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Sagarana BASILICO


Brano tratto dal romanzo Triangolo delle acque


Caio Fernando Abreu


BASILICO



 
(…) – Bene, e adesso raccontami qualcosa – disse Persio.

Santiago guardò al di sopra della testa dell'altro. Il quadro con fauni e baccanti intenti a pigiare grappoli d'uva sotto i piedi in una botte di legno.

– Che cosa?

– Come che cosa? Una cosa qualsiasi. Eccitante, scabrosa, malinconica, eccentrica, deprimente, stimolante, osé, meschi­na, folle, meravigliosa.

– Ma non ho niente da raccontare.

– Allora inventa qualcosa, ma fallo subito. È tutta la sera che parlo io. E visto che sono in stand-by, approfittane sennò ricomincio. Tocca a te, adesso.

– Ma a me piace ascoltare.

– Certo che ti piace. Sono una persona interessantissima, io, o no? Ma per amor del cielo, smettila di fare la parte dell'ascoltatore sottomesso & rispettoso, altrimenti finisce che mi addormento prima che arrivi la pizza. Non è bello morire di sonno a stomaco vuoto, ti pare?

Santiago arrossì:
– Ma raccontare cosa?

– Qualsiasi cosa, te l'ho detto, sennò divento matto. E fallo subito, altrimenti quelli cominceranno a puntarci gli occhi addosso.

– Quelli chi?

– Tutto il locale. Le mamme, le grassone possessive, i barn­binetti insopportabili, i mariti succubi, le nonne che ne hanno le palle piene.

Santiago si guardò intorno. Individuò tre ragazzine bruttine al tavolo accanto, più in là una coppia annoiata, lei grassa, le trecce fissate in cima alla testa, lui in abito blu, forse lo stesso che usava al lavoro, baffetti fini, poi un tavolo grande pieno di bambini schiamazzanti. Visi stanchi, senza mistero. E loro erano solo due ragazzi non molto giovani in una sera di sabato. Niente di che. Normali, urbani, forse anche carini.

– Ma non ci sta guardando nessuno.

– Ancora no, ma tra un po' lo faranno se continui a star­tene zitto. In silenzio profondo. God! Deep silence, non è carino? Una coppia in fase di separazione. Quell'aria di Tedio, Rancore & Accuse Reciproche. Sai come succede, no?, si chiederanno. Eccome, risponderanno. O invece si sono appe­na conosciuti, cotti l'uno dell'altro, neanche hanno scopato ancora, un tantino impacciati, con la bava alla bocca per la gran voglia che son costretti a contenere. Quella cosa di guardarsi negli occhi. Un sorso, una sigaretta. Tante sigarette, un posacenere. Forse fino al punto di finire tutto il pacchetto e di doverne fumare una insieme. Perversione suprema, leccare la saliva dell'altro. Un contatto casuale di mani, totalmente casuale, quando si batte il dito sulla sigaretta, rapidamente. Così.

Persio batté la sigaretta sul posacenere, e fece sì che la punta di un dito accarezzasse furtiva i morbidi peli sul dorso della mano di Santiago. Santiago aprì le dita. L'indice sospeso a mezz'aria. Persio non fece una mossa.

– Dài, di' qualcosa. Vuoi che mi metta a strisciare ai tuoi piedi? Altrimenti penseranno che siamo una coppia in fase di separazione. O una coppia mielosa di romanticoni. Dov'è finito il tuo super ego? Cosa vuoi che pensino di noi, o di me, qui prostrato ai tuoi piedi? Indipendentemente da quello che penseranno, le mamme strizzeranno l'occhio ai loro mariti – che a letto sono un disastro – ripetendo a bassa voce, scanda­lizzate, guarda, amore, quei bei ragazzi, Dio mio, viados! Santa Madonna1, come si dice viados in italiano? – Enfatizzò la parola, come di solito adorava fare. Le ragazzine si girarono curiose. – Ecco che cominciano a guardarci, hai visto? Vuoi che si mettano a pensare questo di te, eh? Che siamo viados, froci, finocchi, ricchioni, culattoni, busoni, checche, omosessuali, invertiti? Dimmelo, dài! – Si colpì energicamente il ginocchio sotto il tavolo. – E allora, come disse Michelangelo picchian­do col martello: parla, cazzo!2

Santiago arrossì:

– Non so proprio cosa sto facendo qui. Non sono ancora riuscito a capire per quale motivo me ne sto qui con te.

