LA PATENTE Brani tratti dal romanzo autobiografico Blue Nights Joan Didion A certe latitudini c’è un arco di tempo che precede e segue il solstizio d’estate, poche settimane appena, in cui il crepuscolo diventa lungo e azzurro. Questo fenomeno delle notti azzurre non si verifica nella California subtropicale, dove ho vissuto per gran parte del tempo di cui sto per parlare e dove la luce del giorno si spegne in fretta, persa nel bagliore del sole calante, però si manifesta a New York, dove vivo adesso. Cominci a notarlo quando aprile finisce e inizia maggio, un cambiamento di stagione, non proprio un clima più caldo – niente affatto – eppure all’improvviso l’estate sembra vicina, una possibilità, o meglio una promessa. Passi davanti a una vetrina, t’incammini verso Central Park e ti trovi a nuotare nell’azzurro: la luce è azzurra, e nel giro di un’ora questo azzurro s’infittisce, diventa più intenso proprio mentre si oscura e sbiadisce, infine si avvicina all’azzurro delle vetrate in una giornata limpida a Chartres, o all’azzurro dell’effetto Čerenkov, prodotto dalle radiazioni elettromagnetiche nelle barre di combustibile nucleare immerse nell’acqua. I francesi chiamavano questo momento del giorno «l’heure bleue». Per gli inglesi era «the gloaming», l’imbrunire. La parola stessa è densa di echi e riverberi – l’imbrunire, il crepuscolo, il tramonto – parole che evocano immagini di persiane che si chiudono, giardini che si oscurano, fiumi con argini d’erba che scivolano nell’ombra. Durante il periodo delle notti azzurre pensi che la fine del giorno non arriverà mai. Quando le notti azzurre volgono al termine (e finiranno, e finiscono) provi un brivido improvviso, un timore di ammalarti, nel momento stesso in cui te ne accorgi: la luce azzurra se ne sta andando, le giornate si son già fatte più corte, l’estate è finita. Questo libro si intitola «Notti azzurre» perché all’epoca in cui lo iniziai i miei pensieri erano sempre più concentrati sulla malattia, sulla fine della promessa, l’affievolirsi dei giorni, l’inevitabilità della dissolvenza, la morte del fulgore. Le notti azzurre sono l’opposto della morte del fulgore, ma ne sono anche l’annuncio. ___________________________
(…) Firmammo il contratto e ci trasferimmo a New York.
Dove in realtà avevo già vissuto, da quando avevo ventun anni e, appena uscita dal Dipartimento di Inglese a Berkeley, stavo iniziando a lavorare per Vogue (un passaggio così profondamente innaturale, che quando all’ufficio del personale della Condé Nast mi chiesero quali lingue parlassi correntemente mi venne in mente solo il Middle English) a quando ne avevo ventinove e mi ero appena sposata. Dove vivo di nuovo dal 1988. Perché allora dico di aver vissuto la maggior parte di questo tempo in California? Perché ho provato un senso così acuto di tradimento quando ho sostituito la mia patente della California con una rilasciata dallo stato di New York? In fondo si trattava di un passaggio abbastanza semplice, no? Arriva la scadenza e devi rinnovare la patente, che differenza fa dove la rinnovi? Che differenza fa che tu abbia avuto sempre e solo quel numero sulla tua patente da quando ti è stata rilasciata, all’età di quindici anni e mezzo, dallo stato della California? E poi, non c’è sempre stato un errore su quella patente? Un errore di cui eri perfettamente consapevole? Quella patente non diceva che sei alta un metro e cinquantasette? Quando sapevi benissimo che al massimo – (al massimo dell’altezza, il massimo mai raggiunto, l’altezza prima di perdere più di un centimetro per l’età) – quando sapevi benissimo che al massimo eri un metro e cinquantaquattro centimetri? Perché davo tanta importanza alla patente?
Cosa c’era sotto?
Rinunciare alla patente della California forse voleva dire che non avrei più avuto quindici anni e mezzo? Avrei voluto averli?
