TONY ACIDO Brano tratto dal romanzo Ora Mattia Signorini (…) «Sorellina?»
«Dimmi, caro.»
«Spero che il pargolo prenderà tutto dallo zio. Lo dico per il suo bene.» «Informati su quelle bollette, va’.»
«Vedrai che ce la faremo. Tutta d’un pezzo.»
«Promesso.»
Tutta d’un pezzo. Era il loro modo di dire: qualsiasi cosa succeda, andrà tutto bene. L’avevano preso in prestito da Tony Acido, l’altro matto del paese. Lo diceva sempre quando qualcuno, di solito per prenderlo in giro, pronunciava il suo nome. «Ehi, Tony! Come va?»
«Tutto d’un pezzo.»
Era una consolazione per tutti: se lui stava a posto, gli altri erano in una botte di ferro. Quello che si sapeva per certo di Tony Acido è che da giovane aveva tutte le rotelle a posto. A quel tempo si chiamava Antonio Scagnolari e come a tanti altri ragazzi quel paese andava stretto. Erano gli anni Settanta, e lui un ragazzo con la musica nella testa. Se da qualche parte c’era una risposta allo strano scompiglio che era la vita, lui aveva trovato la sua: il rock. E i concerti ne erano la prova. Raccoglieva frutta tutta l’estate. Metteva via i soldi per il treno e per i biglietti. E poi spariva. Era convinto che sarebbe partito molto presto da lì, una volta per tutte. Era la sua Gibson a dirglielo. La suonava tutti i santi giorni. Prima o poi, sotto qualche palco, in mezzo a ragazzi che la pensavano come lui, avrebbe intravisto qualcuno con lo sguardo pieno del suo stesso desiderio. Formare una band.
Una band di quelle che prendono in mano il mondo e lo rigirano come un calzino. Sua madre andava ogni settimana ad accendere un cero in chiesa. Per lui, e con tutta probabilità anche per le sue povere orecchie. Anche se era il suo unico figlio – la sola cosa che gli era rimasta dopo che suo marito era stato schiacciato da un trattore durante la mietitura – e aveva la tendenza che hanno certe madri ad assecondarlo in tutto, quella musica proprio non la capiva. Una volta ne parlò anche con il prete. Che congiunse le mani in grembo, alzò lo sguardo verso un cielo che in quel momento solo lui vedeva, e disse: «Quella è la musica del diavolo. Pregherò per lui.» Sua madre si sentì sollevata. Se da quel momento ci avesse pensato l’Onnipotente, tutte le cose sarebbero andate a posto. Su questo non ci piove, pensò. Invece fu proprio in un giorno di pioggia che suo figliolasciò per sempre quel posto. Ma non come avrebbe voluto lui. Stava tornando dallo storico concerto dei Led Zeppelin a Milano quando, in treno, incontrò gli sguardi che cercava da tempo. Tre ragazzi, seduti nei sedili di fianco al suo, che parlavano di quella giornata come se fosse la risposta allo strano scompiglio che era la vita. Con le bottiglie di birra Moretti che avevano in manofecero un brindisi a Robert Plant e Jimmy Page, poi uno di loro parlò della band che stavano formando, e disse che dovevano darsi una mossa se volevano combinare davvero qualcosa. Il suo amico lo riportò con i piedi per terra.
«Non si va da nessuna parte senza un chitarrista.»
Basta una sola frase, nella vita, a centrare il bersaglio. Eil bersaglio, in quel vagone pieno di gente, era Antonio. La prese come una missiva del destino. In quel momento capì il senso della cosa che sentiva dire così spesso in giro. Aspettare che passi il treno giusto. Quello su cui era poggiato il suo culo, pensò. Quello era il treno giusto. Superarono la stazione di Bologna che erano già diventati amici. In uno zaino i tre avevano un bel rifornimento di Moretti. Ne offrirono qualche bottiglia anche ad Antonio. Poi uno disse: «Festeggiamo con queste.»
Tirò fuori da un sacchetto quattro pillole azzurre e le distribuì. Fecero un altro brindisi – questa volta al rock e alle groupies – e le mandarono giù in un sorso. Il vagone iniziò a dondolare e uno di loro, a un certo punto, giurò di vedere fuori dal finestrino un gruppo di indiani a cavallo che si apprestava ad attaccare il treno. Ma per il resto tutto andò alla grande. Quando per Antonio fu ora di scendere si salutarono con grande entusiasmo, scambiandosi gli indirizzi e i numeri di telefono. Sulla corriera non si sentì troppo bene. La testa iniziò a girargli più forte e la vista si annebbiò. Lo trovò l’autista al capolinea. Addormentato. Pioveva da far schifo, quella mattina. La pillola evidentemente non era delle migliori e qualche giorno dopo, nel corridoio dell’ospedale, il dottore spiegò alla madre di Antonio che doveva essergli entrata nel cervello staccandogli un bel po’ di spine. «Quanto tempo gli servirà per riprendersi?» chiese lei, con quell’ingenuità che nelle madri mantiene salda una certa attitudine alla speranza. Il dottore le mise una mano sulla spalla, e lei capì.
