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Sagarana SGOMENTO


Nei Duclós


SGOMENTO



Il cadavere sembrava un grande pesce che fluttuava a pochi centimetri dalla superficie, a pancia in giù, le braccia distese, con i capelli irretiti di alghe. Il vestito blu oscillava al sapore delle piccole onde, segni del recente passaggio di una barca che aveva confuso rapidamente il fiume. Era ancora possibile sentire la barca mentre veniva ingoiata dalla foresta, che più avanti formava un arco sull’acqua e creava un tunnel per chi si avventurava sino a lì. Già immaginavo lo stupore di chi arrivava per la prima volta in quei luoghi, ma non riuscivo a immaginare, nella finestra che cercavo di aprire nella mia mente, nessun tipo di persona in grado di gettare qualcuno per affogarlo (o per ucciderlo con un proiettile) mentre proseguiva nel suo viaggio.

Il fiume si trova dietro agli alberi che delimitano il lago dove mi trovavo. Il corpo aveva interrotto una mia frase, elaborata prima di raccogliermi nella caverna dove avevo costruito il mio accampamento. Le grandi pietre lisce che circondavano quel luogo nascosto dove mi ero cacciato negli ultimi mesi, fuggendo da una serie di grattacapi, erano già opache in questo momento dell’imbrunire. Non mostravano più il luccichio del mezzogiorno, l’unico momento in cui tutto sembrava più chiaro, concessione della grande coppa di alberi che occupavano l’orizzonte in tutti i punti cardinali. Fu la paura che mi prese per mano fino al luogo in cui si trovava la persona chinata sulla sua morte. A poco a poco sarebbe diventato tutto buio ed io sarei stato accompagnato dalla presenza di qualcuno che forse aveva tentato di fuggire, ma che era stato raggiunto prima di trovare rifugio.

Camminai sul pelo dell’acqua, con la paura di scivolare giù verso il fondo, cosa che mi capitava spesso prima di appropriarmi definitivamente di questo terreno occulto. Chi passa per il fiume non sa che esiste un estuario in parte ricoperto di ninfee e altre piante di cui non seppi mai il nome. Affiorano alcuni circoli d’acqua, ugualmente pieni di foglioline e fiori, che vengono morsicchiate ad ogni ora da pesci sconosciuti. Sul bordo, tra la grossa pietra e il primo ciuffo di piante sull’acqua, c’è un vano dove conto i colori dell’arcobaleno del sole che se ne va quando le nuvole rosse non compaiono, gigantesche, per spaventarmi. Fu in uno di questi tardi pomeriggi che la persona morta fluttuò tra il terreno e la superficie, con la guance gonfie, i capelli come la Medusa, attorcigliati e in piedi.

I suoi grandi occhi sbarrati non erano ancora stati mangiati dai pesci. Chi lo sa, magari le creature del fiume in quel luogo nascosto erano tutte vegetariane e risparmiavano il vetro degli occhi di chi se ne era andato. Smisi di filosofeggiare perché avevo bisogno di portare il tizio a riva, dal momento che sarebbe potuto essere vivo e, comunque, non lo avrei lasciato sotto l’acqua per attrarre piranha e coccodrilli. Anche se, nel momento in cui misi quell’animale sopra una grande pietra, di cui occupava una vasta parte, mi accorsi che avrebbe potuto attrarre dei giaguari. Non avevo mai visto un predatore in quei luoghi. Ma le mie paure erano anteriori all’evidenza che mi trovavo in un angolo della foresta senza nessuna relazione con ciò che conosciamo come selva. Sarebbe potuta essere persino frutto della mia immaginazione, se non fosse stato per il dolore che sentivo nelle articolazioni, frutto dell’umidità della caverna e del lago, la poca vista, i capelli scarsi e bianchi, le braccia cadute e le gambe che si rifiutano sempre di fare qualsiasi sforzo.

Il luogo esistiva per il dolore che sentivo e anche per l’isolamento, cosa che mi preservava da qualsiasi contestazione. Non c’era nessuno che potesse sorprendersi del fatto che nel fiume non ci fossero piranha, che le bestie feroci non mi accerchiassero. Non c’era nemmeno il rumore di una moto-sega, solamente i plic delle gocce di pioggia, alcuni passeri dal piumaggio comune e dal canto sgraziato, e una rete enigmatica di cicale, che si manifestavano alle ore più improbabili della giornata, specialmente quando decidevo di schiacchiare un pisolino per digerire i granchi vivi cacciati con la mia mano incerta e che abbondavano ovunque.