– Perché ci siamo incontrati in sauna sabato scorso. E io ti ho proposto di vederci, ti ho detto di venire da me uno dei prossimi sabati. O qualcosa del genere, e tu sei venuto. Mi hai chiamato oggi pomeriggio, accettando quasi commosso il mio invito. – Persio agitò il calice di cognac, poi lo svuotò in un sorso, ergendo il collo per vederlo meglio. – A quel punto sono rimasto sorpreso che tu abbia chiamato, e.

– Sei rimasto sorpreso?

– Decisamente. Vuoi sapere una cosa? Non esco quasi mai, e non vedo quasi nessuno. Devo chiedere ai violinisti là in fondo al locale di cominciare a suonare?

– Neanch'io.
– Neanch'io cosa?

– Non vedo quasi nessuno, e non esco quasi mai. Faccio lezione, poi torno a casa. E mi metto a leggere o vado al cinema. Vado al cinema quasi tutti i giorni. O mi vedo un paio di film in Tv, ogni sera. E continuo a vedere le cose, ogni cosa, come. Come se i miei occhi fossero delle lenti. Le lenti di una cinepresa, un close, ecco, vedo più da vicino. Uno zoom, e allon­tano l'immagine.

– O l'avvicini.

– O l'avvicino, certo. Ma anch'io mi sono sorpreso di averti telefonato.

– E adesso non riesci a capire perché sei qui?
– Non riesco a capire?
– L'hai detto tu.

– L'ho detto io? Non saprei... È successo tutto così. Quasi neanche ti conosco. – Ebbe un'esitazione. E aggiunse: – Persio.

– È passato tanto tempo.
– Tanto tempo, sì.

– Stavo quasi per dirti di no, non posso, non voglio, non devo, sto male, ho scoperto di avere l'AIDS, ho un impegno, ho tentato di buttarmi dalla finestra. Ma prima che me ne rendes­si conto avevo già detto ti aspetto alle otto, no? E invece erano solo le sette e mezza quando ho sentito suonare il campanello e non pensavo che fossi tu. God, tutto così tipico. Avrei voluto farmi una doccia, prima, e la barba, qualche profumo, un tocco di charme, ecco. Volevo fare una buona... Oddio, anche se è una cosa un po' stupida, volevo fare una bella impressione. Volevo che tu mi trovassi carino. Mi ero fatto di canne e di coca. Storto, mi muovevo tutto storto. Ero bell'e partito. Lo sono ancora un po', ho cominciato l'atterraggio solo dopo la doccia. Avrei guardato attraverso l'occhio magico e non avrei aperto, a meno che non ci fosse stato li un. Un James Caan, un Nuno Leal Maia, o un bel daddy qualsiasi. Ma senza accorgermene ti avevo già aperto la porta e tu mi hai detto ciao, e io dovevo essere impresentabile, una faccia da Christiane F. prima che si disintossicasse, ti ho detto ciao con gli occhi rossi, il naso un po' gocciolante, e con quell'alito di chi si è strafatto di canne. La pelle, la pelle, hai notato com'ero pallido? Allora sei entrato e mi hai chiesto come stavo, e io mi sono precipitato a met­tere quella musica, dovevo fare qualcosa alla svelta, e ho detto.

– Come questa musica.
– Cosa?

– Come questa musica – hai detto. – Proprio come questa musica.

Persio smise di parlare, e bevve un altro sorso di cognac.

