RITA Milva Cappellini Di lei non si sapeva neanche se fosse già nata al momento del disastro, o se invece non avesse visto la luce – sempre che barlume di luce vi fosse mai stato, in quella notte - nell’attimo esatto, o in quelle ore, o poco dopo. Di quella notte, Rita non sapeva niente. O sapeva poco, e quel poco lo sapeva da qualche inchiesta vista alla televisione, di sfuggita, prima che la mamma girasse la manopola con un brusco gesto veloce – lei sempre così affaticata e lenta – e le dicesse sottovoce, senza guardarla, di sbrigarsi a finire il lavoro piuttosto, fosse passare pomodori o sbucciare piselli per il pranzo, o preparare tovaglioli per il ricamo. D’estate, vecchie e ragazzine ricamavano sotto la pergola nera d’edera, dirimpetto alla sua casa, a lato del piccolo spiazzo che la strada faceva prima di inerpicarsi, diventando viottolo sterrato, sul fianco della collina, verso i piloni del ponte. Non succedeva mai che Rita sedesse con quelle donne, sulle seggiole basse. Ma la finestra di cucina affacciava appunto su quella pergola. Nel silenzio del dopopranzo, mentre la mamma dormiva in sottoveste sull’alto letto matrimoniale, Rita scendeva con ogni cautela, atterrando con le punte dei piedi sullo scendiletto consumato, e si acquattava nello strombo della parete. Protetta dagli scuri accostati, ascoltava le dicerie delle vecchie e le risatelle delle bambine, e a volte aveva sentito il proprio nome, breve, in un bisbiglio. In un paese così piccolo, gli argomenti sono pochi, e si torna a parlare sempre delle stesse vicende, girando come poiane intorno a quei tre o quattro fatti memorabili, ripetendo e variando, aggiungendo e allargando. E l’arrivo di Rita, certo, era stato, se non proprio l’avvio di una leggenda, certo un evento degno di chiosa, indagine, incremento. Un gesto di compassione, come ne accadono tra i poveri quando vengono impietositi da una sventura abbattutasi su capi ancora più poveri. E sì che la famiglia – proprio come la casa, vecchia e annerita di umidità - non si sarebbe davvero detta accogliente, con la mamma già anziana, stanca e tutta sformata, e il babbo scontroso, capace di piantare, schiumando di rabbia, un forcone nel collo di un cavallo ombroso, e non c’era stato bisogno di mattatoio, quella volta, per finire la povera bestia. Da gente del genere, un atto di pietà sorprende. Ma era dipeso tutto, probabilmente, dalla forza di persuasione dei funzionari del partito, che erano venuti dalla città a chiedere ai compagni della frazione, riuniti come ogni sera a giocare a briscola nella stanza affumicata del circolo, di accogliere in nome della solidarietà proletaria gli orfani di quella rovina così distante, ma pur sempre capitata a lavoratori come loro, a loro lontanissimi compagni e uguali. E il vecchio aveva detto sì, guardando l’impiantito aveva detto sì, a bassa voce e con il tono adirato di chi dice no, ma aveva detto sì. E la vecchia, a casa, a lui ancora incollerito aveva detto sì anche lei, e non che ce ne fosse bisogno, ma una tale gioia la soffocava da chiedere almeno lo sfogo di un soffio di voce che diceva sì, anche senza necessità ripeteva sì, sì. E dopo qualche giorno era arrivata lei. Trovata mezza sfracellata fra i detriti della montagna scivolata a valle, secondo il sussurro di una vecchia ricamatrice della pergola; oppure, secondo il mormorio di un’altra, tratta a riva illesa – impigliata in una specie di nido di stipa e pattume - dalla pertica di uno dei volontari che, la mattina dopo, si erano allineati sulla riva del fiume fangoso per recuperare i cadaveri portati dalla corrente; o forse lasciata alla ruota di una superstite chiesa della vallata, o precipitata dalla sommità del monte, le cui grotte ospitavano chissà quali creature selvatiche. Solo un’altra famiglia, che abitava in una casa fuori dell’abitato, su oltre la cartiera che dava lavoro