LA RITIRATA Brano tratto dal romanzo I falň dell’autunno Irčne Némirovsky (…) Dopo la presa di Dunkerque, dove aveva combattuto con una sorta di selvaggia disperazione, si era diretto verso le dune in testa a quei dieci uomini. Il resto del reggimento era stato fatto prigioniero. Lui e ì suoi compagni avevano vissuto quattro giorni in mezzo alla sabbia, senza viveri e soprattutto senz'acqua; mai, pensava Bernard, avrebbe dimenticato quella sete atroce che la vista del mare esacerbava. Quando stavano per essere raggiunti dai tedeschi, si erano gettati in acqua e avevano nuotato lungo le coste, sotto le bombe, Nell'inimmaginabile confusione del mare dove galleggiavano alla rinfusa casse di viveri dell'esercito inglese, relitti di navi affondate, uomini vivi e uomini morti. Alla fine, avevano raggiunto le linee ancora in mano ai francesi. Ma la notte stessa, attaccati dai carri armati nemici, avevano dovuto scappare, e da quel momento, la ritirata continuava in mezzo alle automobili belghe, olandesi, francesi che cercavano di farsi strada verso il Sud, in mezzo ai bambini che si erano persi, alle donne che partorivano nei fossi, ai delinquenti comuni che circolavano liberamente, ai camion dei ministeri carichi di documenti, alle automobili del governo piene zeppe di fascicoli che volavano via dalle portiere. E cannoni, carretti, carrozzelle per bambini, tandem, carriole, mandrie di vacche, mitragliatrici fasciate di foglie, cavalli stremati, uomini… A volte i civili li insultavano; in una casa dove chiesero da mangiare, gli sfollati che si erano piazzati in cucina gridarono loro che era una vergogna, che i soldati avevano solo quello che si meritavano, perché non si erano difesi. Ma perlopiù la gente li guardava passare con cupa indifferenza. In un paese, sulla porta di una locanda, un ragazzino che giocava nella polvere si alzò, si avvicinò a Bernard e gli domandò arrossendo se voleva un bicchiere di birra. «Mia mamma è la padrona. Ha detto di offrirle da bere perché lei è un soldato, come papà… Di lui non sappiamo niente» concluse il bambino con tristezza. Bernard guardò a lungo il bel ragazzino dagli occhi neri che assomigliava a Yves. O forse era lui a vederlo così? Tutto gli ricordava suo figlio. «La vuole, la birra?» ripeté il bambino, stupito dal silenzio dell'ufficiale. «Sì, ti ringrazio, ho molta sete» rispose finalmente Bernard. Il ragazzino sparì nella locanda e tornò un attimo dopo con una bottiglietta di birra e un bicchiere dal vetro spesso. Bernard bevve, poi tirò fuori di tasca qualche spicciolo, che il bambino rifiutò: «La mamma ha detto che gliela offriva». Bernard rimase da solo, seduto sulla panca, al sole. C'era aria di temporale; in lontananza si sentiva l'incessante brontolio del tuono, che la gente, scambiandolo per il rumore delle cannonate, ascoltava impaurita. I soldati avevano trovato qualcosa da mangiare e vollero dividere con lui un melone e una pagnotta. Ma Bernard aveva un groppo alla gola che non lasciava passare niente. Sgranocchiò un pezzo di pane e lo lasciò sulla panca vicino a lui. Poi si nascose il volto tra le mani e finse di dormire. I compagni rimasero a guardarlo per qualche istante. Un ragazzone con l'aspetto da contadino, che tagliava il pane a fette e se lo portava alla bocca sulla punta di un coltello, si fermò e osservò: «Poveraccio!».
Allora si accorsero che Bernard piangeva; una lacrima rotolò fra le sue dita chiuse. Con delicatezza gli uomini si voltarono da un'altra parte e finsero di scherzare e di ridere per dar tempo al loro ufficiale di riprendersi. Dopo un po' Bernard parve più calmo; si accese la pipa e si immerse in una profonda e amara fantasticheria. Il fiume di automobili continuava a scorrere sulla strada. Si scorgevano volti pallidi, esausti, coperti di polvere. C'erano bambini che dormivano acciambellati sulle valigie. Passò una giardinetta con a bordo dei vecchi (forse gli ospiti di un ospizio evacuato) che sonnecchiavano con la testa appoggiata sui loro fagotti. Passò un'ambulanza, che come gli altri veicoli andava al passo. Passò una piccola Citroën piena di bambini che piangevano: il ragazzino che guidava dimostrava sì e no quindici anni; con loro non c'erano adulti. Poi fu tempo di rimettersi in cammino. I tedeschi si avvicinavano. Marciavano su Parigi, e l'esercito francese fuggiva davanti a loro. Il piccolo gruppo formato da Bernard e dai suoi dieci uomini seguiva anch'esso la strada per Parigi. Alcuni dicevano che ci si apprestava a dare battaglia sulla Senna. «Quale battaglia?» pensava Bernard. «L'abbiamo già combattuta e persa. E la cosa non risale a ieri, né, come crede la gente, all'entrata dei tedeschi in Belgio. La battaglia di Francia è persa da vent'anni». Continuavano a camminare. Scendeva la notte. L'aria aveva un odore mefitico di polvere e di benzina. Bernard camminava e ripeteva sottovoce, come una cantilena: «Persa… Persa… L'abbiamo persa…».
Brano tratto dal romanzo I falň dell’autunno, Adelphi editrice, Milano, 2012. Traduzione di Laura Frausin Guarino. Irčne Némirovsky (Kiev, 11 febbraio 1903 – Auschwitz, 17 agosto 1942) č stata una scrittrice francese. Nata in Ucraina, di religione ebraica convertitasi poi al cattolicesimo nel 1939, ha vissuto e lavorato in Francia. Arrestata dai nazisti, in quanto ebrea, Irčne Némirovsky fu deportata nel luglio del 1942 ad Auschwitz, dove morě un mese piů tardi di tifo. Anche il marito, Michel Epstein, che aveva cercato di farla liberare, verrŕ gasato nel novembre dello stesso anno al suo arrivo ad Auschwitz.
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