ZIA MAME E L’ORFANELLO Patrick Dennis (…) La porta dell’ascensore si aprì, ci lasciò uscire, e si richiuse alle nostre spalle. Eravamo soli. “Maria Vergine, l’antro del demonio!” esclamò Norah.
In effetti, ci trovavamo in un ingresso con le pareti nere come la pece. L’unico lume proveniva dagli occhi gialli di un bizzarro idolo pagano con due teste e otto braccia, appoggiato su un piedistallo di tek. Di fronte a noi c’era una porta rosso lacca. Non sembrava la casa di una signora spagnola. Anzi, non sembrava proprio una casa. Anche se avevo ormai dieci anni, mi aggrappai alla mano di Norah. “Oh Dio, è come il gabinetto delle signore all’Oriental Theater, vero o no?” gemette lei. Subito dopo si attaccò al campanello, e quando la porta si aprì non riuscì a trattenere un gridolino: “Dio mio, un cinese!”
Sulla soglia era apparso un minuscolo domestico giapponese, poco più alto di me, che ci guardava sorridendo. “Cosa volete?”. Norah rispose in un bisbiglio sottomesso: “Ecco, io sarei la signorina, anzi, sono Norah Muldoon, e ho portato il signorino Dennis, che sarebbe lui, da sua zia”. Il giapponesino schizzò indietro come un piccolo automa. “Forse errore. Bambino non oggi”. “Ma ho spedito io stessa il telegramma per dire che saremmo arrivati oggi, 1° luglio, alle sei” disse Norah con la voce strozzata dall’ansia. “Non importante” rispose il giapponesino facendo spallucce con suprema indifferenza orientale. “Ragazzo qui, casa qui, anche signora qui, però adesso occupata. Non importante. Voi entrate. Aspettate. Io chiamo”. “Secondo te è il caso?” sussurrai a Norah. Gettai un altro sguardo alle pareti e agli occhi gialli dell’idolo, e un’altra stretta alla vecchia manona ruvida che ancora stringevo. Tremava quanto e più della mia. “Voi entrate. Aspettate” ripeté il giapponese con un sorrisetto sinistro. “Entrate” disse ancora. La sua voce aveva qualcosa di ipnotico. Coi piedi pesanti come macigni ci addentrammo in una specie di anticamera. Era quasi l’opposto di quell’ingresso nero, ma faceva ancora più paura. Le pareti erano arancio carico. Un’immensa lanterna giapponese di bronzo lasciava filtrare, da dietro i fogli di pergamena gialla, una luce livida. Ai due lati dell’anticamera si aprivano grandi archi, chiusi da alti paraventi di carta. E dietro i paraventi, un sacco di persone faceva un sacco di chiasso. Il giapponese ci indicò con un cenno una lunga panca molto bassa. “Sedete” sibilò. “Io cerco signora. Voi sedete”. Dietro la panca era appeso un enorme arazzo. Raffigurava un giapponese nell’atto di sbudellarsi con una spada da samurai. “Sedete” ripeté il domestico ridacchiando, prima di dileguarsi dietro il paravento. “Paganerie” mormorò Norah. Quindi depose la sua ragguardevole mole sulla panca, in uno scricchiolio di giunture. “Chissà cosa penserebbe il tuo povero papà”. Dietro i paraventi il frastuono crebbe d’intensità, e a un certo punto si sentì un rumore di vetri infranti. Mi avvinghiai a Norah. La nostra conoscenza dei bordelli orientali dipendeva interamente dalla visione di alcuni film, nei quali Hollywood ci aveva spiegato molto bene cosa aspettarci quando l’Occidente incontrava l’Oriente: truci faide tra bande rivali, orrende torture, vergini drogate, vendute e condannate a una vita mille volte peggiore della morte sulle rive del Fiume Azzurro. “Paddy,” esclamò Norah all’improvviso “ci hanno attirato con l’inganno in una fumeria d’oppio, e se non ce ne andiamo ci uccideranno. Dobbiamo assolutamente uscirne, e subito”. Si alzò di scatto trascinando anche me, ma un istante dopo si lasciò cadere di nuovo sulla panca, con un sospiro di rassegnazione. Davanti a noi si era materializzata una bambola giapponese. Aveva i capelli cortissimi, con una frangetta tagliata dritta che arrivava a lambire l’arco, molto accentuato, delle sopracciglia. Il suo abito di seta terminava in un lungo strascico a ricami d’oro. Anche le pantofoline che calzava erano d’oro, e tintinnanti di gioielli. Ai polsi, invece, tintinnavano braccialetti e braccialetti di giada e d’avorio. Le unghie, sicuramente le più lunghe che avessi mai visto erano coperte da un delicato smalto verde acqua. Alle labbra scarlatte era languidamente appoggiato un interminabile bocchino di bambù. Eppure, non so come, quella signora aveva qualcosa di familiare. Guardò Norah e me con un’aria fra il sorpreso e il divertito. “Oh bella, all’agenzia mica me l’avevano detto del ragazzino. Non importa, sembra un bravo ometto. Vorrà dire che se sgarra lo buttiamo nel fiume, giusto?”. Lei rise, ma noi no. Poi si rivolse di nuovo a Norah. “Cosa la aspetta qui penso lo sappia: una blanda schiavitù domestica per sei giorni alla settimana, e il giovedì libero”. Norah la fissava a bocca spalancata.