e appestava l’aria, aveva ospitato un orfano venuto dalla medesima zona sventurata, un ragazzino magro e spaurito - la notte si svegliava urlando e il giorno portava al collo dovunque andasse un vecchio salvagente di sughero che aveva trovato chissà dove – ma senza malformazione o segno alcuno, che era stato rimandato dopo un paio d’anni a parenti sopravvissuti. Lei invece era rimasta, in posizione anagrafica incerta però non reclamata da nessuno e da nessuno mai importunata, in quel paese di poche case aggrappate al fianco della collina, tra il torrente che scrosciava infilandosi sotto la strada e il ponte di cemento armato, ricostruito con alte arcate e piloni scuri sulle macerie del vecchio ponte della ferrovia andato distrutto nei bombardamenti. Dei primi anni, Rita aveva una memoria vaga, il caldo dei vapori delle pentole, l’odore pungente della sottoveste della mamma, la voce fosca del babbo. La televisione sempre accesa in cucina, gli scuri sempre accostati, i passi rari giù nella strada. Non ricordava di essere mai stata portata fuori, né che qualcuno oltre alla mamma e al babbo fosse mai entrato in casa. Non aveva memorie né paure. La inquietava solo il vento, quando si avventava sul paese urlando tra i neri piloni del ponte. Quando fu abbastanza alta da arrivare, arrampicandosi su una sedia, alla finestra che dava sulla pergola, la mamma cominciò ad assicurare gli scuri socchiusi con una cordicella ben annodata, in modo che lei non potesse allargare la fessura che permetteva di vedere, non visti, qualcosa: un pezzo di strada, quasi tutta la pergola, un tratto del viottolo che saliva verso i piloni e su alla casciaia e poi fino al bosco. Rita aveva passato giornate in ginocchio su quella sedia, guardando con un occhio solo quella porzione di mondo. Mai le era passato per la mente di chiedere il permesso di scendere nello spiazzo insieme ai pochi bambini del paese, o di domandare il motivo della sua reclusione: la mamma non parlava quasi mai, e il babbo si limitava a impartire ordini o proferire bestemmie fioche. Le occupazioni in casa erano poche e fisse, i gesti facili, non c’era bisogno di interrogare o rispondere, non c’era bisogno di parlare. Il mangiare veniva dall’orto e dalla stalla (con quel tonfo sordo del pugno sul capo dei conigli che penzolavano poi dal gancio filando sangue dalla bocca, con quegli ultimi passi sghembi di qualche gallina dal collo slogato), l’acqua dalla pompa nello spiazzo, la legna dalle casciaia; i vestiti venivano dalle mani della mamma, la stoffa e qualche cianfrusaglia dal camioncino del merciaio muto che passava una volta al mese, i pochi soldi dai campi che il babbo coltivava. Dalla cartiera venivano invece odori acidi e certi giornali scampati alla vasca di macerazione, portati dagli operai al circolo e da lì a casa, per servire ad accendere la stufa. Altro non c’era bisogno di chiedere. Non accadeva niente di troppo diverso nelle altre case del paese: tutte le donne, c’era da credere, assomigliavano alla mamma come tutti gli uomini al babbo; perfino i bambini erano burberi, restii, presi da giochi sbrigativi e tristi. I monosillabi bastavano e avanzavano, ognuno aveva il proprio dovere da compiere e all’obbedienza il silenzio si adatta meglio di ogni altra cosa. Semmai, ci sono sempre i cenni del capo e i gesti delle mani, lo scrollarsi delle spalle e l’aggrottarsi delle sopracciglia. Soltanto sotto la pergola le parole correvano più dell’ago sulla tela bianca di cotone, sebbene rauche o stridule, così differenti dalle voci della televisione, morbide voci di signorine inquadrate fino alle spalle, squillanti voci di bambini che cantavano in coro, carnose voci di uomini e donne che si muovevano su palcoscenici illuminati da mille lampadine. C’erano voluti mesi o anni perché - a forza di guardare lo schermo e di occhieggiare tra gli scuri - si formasse