IL PESO GIUSTO Brano tratto dal romanzo Il peso della farfalla Erri De Luca
(…) Quando la tempesta smette, lascia la neve accovacciata a chioccia sopra la capanna. La pendola con la voce del cuculo di legno batte i colpi di un pulcino dentro l’uovo. Il cuculo di legno ha la voce di maggio, quella spaesata di un profeta nella città in baldoria.
L’uomo d’inverno deve solo resistere nel guscio. Pensa: nessuna geometria ha ricavato la formula dell’uovo. Per il cerchio, la sfera c’è il pigreco, ma per la figura perfetta della vita non c’è quadratura. Nei mesi con il bianco addosso e intorno, l’uomo diventa visionario. Con il sole nelle palpebre abbagliate la neve si trasforma in frantumi di vetro. Il corpo e l’ombra disegnano l’articolo il. L’uomo sulla montagna è una sillaba nel vocabolario.
Nelle notti di luna il vento muove il bianco e manda le oche sulla neve, un vecchio modo per dire che fuori passeggiano i fantasmi. Li conosce, alla sua età gli assenti sono più numerosi dei rimasti. Alla finestra guarda passare il loro bianco di oca sulla neve notturna.
E’ novembre, davanti a lui l’inverno da venire, immenso da ospitare. Ha avuto il pensiero di scendere a valle quest’anno, svernare in paese. E’ la prima volta che sbuca, tra i passi in salita, il pensiero. L’uomo dà un calcio a una piccola pigna di mugo. Senza di lui la capanna crollerebbe di malinconia.
L’uomo racconta poco. Questo spinge gli altri a completare, ingrandendo i dettagli. Una giornalista si era incaponita nell’idea di seguirlo, di spiarlo. Aveva pagato una guida alpina per farsi condurre sulle sue tracce. L’uomo se li scrollava dai passi facilmente. Dove loro erano costretti a legarsi in cordata, lui saliva in libera, veloce. Allora la giornalista si era dichiarata, avvicinandolo al villaggio dove si riforniva. Gli aveva offerto un compenso. Erano i mesi estivi. L’uomo era stato a sentirla, poi le aveva risposto: “Ci penserò”.
Era disabituato a stare davanti a una donna, gli veniva fastidio al naso per l’odore profumato con cui le donne marcano l’aria. Gli si erano mossi umori nella pancia.
Un uomo che non frequenta donne dimentica che hanno di superiore la volontà. Un uomo non arriva a volere quanto una donna, si distrae, s’interrompe, una donna no. Davanti a lei si trovava incalzato. Se era un guardiacaccia se la sbrigava. Ma una donna è quel filo di ragno steso in un passaggio, che si attacca ai panni e si fa portare. Gli aveva messo addosso i suoi pensieri e non se li scrollava.
Un uomo che non frequenta donne è un uomo senza. Non è un uomo e basta, nient’altro da aggiungere. È un uomo senza. Può dimenticarselo, ma quando si ritrova davanti, lo sa di nuovo.
“Ci penserò”. Era vero, pensava alla donna, alla sua volontà di cavargli una storia, a lui che all’osteria stava a sentire quelle degli altri e alla domanda “E tu?” rispondeva alzando il bicchiere alla salute dei presenti, per inghiottire la risposta. Se insistevano, tirava di tasca la sua armonica a bocca e ci soffiava dentro la musica. Non poteva aggiungere la sua storia alle loro. Di ogni cosa narrata dagli altri, lui aveva fatto peggio. Rischi, disavventure, spietatezze, dai racconti degli altri sapeva di essere il peggiore. Alla donna non poteva rispondere col fiato nell’armonica. Ci pensava.
A sessant’anni il suo corpo era accordato bene, compatto come un pugno. E la donna com’era? Come la mano aperta al gioco della morra cinese, la mano che vince perché si fa carta intorno al sasso e lo avvolge. La donna era la carta in cui finiva chiusa la sua storia. E la terza figura della morra, la forbice? Quella era il camoscio, con le sue corna avrebbe vinto la carta, chissà come.
Ci pensava e rimandava. In quell’autunno si accorse della stanchezza in petto e nelle gambe. Si decise a dirle che era pronto. Si accordarono in paese, lei sarebbe salita alla sua stanza a quota 1900 dove il bosco si dirada prima di smettere. Lì tra le sue cose mute avrebbe provato a rispondere.