“Comunque è un po’ in ritardo” continuò la signora orientale. “Avrei preferito che arrivasse in tempo per servire questa marmaglia,” disse con un vago cenno alla fonte di tutto quel baccano “ma non importa. Dato che è venuta così, le troverò qualcosa di adatto da mettersi”. Fece per tornare dalla marmaglia, ma prima di andarsene aggiunse ancora: “Ah sì, adesso chiamo Ito, così vi mostra le vostre stanze. Ito! Ito!”. E, chiamando Ito, uscì di quinta. “Maria Vergine, ma l’hai sentita come si esprime? Che parole! Sembra una di quelle ballerine cinesi, sembra, sai quali. E adesso cosa facciamo, Paddy, cosa?”. Una coppia inquietante attraversò la stanza. L’uomo sembrava una donna, e la donna, gonnone di tweed a parte, era la copia conforme di Ramón Novarro. L’uomo disse: “Avrai saputo che vogliono mandare la povera Miriam al Coast!”. “Be’, per stroncarle la carriera, povera stronza, è la scelta migliore” disse la donna con una risata perfida, prima di eclissarsi dietro il paravento. Norah strabuzzò gli occhi – e anch’io. Ormai il frastuono era quasi assordante. All’improvviso un urlo squarciò l’aria, facendoci sobbalzare. Poi la voce di una signora che gridava come una pazza coprì tutte le altre: “Ahia, Aleck! Dai, adesso basta. Così mi fai morire!”. Qualcuno rise, qualcun altro strillò. Norah mi afferrò il braccio e ci si tenne stretta. Da dietro il paravento spuntarono due uomini, uno dei quali aveva una barba rossiccia. Trascinavano una donna vestita di nero, con la testa che ciondolava all’indietro, gli occhi chiusi, e i capelli – lunghissimi – che strisciavano sul pavimento. Norah deglutì. “Povera Edna” disse uno dei due. “Scusa, povera un corno” disse il barbuto. “È tutto il pomeriggio che glielo ripeto: “Edna, se ti stracanni tutta quella robaccia a pranzo firmi la tua condanna a morte. Alle sette di sera finisci dura come uno stoccafisso”. Ed eccola qui, fra la vita e la morte”. Norah si fece il segno della croce. Seguirono un altro urlo e un’altra risata folle. Il giapponesino schizzò fuori da dietro una tenda e attraversò l’ingresso a tutta birra, con in mano un coltellaccio lungo così. Norah non riuscì a trattenere un gemito. “Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi. Salva questo orfanello e me, non farci finire sgozzati o peggio da quei tagliagole cinesi”. E qui attaccò una litania interminabile quanto sconnessa, nella quale riuscii a distinguere solo poche parole: tratta delle bianche, Shanghai, assassini. La donna-uomo e l’uomo-donna rientrarono da dove erano usciti, attraversando la stanza in direzione opposta rispetto a prima. “… e ovviamente La morte viene per l’arcivescovo” stava dicendo lui. “Stupendo, no? Da brividi!”. “Oh, mio Dio! Questa sentina di vizi non risparmia niente e nessuno”. Di nuovo la pazza di prima: “Aleck, no! Così mi uccidi!” “Ora basta!” gridò Norah, afferrandomi la mano e tirandomi in piedi. “Finché ci resta un briciolo di fiato in corpo, usciamo da questo covo di ladri e di assassini. Meglio morire difendendo la propria virtù che finire venduti come schiavi dai cinesi. Andiamo Paddy, fuggiamo veloci come il vento, e che il buon Dio ci aiuti”. E schizzò verso la porta con un’agilità sorprendente, trascinandomi con sé. “Prego, fermi”. Più che fermi, rimanemmo impietriti. Il giapponesino ci fissava con un sorriso stranito. E con il coltello ancora in mano. “Signora non vi ha trovato?” “Senta, lei, apra bene le orecchie” disse Nora con il coraggio della disperazione. “Questa povera vecchia che le parla è disposta a pagare pur di avere salva la pelle. Anche se non sembra, ho con me qualche soldo. Anzi, tanti soldi. Cinquemila dollari, più i risparmi di tutta una vita. Mi sembrano abbastanza per lasciarci andare, no? In fondo non abbiamo fatto nulla di male”. “Oh, no, così non bene. Adesso chiamo Madame. Madame molto contenta bambino qui” rispose quello con un sorriso imperscrutabile. “Che bassezza” piagnucolò Norah.
La bambola giapponese ricomparve. “Ito,” disse “ti stavo cercando dappertutto. Lei è la nuova cuoca, e dovresti ...” “No signora”. E fece segno di no col ditino. “Nuova cuoca in cucina. Lui bambino che aspettava”. “Ma no! Allora lei è Norah Muldoon!” squittì la signora. “Sisiora” farfugliò Norah, troppo stremata per articolare bene le parole. “Ma scusi, perché non mi ha detto che arrivavate oggi? Non mi sarei neanche sognata di dare una festa!” “Veramente, signora, le ho mandato un telegramma”.
“Sì, ma nel telegramma si diceva che sareste arrivati il 1° luglio, domani. Oggi è solo il 31 giugno…” Norah scosse la testa con aria grave. “Veramente, signora, oggi è il 1° luglio, mannaggia a me”. La signora esplose in una risata argentina: “Su, non facciamoci ridere dietro, lo sanno anche i bambini : “Trenta dì conta novembre, con april, giugno e …”. Oh santo cielo”. Pausa. “Ma caro,” disse con aria melodrammatica “allora io sono tua zia Mame!”. Quindi mi abbracciò, mi baciò, e capii che ero salvo. (…) Brano tratto da Zia Mame, titolo originale Auntie Mame An Irreverent Escapade, a cura di Matteo Codignola, Adelphi editrice, Milano, 2011. Patrick Dennis, pseudonimo maggiormente noto di Edward Everett Tanner III (Evanston, 18 maggio 1921 – New York, 6 novembre 1976), è stato uno scrittore statunitense.
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