una domanda nella mente di Rita, e altri mesi o anni perché la domanda si raggrumasse in parole. Il tempo non le mancava: la mamma si faceva sì aiutare in casa e le assegnava ricami e orlature da fare nel cono di luce della finestra accostata, però l’aveva dispensata una volta per tutte dai lavori nell’orto che toccavano agli altri bambini – innaffiare, strappare gramigna e vilucchio, cimare basilico e tralci di zucca, raccogliere verdure – come anche dallo stendere il bucato sull’argine del torrente e dallo strappare nei campi l’erba per gli animali. In chiesa andava solo la mamma, la domenica mattina all’alba, e la questione della scuola era stata sistemata – non avrebbe saputo dire come – dopo una visita dei carabinieri che avevano parlato a lungo col babbo, chiusi in salotto e replicati all’infinito dagli specchi affrontati di buffet e controbuffet. Aveva imparato a scrivere sui cruciverba dei giornali della cartiera, e a contare sui punti del ricamo, sui nodi e sugli intrecci di uncinetto e ferri da calza. Quando poi i grumi di parole, a forza di rimescolarli e schiacciarli e inumidirli tra gola e palato e dopo tra lingua e denti e dopo tra lingua e labbra, si ammorbidirono e furono pronti a uscire dalla bocca, bisognò pur aspettare il momento giusto: il babbo al lavoro nei campi o già al circolo per la briscola, la mamma in faccende senza difficoltà e senza fretta, il tempo abbastanza agevole, il silenzio non troppo carico né troppo fragile. E quando il momento giusto venne, Rita si sedette sulla sedia messa di sbieco vicina alla finestra e chiese, con la sua voce miagolante di bambina silenziosa: - Mamma, perché io sono così? La mamma era una donna coraggiosa, a modo suo. Non cambiò discorso, non prese tempo, non inventò bugie. Rispose senza alzare la testa, mondando le bietole da lessare: - Non lo so. Nessuno lo sa. - Ma si può fare qualcosa, mamma? - No, non credo. Il vento, soffiando forte tra i piloni del ponte, faceva quella sera un rumore quasi metallico, di immenso telaio o smisurata caldaia o macchina mostruosa che faticosamente si mettesse in moto. Passò forse una mezz’ora, la mamma finì con le bietole, e si alzò. Fece qualche passo, si soffermò dietro di lei e le appoggiò una mano sulla testa, poi scese a carezzarle la guancia rotonda: con le dita, lisciò il pelo lungo, chiaro e setoso. Poi si avviò verso la camera da letto. Poi si fermò, tornò indietro a sedersi e a parlare, guardandola fissa in viso. Quando era arrivata, Rita aveva pochi giorni di vita e si chiamava – secondo un foglio che qualche autorità locale doveva aver compilato non si sa su quali basi - Sofia Antonia. Quel nome era subito apparso pretenzioso alla mamma, che senza tante solennità l’aveva ribattezzata con il corto nome della santa degli impossibili. Era impossibile, infatti, che si fosse salvata - lei sola di tutta una famiglia, di tutta una vallata, di tutto un mondo – ed era impossibile che tutto il suo corpicino di neonata altrimenti perfetta fosse così completamente ricoperto di una peluria fitta e dorata, liscia, lucida. Ogni centimetro della sua pelle, a parte il palmo roseo delle mani e dei piedi, e gli occhi fermi e rotondi, trasparenti, di un colore chiaro di topazio o di zucca tardiva. Oh, sì, c’erano stati tanti e tanti medici, e tutti avevano confermato, una volta riavutisi dallo sconcerto, una diagnosi senza cura: ipertricosi lanuginosa congenita. Qualcuno aveva offerto terapie sperimentali o chiesto foto per pubblicazioni scientifiche, ma ogni permesso era stato negato. Non esistevano farmaci, né era il caso di accanirsi in rasature o estirpazioni che sarebbero state dolorose – e forse pericolose – e soprattutto temporanee. - Non si sa altro, Rita. Per tutti gli anni venuti dopo, lei aveva ripensato a quelle parole della mamma. Ma non aveva chiesto altro e non le era stato detto altro. E gli