentirsi tentati di farne oggetto di rappresentazione, di giuoco, per raffigurarlo con gusto e con efficacia. Il dono dello stile, della forma, dell’espressione ha già come presupposto cotesto atteggiamento freddo e schifiltoso verso l’umano, più ancora, un tal quale immiserimento e svuotamento di umanità. Il sano e gagliardo sentimento (su questo non c’è dubbio) è privo di gusto. Appena diventa uomo ed accessibile al sentimento, l’artista è finito. E Adalberto, che lo capiva bene, per questo è andato al caffè, nella “sfera del trascendente”: proprio per questo !”
“Be’, Dio l’accompagni, batiuscka” disse Lisaveta, lavandosi le mani in una bacinella di latta, “non avete nessun bisogno di seguirlo:”
“No, Lisaveta, non lo seguo, ma unicamente perché di tanto in tanto mi succede di vergognarmi un po’, di fronte alla primavera, della mia qualità di artista. Vedete, talvolta mi arrivano lettere di estranei, scritti di lode e di ringraziamento da parte del mio pubblico, missive ammirate di lettori entusiasti. Leggo queste missive, e una commozione m’invade al cospetto dei fervidi e maldestri sentimenti umani che la mia arte ha saputo destare; una specie di commiserazione mi prende di fronte all’ingenuità appassionata che si esprime in quelle righe, e arrossisco pensando al disinganno che quegli uomini dabbene proverebbero se potessero gettare uno sguardo dietro le quinte, se la loro innocenza potesse mai concepire che una persona sana e ammodo no scrive, né recita, né compone … benché tutto ciò non vieti che della loro ammirazione verso il mio ingegno io mi valga per sollevarmi, per stimolarmi; che la prenda terribilmente sul serio, col sussiego della scimmia che giuoca al grand’uomo … Oh, non interrompetemi, Lisaveta! Ve l’assicuro, spesso mi sento mortalmente stanco di rappresentare l’umano senza prendervi parte … C’è da chiedersi se l’artista, in fondo, sia un uomo. Si provi un po’ a domandarlo alla “femmina”! Ho l’impressione che noi artisti siamo tutti un poco partecipi della sorte di quei cantori papali “preparati” … Il nostro canto è di una dolcezza commovente. Però …”
“Dovreste vergognarvi un pochino, Tonio Kroger. Venite a prendere il tè, ora. L’acqua sta per bollire, ed eccovi una papirossa. Vi eravate fermato al cantar da soprano; continuate adesso. Ma, ripeto, dovreste vergognarvi. Se non sapessi con che orgoglioso fervore servite la vostra vocazio-ne …”
“Non parlate di vocazione, Lisaveta Ivanovna! La letteratura non è affatto vocazione; è una maledizione … perché lo sappiate. E quando principia a farsi sentire questa maledizione? Presto, terribilmente presto. A un’epoca in cui si potrebbe ragionevolmente pretendere di vivere d’amore e d’accordo con Dio e con il mondo, uno comincia a sentirsi segnato, a rendersi conto d’essere in incomprensibile contrasto con gli altri, con i normali, con la gente ordinaria; sempre più a fondo si scava l’abisso d’ironia, d’incredulità, d’opposizione, di lucidità, di sensibilità, che lo separa dagli uomini; la solitudine lo inghiotte, e da quel momento non c’è più possibilità d’intesa. Che destino! Ammesso che nel cuore gli sia rimasto quel tanto di vita, quel tanto d’amore che basti a giudicarlo orribile! … La vostra consapevolezza si infiamma, perché in mezzo ad una massa di migliaia voi sentite che un marchio vi sta impresso in fronte, e capite che a nessuno passa inosservato. Ho conosciuto un attore di genio, che nei suoi rapporti umani doveva lottare contro un morboso senso di timidezza, d’incapacità. Questo era il prodotto del suo esasperato sentimento di sé, insieme alla mancanza di una parte da sostenere, di un compito rappresentativo … Un artista, un vero artista – non uno che abbia l’arte per professione borghese, ma per cui l’arte sia predestinazione e condanna – è distinguibile tra una folla umana allo sguardo meno esperto. Il sentimento di essere a parte, di non fare un tutt’uno con gli altri, d’essere riconosciuto e osservato, qualcosa di regale e d’impacciato insieme gli sta dipinto in viso. Alcunché di simile potrebbe cogliersi nei tratti di un principe che passi in abiti borghesi attraverso la moltitudine. Non c’è abito borghese che tenga, Lisaveta! Uno può mascherarsi, camuffarsi finché vuole, vestirsi come un addetto d’ Ambasciata o un sottotenente della Guardia in permesso: basterà che alzi gli occhi, che debba pronunciare una parola, perché ciascuno sappia che quello non è un uomo, bensì qualcosa di straniero, di scostante, di diverso … (…) Brano tratto dalla raccolta La morte a Venezia – Tristano – Tonio Kroger – Thomas Mann – Traduzione Emilio Castellani, Arnoldo Mondadori Editore 2009, La morte a Venezia titolo originale: Der Tod in Venedig – prima edizione Classici contemporanei stranieri dicembre 1955 – Tristano – Tonio Kroger titoli originali: Tristan – Tonio Kroger – prima edizione Classici contemporanei stranieri, gennaio 1953. Thomas Mann
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