Oppure questa storia della patente era l’ennesimo caso di «palese inadeguatezza dell’evento scatenante»? Metto «palese inadeguatezza dell’evento scatenante» tra virgolette perché non è un’espressione mia. L’ha usata Karl Menninger nel suo Uomo contro se stesso per descrivere la tendenza a reagire in modo sproporzionato a quelle che potrebbero sembrare circostanze normali, se non addirittura prevedibili: una propensione, ci dice Menninger, comune tra i suicidi. Cita la giovane donna che cade in depressione e si uccide dopo essersi tagliata i capelli. Menziona l’uomo che si uccide perché gli hanno consigliato di non giocare più a golf, il bambino che si suicida perché il suo canarino è morto, la donna che si uccide dopo aver perso due treni. Nota bene: non uno, ma due treni.
Pensateci.
Pensate a quali circostanze speciali siano necessarie perché questa donna la faccia finita. «In questi casi» ci dice il dottor Menninger «i capelli, il golf e il canarino avevano un valore esagerato, cosicché quando sono andati perduti, o anche solo di fronte alla minaccia che andassero perduti, il contraccolpo dei legami emotivi recisi è stato fatale.» Sì, certo, niente da eccepire.
«I capelli, il golf e il canarino», a ciascuno di questi elementi era stato assegnato un valore eccessivo (presumibilmente anche al secondo di quei due treni persi), ma perché? Lo stesso dottor Menninger si pone la domanda, anche se solo in modo retorico: «Perché debbono esistere simili sopravvalutazioni, stime esagerate fino alla stravaganza?». Immaginava forse di rispondere alla domanda limitandosi a sollevarla? Pensava che fosse sufficiente formulare la domanda e poi ritirarsi in una nuvola di ipotetici rimandi psicoanalitici? Possibile che io avessi interpretato il cambiamento della mia patente dalla California a New York come un’esperienza che comportava «legami emotivi recisi»? La consideravo davvero una perdita?
La consideravo davvero una separazione?
Brani tratti dal romanzo autobiografico Blue Nights, Il Saggiatore editrici, Milano, 202. Traduzione di Delfina Vezzoli. Joan Didion (Sacramento, California, USA, 5 dicembre 1934) è una giornalista, scrittrice e saggista statunitense vincitrice del National Book Award nel 2007. Divenne famosa negli anni settanta, quando la critica Michiko Kakutani e il noto autore James Dickey s'interessarono favorevolmente a The White Album (L'album bianco), scritto nel 1979; la Kakutani l'ha elogiata sul New York Times del 10 luglio dello stesso definendola la scrittrice in lingua Inglese dalla prosa più bella di oggi. Attualmente vive a New York. Il marito John Gregory Dunne, deceduto nel 2003, è stato anch'esso affermato scrittore. Autrice di un certo peso nella Letteratura americana, si è interessata sin da giovane alle teorie complottiste, alla paranoia e allesociopatologie esprimendosi in un colorato stile ermetico, sibillino, influenzato dagli studi liceali sulla cultura dell'Antica Grecia e suglioracoli in particolare. L'interesse per l'esoterico e l'occulto, tuttavia, non hanno reso la sua scrittura bizzarra o irreale, piuttosto alquantogotica. Appassionata anche di Politica, ha preso parte alla campagna elettorale presidenziale del 1964 sostenendo il repubblicano Barry Goldwater nella sfida contro il democratico Presidente uscente Lyndon B. Johnson, il successore di John Fitzgerald Kennedy; la vittoria di Johnson fu quasi totale: solo sei dei cinquanta Stati della Federazione americana sostennero il candidato repubblicano. Giornalista abile e di una certa competenza, grazie anche al sostegno dell'all'epoca più noto giornalista politico Noel Parmentel, fu assunta dalla conservatrice - e quindi repubblicana - National Review, all'epoca diretta da William Buckley. Tuttavia, forse a causa della comparsa sulla scena politica del chiacchieratissimoReagan, divenne successivamente progressista.
|