La donna controllò col freno in faccia la soddisfazione per la breccia aperta e gli strinse la mano, per accordo. Non era carta il contatto con le dita e il palmo. Era la spudorata intimità mascherata da mossa di saluto. Toccare la mano di una donna, per un uomo senza, è un salto nel sangue. Non ci si dovrebbe toccare, donna e uomo, facendo finta che è tutt’altro. La mossa della donna, era stata lei a cercargli la mano, scavalcò il confine dei corpi, già scambio di amanti per lui.
Si guardò la mano e la mise in tasca insieme all’altra. Si erano accordati, lei sarebbe venuta senza registratore. Sulla via di ritorno strofinò la mano sopra un larice, non per cancellare, invece per conservare sotto resina il contatto. Era per il giorno seguente, al ritorno dal suo giro tra i monti. Era l’ultimo passo dell’autunno, poi sarebbe venuta la neve e il suo magnifico silenzio. Non ce n’è un altro che valga il nome di silenzio, oltre quello della neve sul tetto e sulla terra.
Un ciottolo di fiume gli serve a frantumare la forma rotonda del pane di segala, lo sbriciola nel latte. Con una fetta di formaggio è la cena.
L’inverno è una ganascia intorno alla capanna, a uscire affonda i passi sopra le cime degli alberi. Si va a rifornire di formaggio e latte all’ultimo maso rimasto in quota. C’è da attraversare due canaloni esposti ai carichi di neve pronti al crollo. Ci va di notte, quando il freddo stringe il nodo alle valanghe.
Scende in paese quando rasserena, una volta al mese per caricare lo zaino di patate, cipolle, riso, lenticchie. Fa il giro dei saluti, ascolta i soliti discorsi, i progetti della strada, della teleferica: andrà meglio, e che ne pensi, e non se ne farà niente. Intanto sente se è morto qualcuno e c’è da fare visita.
Aspetta l’uscita dei bambini dalla scuola, il nuovo mondo, le voci continueranno quando la sua armonica sarà ammutolita. La vita senza di lui è già in cammino. Risale che è buio alla capanna, lasciando la traccia dei ramponi sul lastrico del ghiaccio. Il bastone di ciliegio ha una punta di ferro per assaggiare il cammino fa il suono compagno dei passi di un cieco.
Si era pentito di qualcosa, una volta? Quel mattino andava e si allungava a indovinare una domanda della donna. No, e poi non si ripara niente dopo il danno. Si può solo rinunciare a rifarlo. Gli era capitato con gli stambecchi, un tempo ne cacciava. Gli piaceva il carattere di quelle bestie, più affettuoso di quello dei camosci. Nel branco gli stambecchi si scambiano carezze, strusciamenti, si puliscono il pelo tra di loro. Tra figlio e madre c’è un vincolo per la vita e per la morte.
Aveva smesso di cacciare stambecchi, era successo questo. Aveva sparato ad un esemplare nella nebbia senza accorgersi che era femmina e senza vedere il piccolo vicino. La bestia colpita sul ripido aveva cercato di tenersi aggrappata alla roccia piantando zampe incerte, poi era caduta indietro, un salto in giù di buoni venti metri. Il piccolo senza incertezza era saltato nel vuoto della nebbia dietro la madre, ricadendo in piedi. La madre era rotolata di nuovo e precipitata, un salto anche più grande e il piccolo le era ancora volato dietro.
Quando l’uomo raggiunse l’animale ucciso il piccolo era lì, un po’ storto sulle zampe, gli occhi grandi calmi desolati.
Non se l’era sentita di sventrare la bestia lì sul posto davanti al cucciolo, di scaricare a terra i chili delle viscere per risparmiarsi il peso, se l’era caricata intera sulle spalle.
Fu allora che decise il suo titolo di ladro di bestiame, sotto gli occhi del padrone di tutto, grandi calmi desolati. Bisogna guardare in quel paio per sapere di essere stati pesati. Decise che con gli stambecchi la sua caccia era chiusa. Si prendono lezioni dalle bestie. Non servono a riparare niente, solo a smettere.
Non era pentito, non poteva risarcire il torto, poteva rinunciare. I debiti si pagano alla fine, una volta per tutte.
Agli uomini aveva dato il peso giusto. Ripensò al peggio commesso e concluse per una volta ancora: andava fatto. Tornava sul suo peggio per tenerlo fresco, non farlo seccare. Un uomo è quello che ha commesso. Se dimentica è un bicchiere messo alla rovescia, un vuoto chiuso.
Non se ne pentiva, perché non poteva giurarsi mai più. Con gli stambecchi sì, stava certo che non avrebbe più sparato a loro. Con gli uomini il peggio era possibile di nuovo. (…) Brano tratto da Il peso della farfalla, Feltrinelli editrice, Milano, 2009. Erri De Luca
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