Quando Ettore venne al mondo, del ragazzo che amava il rock e spariva per andare ai concerti, in paese non c’era quasi più memoria. Scorrazzava ancora con gli stessi vestiti, ormai sdruciti, e con un sacchetto di plastica in mano. Nessuno sapeva cosa ci tenesse dentro. Anche sua madre, nel frattempo, aveva lasciato questa terra – una cosa brutta, che le aveva preso lo stomaco e poi il resto del corpo – e adesso abitava nella sua casa da solo. La gente del posto si occupava di lui. Un tavolino al bar dove stare in compagnia c’era sempre. Solo che per loro non c’era più Antonio. Solo Tony.
Tony Acido, lo chiamavano.
E quando sentiva pronunciare il suo nome – quello nuovo, quello della fuga – lui rispondeva sempre nello stesso modo. «Tutto d’un pezzo.»
Brano tratto dal romanzo Ora, Marsilio editrice, Milano, 2013. Mattia Signorini: Sono nato a Rovigo nel 1980. Dopo essermi laureato in Scienze della Comunicazione con una tesi in Sociologia sull’ascolto attivo, mi sono trasferito a Padova. Ho fatto diversi lavori, tra cui lo strappabiglietti in un cinema, il copywriter e l’impiegato in un’azienda che produce cosmetici. È proprio quello il periodo, passato tra gli scaffali polverosi dei magazzini a controllare i prodotti, destinati ad anonimi volantini promozionali e a Grandi Magazzini Del Risparmio, in cui ho sentito che non stavo seguendo davvero la mia strada. Mi sono rimesso a scrivere, questa volta un romanzo, dopo anni passati a spedire racconti agli editori, che ogni volta venivano rifiutati. Scrivevo di notte, in un piccolo appartamento condiviso appena fuori città, dentro una stanza occupata tutta dal letto e dal comodino, e alle sei mi alzavo per andare a lavorare. L’ho inviato a qualche agenzia letteraria di cui avevo molta stima, senza troppe aspettative. Mi ero ripromesso che se avessero rifiutato anche quel libro avrei lasciato perdere la scrittura una volta per tutte. Invece nell’autunno del 2006 ho ricevuto la telefonata della mia futura agente. Mi ha detto che stava leggendo il romanzo, le piaceva, e che dovevo raggiungerla subito a Milano. Sarebbe uscito l’anno dopo, nel 2007, con il titolo di Lontano da ogni cosa, a cui è seguito nel 2009 La sinfonia del tempo breve, che ha vinto il Premio Tropea 2010 ed è stato tradotto in molti Paesi. Questo mi ha permesso di dedicarmi al mondo dei libri con più continuità. Mi sono trasferito a Milano, dove ho iniziato a scrivere sulle pagine di GQ e Vogue Italia, intervistando cantanti e gruppi musicali, cercando sempre di valorizzare artisti emergenti e indipendenti di qualità. E ho lavorato quattro anni per l’agenzia che tuttora mi rappresenta, come editor e soprattutto talent scout a fianco di autori esordienti, poi quasi tutti pubblicati da grandi editori. Un lavoro fatto di passione, tempo speso su romanzi che all’inizio erano solo una scommessa, e tanto artigianato, da cui ho imparato molto, a livello professionale ma soprattutto umano, e che avrei continuato se una forte esigenza interiore non mi avesse spinto a trasferirmi di nuovo in Veneto, all’inizio di quest’anno. Se vieni da certi posti, che odorano di confine, finisce che prima o poi ci ritorni, non c’è niente da fare. È stato il mio ultimo libro, Ora, a mettermi davanti la questione del ritorno. E dire che mentre lo stavo scrivendo non me ne rendevo nemmeno conto. Tuttavia la mia vocazione, oltre allo scrivere, è ancora quella di aiutare chi vuole provare a intraprendere seriamente e con convinzione questa difficile strada. Per questo ho deciso di aprire, dal prossimo settembre, una mia piccola scuola di scrittura – piccola non negli obiettivi, ma nel numero di iscritti – che sarà legata a un’importante agenzia letteraria. Penso sia indispensabile, per non disperdere il percorso che faremo insieme, insegnanti e studenti, e avere la sicurezza che i migliori troveranno uno sbocco nel mondo editoriale. Ho sempre in mente questa parola, quando scrivo e quando lavoro con gli autori: artigianato. Mi piace pensare che chi vorrà passare del tempo con me, e con i collaboratori che ho scelto per la passione e la bravura che si portano addosso, farà parte di un gruppo di artigiani che lo aiuterà a intagliare il legno della sua scrittura, e delle cose che stanno intorno.
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