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Sagarana NKISI


Brano tratto dal romanzo Il figlio.


Sapphire


NKISI



 

(…) Se ero in anticipo, mi sarei scaldato per la lezione correndo sul binario di sopra, ma come arrivo lumo Imena seduta in un piccolo cerchio con un po’ di studenti. In mezzo al cerchio c’è uno nero-blu coi vestiti africani e tipo una statua. Tutti lo guardano. Io mi avvicino da vedere cosa guardano.

Il tipo sta dicendo: “Nkisi è un oggetto di potere religioso”.

Qualunque cosa che sia è orribile. Sarà alto un po’ più di mezzo metro, tipo statua. Di un… un africano? Ha delle labbra grosse, ma grossissime.

“Dei popoli del Congo.”

È scolpito nel legno e ha tutti dei chiodi piantati dentro!

Queste merde era meglio che se le tenevano in Congo.

Guardo di sopra, il binario che potrei essere sopra che correvo.

Questo povero coso da niente che ha anche dei chiodi in testa! Ha attaccate a penzolone perline e stracci e nel petto sembra come…

“Esatto.” L’africano vede che sto lumando. “È molto vecchio, ma quello che ha nel petto è uno specchio. Io penso che se oggi fosse fabbricato in America nel suo petto ci metteremmo uno schermo della TV, non è così che ci vediamo riflessi in questa cultura? Ma invece è un oggetto d’arte del diciannovesimo secolo.”

Arte? Ti prego! Spero che Imena non paghi questo tizio per venirci a parlare. Ci manca solo… ha già un po’ di gente che viene a lezione gratis. La Bionda dice che lo spray finisce l’effetto in un’ora, la puntura non prima di stasera.

“Quando è stato il diciannovesimo secolo?”, chiede una delle ragazze. Stupida vacca, penso io.

Imena risponde: “Dal 1800 al 1899”, ma la ragazza sembra ancora confusa.

“Difatti, è dell’Ottocento, sono abbastanza sicuro verso la fine dell’Ottocento. Ora sappiamo che gli oggetti in legno hanno una vita molto più lunga di quello che credevamo.

Ma quella che vedete qui non è la scultura originale.

Dalla sua prima creazione ha avuto molte aggiunte. Ogni chiodo è stato piantato da un membro della comunità, o della ‘tribù’, come vi piace chiamarle da queste parti. Perline, pezzettini di nidi di uccelli, piume e frammenti di vestiti, sono stati aggiunti durante il tempo in cui l’oggetto è rimasto presso la tribù. Ogni chiodo piantato, o frammento aggiunto parla di qualche momento della vita del proprietario, o dei proprietari… alcuni di questi oggetti erano di proprietà collettiva.”

“Come parla lo Nkisi?”, chiede Imena.

“Beh, qui in parte dobbiamo affidarci alle congetture.

Però immagino che quello dello Nkisi sia un potere di metamorfosi. Pensate a Gesù sulla croce, alle sue sofferenze per gli uomini. Invece di morire loro per i loro peccati, Gesù è morto per loro. Nkisi assorbiva e trasformava i dolori fisici e morali della tribù. Così quando pativano la fame e le sofferenze e lo spaesamento in conseguenza degli attacchi o degli spostamenti sul territorio dovuti ai mercanti di schiavi, i membri della tribù piantavano un chiodo in Nkisi, perché Nkisi sopportasse quello che era troppo per loro.”

Droga! Droga! Droga! Ci credo, sì! Ma chiedo: “Cosa vuol dire metamorfosi?”. Mrs Washington dice fate le domande, anche se a farle vi sentite stupidi. Se non le fate lo sarete, stupidi! Ah! Ah!

Imena mi risponde: “Metamorfosi vuol dire cambiare da una forma all’altra”.

L’africano sembra tipo che sta preparandosi a piangere.

Abbraccia Imena. “Per me questo corso è stato come un rifugio mentre studiavo con questa gente depravata. Ogni giorno era un genocidio psicologico. Voi qui credete di immaginarvi quelle cose, ma è inimmaginabile quanto ci odiano. Hanno proiettato il loro male su di noi e lo hanno istituzionalizzato. Che cosa esiste di peggio dei bianchi?”

Che cazzo sta dicendo! Io mi sento che la puntura nel mio corpo non diventa più debole, ma più forte. Devo muovermi! Imena ha l’aria tipo che non sa cosa fare… adesso l’afro sta piangendo. Le dà quel coso a lei. “Lascio Nkisi con voi. Significa quello che lo fate significare.” Poi si alza in piedi sopra il coso. “Non può ricevere più veri chiodi, quindi ci pianto un chiodo metaforico.” Alza le mani come se avesse in una il martello e un chiodo nell’altra. “Ho vinto io!” Sbatte giù il martello. “ New York University, tu non mi hai ucciso. Ho vinto!” E picchia e picchia e picchia.

“Questo chiodo è per tutte le stronzate, quattro anni di stronzate e cazzate, più l’internato e la residenza! Nkisi!”