Dopo avere spinto l’uomo per le ascelle e averlo trascinato su una pietra (il terreno di pietra era sempre un conforto, dato che mi risparmiava dall’argilla, comune su quelle sponde) andai a riposare nella caverna. Non mi importava più nulla. La paura era stata sostituita dalla stanchezza, la curiosità dall’incubo. Sognavo sempre la stessa cosa: mi trovavo in un ristorante, in una specie di centro commerciale, che si affacciava su un’area esterna, un parcheggio, quando arrivava a tutta velocità un’automobile con alcune persone in panico e urlanti. Stanno uccidendo tutti, qui intorno, gridavano, e non serve a niente fuggire. Uccidono per qualsiasi cosa, chiunque. Io cercavo di saltare su un tavolo e scomparire. Prendevo un’auto piena di gente, ma mi fermavo alla prima curva: la grande quantità di assassini stava facendo il suo servizio e noi eravamo i prossimi. Non chiedevo il motivo del massacro. Questo già lo sapevo. Quello che volevo sapere era altro: chi era con me? Chi ero io in quel sogno orrendo?

Dormii profondamente dopo aver chiuso la caverna con la mia parete di bambù che avevo raccolto ai bordi della foresta. C’era la luna e la luce entrava a freccie che si depositavano sul mio dorso. Ero girato verso il fondo della caverna e mi immaginavo di essere bombardato dalla luna, come se il corpo, dopo essere stato gettato nel fiume, venisse raggiunto dai proiettili di una pistola automatica. Non avevo sentito spari, quindi il tizio doveva essere già morto nel fondo della barchetta prima di essere dispensato dalla forza bruta.

Raccolsi le gambe e misi le mani sulla testa fino a dormire e ad essere svegliato, nel sonno, dall’incubo che mi perseguitava. In quello svegliarsi assopito in piena alba, durante la quale non ero realmente sveglio, vidi il viso di un gorilla che si trasformava in una maschera di ferro. Solo dopo che la maschera cominciò a brillare, riuscii a dormire profondamente per alcune ore. Il sole che mi svegliò il giorno seguente aveva la tenerezza delle primavere imperfette che ci sorprende durante l’adolescenza, quando tutto è sbagliato.

Aprii la caverna gettando la porta di bambù a terra e cominciai a camminare fino a ritrovare il mio corpo. Ciò che vidi non era niente di buono. Mi vidi avvicinarmi a me per palparmi. Mi vidi mentre aprivo a forza le palpebre, dal momento che i miei occhi erano stati coperti dalle tende delle membrane. Vidi come mi spaventai vedendo che io ero definitivamente morto, vittima di una persecuzione, una faccenda personale, un fraintendimento. E che mi avevano portato lì perchè nessuno mi trovasse.

Non scommettevano nemmeno che io mi sarei trovato, in quel lago senza senso, nel bel mezzo di una foresta chiusa dai miei timori, pronto ad aspettare che qualche barca decente venisse a riscattarmi e a portarmi indietro verso il luogo in cui vivevo, come un cittadino comune pieno di sogni, che un giorno sente forte bussare alla porta e le urla di qualcuno che ti avvisano che una gran folla si sta avvicinando, armata di bastoni.

 
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In lingua originale:

 
ASSOMBRO
 
Nei Duclós
 

O cadáver parecia um grande peixe boiando a poucos centímetros da superfície, de bruços, os braços estendidos, com os cabelos enredados em algas. A roupa azul sacudia ao sabor das pequenas ondas, rastros da passagem recente de um barco que tinha atordoado rapidamente o rio. Era possível ainda ouvir o barco sendo engolido pela mata, que faz, mais adiante, um arco sobre a água e cria um túnel para quem se aventura por ali. Já adivinhava o estupor de quem chegasse pela primeira vez naquelas paragens, mas não conseguia compor, na janela que forçava abrir na mente, qualquer tipo de gente capaz de jogar uma pessoa para se afogar (ou ser despachado de tiro) enquanto segue viagem.

O rio fica atrás das árvores que limitam o lago onde me encontrava. O corpo interrompera a frase elaborada antes de me recolher à caverna onde fiz meu acampamento. As grandes pedras lisas que circundavam aquele endereço escuro onde tinha me metido nos últimos meses, fugido de uma série de brigas, estavam já opacas nesse momento do entardecer. Não exibiam mais o brilho do meio-dia, único momento em que tudo parecia mais claro, permitido pela grande copa das árvores que tomavam conta do horizonte em todos os pontos cardeais. Foi o medo que me levou pela mão até onde estava a pessoa debruçada sobre a própria morte. Aos poucos, tudo estaria escuro, e eu seria acompanhado pela presença de alguém que talvez tivesse também tentado fugir, mas foi alcançado antes de encontrar refúgio.

Pisei na beira d´água com medo de escorregar para o fundo, coisa que costumava acontecer antes de me apropriar definitivamente desse terreno oculto. Quem passa pelo rio não sabe que existe um estuário recoberto, em parte, por aguapés e outras plantas sobre as quais nunca sei o nome. Afloram alguns círculos de água, assim mesmo cheios de pequenas folhas e flores, que a toda hora são ciscadas por peixes desconhecidos. Na beira, entre a pedrona e o primeiro tufo de plantas sobre a água, há esse vão onde conto as cores do arco-íris do sol que se vai quando as nuvens roxas não aparecem, gigantescas, para me assustar. Foi nesse tipo de tardinha que a pessoa morta boiou entre o chão e a superfície, com as bochechas infladas, os cabelos como Medusa, retorcidos e em pé.