anni erano passati in quei pensieri e nelle faccende solite. Era uscita di casa solo due volte. La prima, quando il babbo era morto e dopo la veglia funebre anche lei lo aveva accompagnato in chiesa e poi al cimitero sopra il paese, sottobraccio alla mamma che non piangeva, con i compagni del circolo che bestemmiavano sottovoce e le donne del paese che lanciavano sguardi verso di lei cercando di vedere qualcosa sotto il velo, nero e fitto, che le copriva il viso. La seconda, dopo qualche mese, quando la signora che abitava nella villa a mezza costa, venuta a conoscenza della sua abilità nel cucito e nel ricamo, aveva chiesto di averla come guardarobiera. Già il primo giorno, all’ora del tè, la signora l’aveva fatta chiamare per mostrarla alle amiche riunite in salotto. La mamma lo aveva saputo e Rita alla villa non era più tornata. Poi, anche la mamma era morta, dopo una malattia veloce e senza pena: nel camposanto del paese non c’era più posto e il corpo della mamma, finalmente ben lavato e ben vestito, era stato portato ai Cimiteri Comunali, dove Rita – per fermo decreto della defunta, lasciato scritto con grafia incerta su un foglio protocollo bollato e ingiallito - non poteva spingersi. Poi erano morte quasi tutte le vecchie cucitrici e ricamatrici, e le centenarie superstiti erano state ricoverate in ospizi per vecchi. Per qualche anno il paese era stato pressoché deserto. Poi, la strada era stata allargata, i vecchi edifici venduti e ristrutturati come case di vacanza, la pergola abbattuta per far posto a una tettoia per le auto dei residenti. L’antico lavatoio di pietra, dove il torrente scorreva prima di imbucarsi nel bottaccio, era stato inglobato nel giardino di una villetta e trasformato in fioriera. Ma in inverno il paese restava quasi vuoto, e lei del tutto dimenticata dietro gli scuri della finestra. La mamma era una donna saggia, a modo suo, e subito dopo la morte del babbo era andata nella città vicina e aveva aggiustato i propri affari con un vecchio fidato notaio, che aveva ratificato il testamento, sistemato le poche proprietà stipulando un vitalizio per Rita, domiciliato in banca bollette e tasse. Dal conto corrente la mamma, prima che la malattia la costringesse a letto, aveva ritirato una certa somma in contanti - monete e banconote piccole - che insieme a Rita aveva nascosto in una nicchia segreta dietro lo scarico del vecchio gabinetto. Poco prima di morire, aveva telefonato al negoziante che ancora resisteva, con il suo spaccio d’altri tempi, nella piazzetta del paese, e concordato la consegna a domicilio e il relativo pagamento mediante un cesto appeso a un minuscolo argano fissato sopra la finestra di una stanza sul retro. Di tutto questo, Rita aveva saputo ben poco: d’altra parte, la sua esperienza delle cose della vita era così limitata che non si era mai chiesta chi pagasse la luce nelle stanze o l’acqua del rubinetto, né aveva mai avuto nozione di tasse o elezioni o censimenti. Le poche volte che aveva sentito suonare il campanello, si era ben guardata dall’andare ad aprire, e sbirciando tra gli scuri accostati si era assicurata che l’intruso se ne andasse. Tuttavia, dopo essere rimasta sola, Rita era stata costretta a cominciare una vita nuova, mettendo in pratica le istruzioni minuziose della mamma. Aveva imparato a curare l’orto – circondato da un alto muro a secco – subito dopo l’imbrunire o prima dell’alba. Durante l’estate stipava il vecchio surgelatore di verdura lessata e riempiva barattoli di marmellate e conserve; in inverno ammassava patate nel sottoscala e disponeva mele e pere in soffitta. Alla carne aveva rinunciato senza sforzo: aveva liberato galline e conigli, con sollievo. Prestava al proprio corpo cure consuete e sporadiche - il bagno una volta la settimana con il sapone da panni, un po’ d’acqua sul viso la mattina – senza attenzione speciale per