“Bene, ringraziamo Fratello Abubakar e auguriamoli forza nel suo viaggio.” Applaudono tutti tranne me. Io vorrei solo che levasse di qua il suo culo piangione così possiamo ballare. Forse che c’è un ragazzo che ha voglia di vedere uno grande che piange? Guardo Nkisi. Imena guarda me, mi guarda la guancia. Io guardo il pezzo di vetro al centro della creatura, lo specchio. Fa spavento. Sbatto gli occhi guardando lo specchio non più lucido, penso al mio caleidoscopio che gira la figura che cambia. Un’illusione Padre John dice che si creava con degli specchi agli angoli giusti.

Fanculo! Vaffanculo! VA FAN CULO! NYU, e pure Nkisi!

Chissenefrega! Io sono venuto qui per ballare, io. Mi alzo, levo il bomber. Lo appoggio come capita contro al muro, appoggio vicino la borsa dell’ospedale, e come se non fosse successo niente comincio a fare stretching. Alzo l’occhio da terra dove sono allungato in seconda posizione e Imena ancora che mi fissa. Guardo la mia maglietta, schizzata di sangue. Me la levo dalla testa, la appallottolo e la lancio in un angolo col resto delle mie cose. Tanti maschi ballano senza camicia. Imena sta dicendo qualcosa ai percussionisti, dice che tra un minuto cominciamo. Io mi alzo, arrotolo le gambe dei calzoni e mi metto in ultima fila con gli altri maschi.

“Questa danza è per Xango”, dice Imena. Alza il braccio.

“Lui ha l’oshe, la scure a due lame. È l’Orisha del fulmine, della danza e dalla passione.” Ci guarda. “È proprio quello che fa un danzatore. Noi siamo come dei fulmini, dei canali, per Dio. La danza africana non è scalciare con le gambe,la danza africana è spirito!”

Ascolto il ritmo, bah dah dah DAH! E uno e due e tre e QUATTRO! Non mi importa cos’è, lo voglio fare e basta!

Comincio a muovermi sulla pista, i tamburi mi sembrano il mio cuore che batte. C’è uno che ha un lungo strumento a corde, è puro fuoco! La musica è uno sballo, il mio corpo diventa un’orecchia che la ascolta. Il mio corpo non è un estraneo, un traditore imbrogliato da omosex bianchi in sottane nere, non un bambino in un letto di ospedale, non un uomo – grosso, lustro e nero che si fa guardare dai Padri. Il mio corpo qui è mio, qui sono un Cavallo Pazzo che non si è mai arreso. Qui sono come quel tipo che Padre John ci ha detto che aveva fondato la Schomburg, qui sono musica, non son mai stato in un posto di polizia per delle bugie su dei bambinetti qui ho una madre che non è una battons che muore di AIDS. Qui nel ritmo c’è la mia vita.

Il flauto strilla e io vengo e rivengo e nessuno mi può fermare.

Ho il sudore che è un fiume sulla schiena. Potrei andare avanti così per sempre. Certi dei negri, qui, sono professionisti.

Cioè? Cioè fare le loro cose per soldi, dovrebbe essere meglio? Cazzo, io se dovessi rubo anche, o chiedo la carità, basta che faccia questo. Che mi distrugge, tanto che è bellissimo!







Brano tratto dal romanzo Il figlio. Fandango editrice, Roma, 2013. Traduzione di Massimo Bocchiola.




Sapphire

Ramona Lofton, conosciuta con lo pseudonimo Sapphire (Fort Ord, 1950), è un scrittrice e poetessa statunitense. Nata in California, è una dei quattro figli di un ufficiale dell'esercito che prestava servizio in un base militare. Una volta adolescente, dopo alcuni dissidi, abbandona la famiglia e si trasferisce a San Francisco, dove ha studiato presso il college della città. Nel 1977, in piena era hippy e new age, si trasferisce a New York, dove studia al City College e successivamente ottiene un master Brooklyn College. In quegli anni, prima di cimentarsi con la scrittura, lavora come artista versatile, ballerina esotica e assistente sociale, inoltre ha lavorato a stretto contatto con i bambini, ha scritto per riviste femministe e ha insegnato a leggere e scrivere nei quartieri difficili della città, come Harlem e Bronx. Ha scritto e pubblicato le sue prime poesie durante il movimentoslam newyorkese. Nel 1994 pubblica la sua prima raccolta di poesie intitolata American Dreams, accolta dalla critica come "uno dei migliori debutti degli anni novanta",[1] dopodiché pubblica il suo primo romanzo Push - La storia di Precious Jones, edito in Italia da Rizzoli. Il romanzo racconta la storia cruda di un'adolescente obesa e di colore, vittima delle umiliazioni della madre e dell'incesto da parte del padre. Gli scritti di Sapphire sono stati oggetto di simposio accademico presso l'Arizona State University nel 2007.[2] Dal suo primo romanzo è stato tratto un film nel 2009, intitolato Precious e diretto da Lee Daniels. Il film è stato presentato con successo al Sundance Film Festival e al Festival di Cannes 2009, e successivamente premiato all'Oscar.





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