Seus grandes olhos esbugalhados ainda não tinham sido comidos pelos peixes. Vai ver, as criaturas do rio naquele espaço escondido eram todos vegetarianos e dispensavam o vidro dos olhos de quem partiu. Parei de sofismar porque precisava trazer o bruto para o seco, já que poderia até estar vivo, ou então eu não o deixaria embaixo d´água para atrair piranhas ou jacarés. Se bem que ao colocar o bicho na grande pedra, quando ocupou vasta massa de território, é que eu vi o quanto aquilo tudo atrairia onças. Nunca tinha visto nada predador por aquelas bandas. Mas meus medos eram anteriores às evidências de que me encontrava num pedaço de mato sem nenhuma relação com o que conhecemos como selva. Poderia até ser arte da minha imaginação, não fosse a dor que eu sentia nas articulações, fruto da umidade da caverna e do lago, a pouca visão, os cabelos escassos e brancos, os braços caídos e as pernas sempre se recusando a qualquer esforço.

O lugar existia pela dor que sentia e também pelo isolamento, o que me preservava de qualquer contestação. Não havia ninguém para estranhar que no rio não houvesse piranhas, que as feras não me rondassem. Não havia nem barulho de moto-serra, apenas os plics dos pingos de chuva, alguns pássaros de plumagem comum e canto insosso, e uma rede enigmática de cigarras, que se manifestavam em horas impróprias do dia, especialmente quando decidia tirar minha sesta para digerir os caranguejos vivos caçados por minha mão trôpega e que abundavam por toda a parte.

Depois de puxar o sujeito pelos sovacos e o arrastar pedra acima (o chão de pedra era sempre um conforto, pois me poupava do barro que pudesse haver numa margem mais tradicional) fui descansar na caverna. Não me importava mais nada. O medo tinha sido substituído pelo cansaço, a curiosidade pelo pesadelo. Sempre sonhava a mesma coisa: estava num restaurante, numa espécie de shopping, que dava para uma área externa, um estacionamento, quando chegava a toda velocidade um carro com algumas pessoas em pânico e aos berros. Estão matando todo mundo aqui perto, gritavam, e não adianta fugir. Eles matam por qualquer coisa, qualquer um. Eu tentava pular em cima da mesa e sumir do mapa. Pegava um carro cheio de gente, mas parava na primeira curva: a multidão de assassinos  estava fazendo o serviço e nós éramos os próximos. Não perguntava o motivo do massacre. Isso eu já sabia. O que eu queria saber era outra coisa: quem estava comigo? Quem era eu naquele sonho horrendo?

Dormi pesadamente depois de fechar a caverna com minha parede de taquaras que tinha colhido na beira do mato. Havia lua e a luz entrava em flechas que se depositavam no meu dorso. Estava virado para o fundo da caverna e podia me imaginar sendo bombardeado pela lua, como talvez o corpo, ao ser jogado no rio, sendo atingido por balas de uma automática. Não tinha ouvido estampidos, então o cara já devia estar morto no fundo do bote antes de ser dispensado pela força bruta.

Encolhi as pernas e pus as mãos na cabeça até dormir e acordar, no sono, do pesadelo que me perseguia. Lá nesse acordar sombrio em plena madrugada, em que não estava realmente desperto, via a cara de um gorila que se transformava numa máscara de ferro. Só depois da máscara brilhar conseguia dormir profundamente por algumas horas. O sol que me acordou no dia seguinte tinha a mornidão das primaveras imperfeitas que nos assombra na adolescência, quando tudo dá errado.

Abri a caverna jogando a porta de taquaras no chão e fui andando até achar o corpo. O que vi não foi nada bom. Eu me vi chegando perto de mim para me apalpar. Me vi abrindo à força minhas pálpebras, já que meus olhos tinham sido cobertos pela cortina das membranas. Vi como fiquei assustado vendo que eu estava definitivamente morto, vítima de uma perseguição, uma briga pessoal, um mal entendido. E que tinham me atirado ali para ninguém nunca me achar.

Não apostavam que eu mesmo me acharia, naquele lago sem sentido, em plena mata fechada de meus temores, pronto para esperar que algum barco decente viesse me resgatar e me levar de volta para o lugar onde vivi, como um cidadão comum cheio de sonhos, que um dia ouve fortes batidas na porta e os berros de alguém avisando que a multidão se aproxima, armada de porrete.







Traduzione dal Portoghese di Michela Bennici.




Nei Duclós

Nei Duclós è nato nel 1949 a Uruguaiana (Rio Grande do Sul, Brasile). Giornalista dal 1970, è autore di tre libri di poesia (Outubro, 1975, No meio da rua, 1979, e No mar, Veremos, 2001) e di un romanzo (Universo Baldio, 2004). Attualmente risiede a Florianópolis, dove collabora con la rivista “Empreendedor” e con il quotidiano “Diário Catarinense”.





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