il pelo che rimaneva lucido e liscio sui lineamenti che avvizzivano senza maturare, sulle guance rotonde, intorno agli occhi color topazio, sulle membra quasi senza muscoli. Si metteva le vestaglie di cui la mamma aveva riempito l’armadio, cotone a fiori che scoloriva o tessuto sintetico che assorbiva e conservava l’odore della pelle. Nel corridoio che portava allo stanzino del gabinetto era rimasta la pila di giornali venuti dalla vecchia cartiera, rotocalchi e fumetti, riviste con donne quasi nude, levigate e bianche sulla carta gualcita. Ogni tanto Rita ne prendeva uno da sfogliare nei lunghi pomeriggi. Una volta aveva visto le fotografie di un gruppo di ragazze – bambine, quasi, coperte di pelo scuro, con i visi incorniciati da strane protuberanze, i nasi larghi e gli occhi opachi. Le ragazze lupo dell’India, aveva compitato. Il suo cuore aveva perso un colpo, temendo per un attimo di appartenere alla loro razza; ma uno sguardo ai vetri della finestra le aveva rimandato, azzurrati, i tratti delicati e il pelo bianco con dolci striature fulve: si era tranquillizzata e aveva buttato la rivista nella stufa, senza delusione. Un’altra volta, in un film alla televisione aveva visto una donna pelosa che un uomo malvagio mostrava a una folla che rideva e inorridiva. Rita aveva spento prima che il film terminasse. Quando la televisione aveva cominciato a guastarsi, aveva per un po’ passato le serate davanti allo schermo sfarfallante di puntini bianchi e grigi, poi tutto era diventato nero e lei aveva smesso di guardare. Il mondo aveva saputo scordarla. Se su di lei circolavano leggende, Rita non lo sapeva. Ma del mondo lei non si era scordata del tutto. L’esterno – proibito da sempre – la attirava: soprattutto quel tratto di viottolo in salita, non toccato dalle migliorie recenti, che sembrava mettere, appena dietro la svolta, in spazi sconosciuti. E poi, c’erano fatti nuovi, nel vecchio paese. Certe sere, tra l’imbrunire e la notte piena, aveva sentito voci strozzate di uomini e, da dietro le ante di legno ancora fissate dalla cordicella della mamma, aveva visto ombre scure, a due a due o a gruppetti confusi, scantonare sotto la tettoia vuota rasentando le siepi e poi, attraversata in fretta la piazzola d’asfalto sotto la quale ancora scrosciava il torrente, strisciare su verso i campi alti, oltre le casciaie, oltre i neri piloni del ponte. Prima dell’alba, le era parso nel dormiveglia di sentire sassi rotolare giù per il viottolo sotto passi affrettati, e ancora voci attutite. C’erano voluti mesi e un lungo crepuscolo di inizio estate – intorno nessuno, le case dei villeggianti ancora chiuse - perché si decidesse ad avviarsi, dopo aver dato acqua ai pomodori, verso i campi alti, con ai piedi i vecchi gambali del babbo, in testa il velo nero e fitto inumidito dal respiro denso. La prima sera aveva fatto solo pochi passi, appena dietro la curva oltre la quale il paese spariva e si aprivano davanti, ai due lati, le sterpaglie e gli olivastri: spaventata dal proprio stesso ardimento, era tornata indietro a precipizio, alzando polvere e sbarrandosi alle spalle il portone. La seconda sera - in tasca la vecchia pila militare con la carica a manovella – aveva oltrepassato le casciaie. E ogni sera si era spinta qualche metro più avanti. Aveva trovato, una volta, un piccolo palco di corna di cervo – antico flagello degli orti della collina – e lo aveva portato a casa: davanti allo specchio, aveva appoggiato le estremità smerlate e tiepide alla fronte, allargando i peli per trovare la pelle rosea. Si era vista bella, gli occhi color topazio, il pelo lucente, la corona levigata di regina. Una sera era arrivata, seguendo un sentiero aperto da poco, con arbusti spezzati di recente e orme umane, a uno slargo aperto sotto una delle arcate del ponte. Addossate ai piloni di cemento, baracche fatte di cartone e compensato, resti di vecchi cartelloni pubblicitari. Vicine, cassette da frutta capovolte, e sopra e intorno oggetti disparati: un paio di fornelli a gas con piccole bombole, pentolini ammaccati d’alluminio, rasoi di plastica, grovigli di stracci. Sui rami bassi dei nocciòli, stesi alla meglio indumenti maschili - canottiere, calzini, una camicia – e, appeso, uno specchio bordato di plastica rosa. Vicino a una delle baracche, un tappeto polveroso appoggiato sull’erba pestata. Non si vedeva nessuno, ma Rita era rientrata in fretta, col cuore in gola. Da quella sera, era diventata un'abitudine per lei salire all’accampamento. All'alba, si appostava dietro gli scuri per controllare i movimento degli uomini; la notte, ne spiava i rientri. Ogni sera, si inoltrava di più tra le baracche, osservava le tazze di latta, smuoveva con la punta del piede i mucchi di rifiuti. A volte, avvicinava il naso alle canottiere stese sui rovi, senza toccarle. Una volta, attardata, aveva sentito le voci e i passi degli uomini che prima del solito raggiungevano le baracche, sempre guardinghi, bisbigliando in una lingua sconosciuta. Rita era balzata indietro e di lato, infilandosi in una sorta di alta siepe spontanea, di pruni e di rampicanti: le spine avevano trapassato in più punti la vestaglia di cotone, il velo nero, ma il pelame fitto l’aveva protetta dai graffi. Gli uomini erano ammutoliti sentendo il fruscio, ma poi, pensando a un animale – una biscia o un tasso o un giovane cervo - avevano ripreso a parlare sommessamente e a gesticolare. Da dietro l’alta siepe, Rita aveva alzato gli occhi su di loro: la loro pelle nera l’aveva riempita di stupore. Le era capitato di vedere alla televisione cantanti e attori dai volti scuri: ma aveva creduto che fosse una maschera di scena, un trucco sul chiaro naturale di volti e mani. Anche la ballerina pelosa del film lasciava intuire, sotto la pelliccia finta, sfumature pallide. Non aveva mai messo in dubbio che ogni altro essere umano al mondo, a parte lei e le ragazze indiane (chissà poi se umane davvero, con le loro labbra scure da lupo, i lunghi peli oleosi) fosse per natura ricoperto di epidermide chiara e liscia, giallognola o rosea, olivastra o candida. Quegli uomini, invece, avevano visi e braccia di un nero opaco e compatto. E ora, nella luce del crepuscolo, si toglievano maglie e camicie, curvavano e poi flettevano all’indietro i torsi nudi, alzavano le braccia e rovesciavano il capo per bere lunghe sorsate alle bottiglie di plastica. Muovendosi lentamente, Rita era riuscita a indietreggiare fino a raggiungere, un po’ più a valle, il viottolo che l’aveva riportata a casa senza che nessuno – né i neri abitanti del bosco, né i bianchi pochi compaesani - la notasse; sui rametti dell’alta siepe, erano rimasti bioccoli di pelo bianco e dorato. Da quella sera, aveva smesso di evitare gli uomini, anzi aveva preso a calcolare i tempi del loro ritorno per precederli e acquattarsi tra i pruni. Li vide, una sera dopo l’altra, preparare pasti nei tegami, bollendo pesci secchi e riso, e pregare, proni sul tappeto fradicio; li vide svuotare i visceri e coprire gli escrementi con le foglie delle felci e dei castagni; vide, una volta, uno di loro di spalle, seduto per terra, dietro una baracca, tremare come di febbre, e poi mandar fuori un mugolio rauco e un fiotto biancastro sulla terra. A casa, in attesa della sera, passava il tempo imitandoli: si inginocchiava sullo scendiletto consumato della mamma e si piegava ritmicamente in avanti, cantilenando; emetteva suoni di gola, schiocchi di lingua sul palato, mugolii; allo specchio, tornava ad appoggiare le tiepide corna di cervo alla fronte, e la notte rimaneva sveglia ad ascoltare il vento passare urlando tra i piloni, piegare al suolo le acacie, squassare le baracche strappando brandelli di plastica e tralci di rampicanti. Nella nebbia pesante del tardo autunno, salire all’accampamento era diventato persino più facile, nonostante le accadesse di sdrucciolare, con i vecchi gambali del babbo, nel fango del viottolo. Ma era più difficile distinguere i visi e i corpi degli uomini, confusi, in quel buio, a tal punto che Rita non avrebbe saputo dire se tutti loro fossero sempre gli stessi dell’estate passata, o loro eredi e sostituti, successori in tutto simili. Ma ogni sera le ombre scure di quegli uomini, nella luce rossa del fuoco che accendevano tra le baracche, le sembravano più familiari, e il ritorno a casa, nella luce scialba della cucina, più doloroso e inutile. Prima che l’inverno gelasse il terreno, cominciò a scavare la buca. Ogni mattina, subito dopo la partenza degli uomini, saliva alle baracche. La prima volta aveva portato con sé la vecchia vanga, di cui il babbo, tanti anni fa, aveva spezzato il manico, e un grande telo di nylon verde che usava nell’orto. Aveva scelto il luogo con cura, quasi sotto l’alta siepe, e delimitato la circonferenza con piccoli colpi dati di punta sulla superficie bagnata, estraendo scaglie di terra erbosa. Spingeva poi con il piede la lama fino a conficcarla in profondità, e - premendo verso il basso l’estremità del manico mozzo - scalzava grosse zolle ammorbidite dalla pioggia. Ammassava la terra di risulta sul telo che, afferrandone i bordi a due mani, trascinava verso il botro poco distante: con attenzione rovesciava la terra, poi tornava indietro rialzando con il piede l’erba pestata, per cancellare le tracce. E ricominciava. Affioravano, misti alla terra, brandelli di plastica e filacce marce, frammenti di coccio. I lombrichi grassi, tagliati dalla lama, contorcevano le estremità recise. Battendo la vanga di piatto, Rita compattava le pareti, levigava il fondo. Prima di sera, copriva la buca con il grande telo, che mimetizzava con manciate di sterpi, nascondeva la vanga incastrandola tra le radici oltre il ciglio del botro, poi, rinunciando a vedere gli uomini, se ne andava presto, per evitare di incontrarli lungo il viottolo. Ogni giorno la terra da smuovere diventava più dura, e ormai restituiva solo ossa spolpate di animali e qualche scheggia di vetro verde. La buca fu pronta prima di Natale. Rita aspettò tutto il giorno, seduta al buio dietro gli scuri, che gli uomini salissero. Erano taciturni e frettolosi, nel gelo sempre più tagliente, e forse si preparavano ad andarsene. Diede loro il tempo di arrivare, calcolò i minuti necessari per accendere il fuoco. Prese con sé solo il vecchio scendiletto della mamma e si avviò senza fretta. Conosceva il cammino, non le servì nemmeno la vecchia pila a manovella. Accordando i movimenti allo scalpiccio e alle voci, Rita sfilò il telo scoprendo la buca. I bagliori del fuoco acceso tra le baracche ne illuminavano i bordi. Si spogliò e fece un involto di scarpe e indumenti, avvolgendoli nel fitto velo nero. Rabbrividì appena. A pochi passi, dietro l’alta siepe, uno degli uomini, mescolando qualcosa dentro il tegame, intonò a mezza voce una canzone in una lingua sconosciuta, e via via altri si unirono. Rita scese, silenziosa, nella buca, distese sul fondo lo scendiletto e vi si acciambellò sopra, incrociando le braccia sul seno, carezzandosi le spalle soffici e tiepide, lisciando il pelo chiaro e lucido. Appoggiò la guancia rotonda alla parete di terra, chiuse gli occhi, e aspettò che venisse il vento. Milva Maria Cappellini collabora con riviste letterarie (“Stilus”, “Caffè Michelangeolo”, “L’immaginazione”, occupandosi soprattutto di letteratura otto-novecentesca e contemporanea. Tra le curatele, diverse opere teatrali di Gabriele d’Annunzio (Mondadori), l’antologia Letteratura popolare (UTET), il volume Geno Pampaloni Una valigia leggera (Aragno), tra i saggi la monografia Stefano Benni (Cadmo)
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