– Ecco, è stato proprio così. Flashback diretto. Entra Years of solitude nella colonna sonora. Solo un accenno, anni. Anni di solitudine. A proposito di flashback, sai che ogni tanto mi viene voglia di ritornare laggiù?

– Tu? Ma dài...

– E invece sì. Mi viene proprio una voglia pazza, ogni tanto, di tornare al Passo da Guanxuma 3. Una follia? Forse, ma mi viene addosso una stanchezza di questo posto. Un senso di nausea, a volte. Un cinismo che ti invade lentamen­te. Soprattutto quando piove, e piove sempre. Tu non ce l'hai?

– Che cosa?
– La voglia di tornare.
– Adesso è troppo tardi.

– Te lo immagini, io di nuovo laggiù? Non avrei niente da spartire. God! sarebbe proprio orribile. Non avrei proprio niente da spartire. – Chiamò il cameriere e chiese un altro cognac. – Qualche canna te la fai? Allora ok. Non voglio sob­barcarmi la colpa da solo. Ho bisogno di complici. – Prese gli occhiali di Santiago e si mise a rigirarli tra le dita.

– Già a quell'epoca non sentivo nessun senso di colpa. Figurati ora. Mi sono sballato tanto, in questi anni. E così adesso apriamo il capitolo traumi, o hai qualcosa in contrario?

– Continua pure.

– È comunque più prudente avvisare. È pur sempre danger zone.

– Non importa.

– Ooh, ma come sei comprensivo. – Con la lente degli occhia­li toccò la mano di Santiago. – Lo sai che quando uscivo di casa le ragazzine mi gridavano froooocioooooo! No, non era frocio! Nemmeno checca. Forse era ricchione, o qualcosa di simile.

– Finocchio – disse Santiago. – Era finocchio che si diceva.

– Sì, ecco, gridavano finocchio. Tutte insieme. Ai ai, urlavano. Ad alta voce, perché ti volevano ferire. Volevano sangue. E io neanche lo ero, cazzo, non ne sapevo niente. Non capi­vo niente. Ero super innocente, non avevo ancora neanche scopato. Quello ho incominciato a farlo qui, quando avevo già quasi vent'anni. E complessato. Figurati che baciavo con la bocca chiusa. – Sorrise, mentre la sua unghia mangiucchia­ta seguiva il contorno della montatura delle lenti.

– Sarà anche una domanda idiota, ma... Ti è piaciuto?

– Piaciuto? E stato uno schifo! Ma non ha più alcuna importanza. Adesso è tutto superato. Ah, così Maturo & Equilibrato. Cinque anni in terapia, tutto sotto controllo. Ma era dura laggiù. Tutte quelle ragazzine che mi urlavano con­tro la mattina quando andavo a scuola. Tutti i giorni. A mez­zogiorno, quando tornavo. Tutti i santi giorni. God! Che inferno. Settimana dopo settimana. Anno dopo anno. Non avevo più il coraggio di uscire di casa. Mi mettevo a piangere di nascosto, stupidamente, chiedendomi terrorizzato Dio mio, Dio mio, non è che sono proprio quello che gridano che sono? – Infilò il dito nel bicchiere vuoto e lo strisciò sul fondo. Quindi lo passò sulle gengive. – Ce n'era solo uno in paese, ricordi?

– Sì, era Benjamin, il barbiere. Si è ucciso, lo sapevi?

– Ovvio, no? E ha fatto benissimo. Saggia decisione. Non gli restava altro da fare se non tagliarsi i polsi.

– Si è impiccato. Proprio nel mezzo della piazza. In una domenica di Pasqua. Sulla pianta di fico. Il prete lo ha trovato quando ha aperto il portone della chiesa, prima della messa.

– Perfetto, proprio perfetto. L'Anonima Tragedia di Provincia. Ma fa lo stesso. Quelle ragazzine erano delle vere e proprie assassine. – Si guardò intorno, fissando le persone, una per una. – Come questi qui, sono tutti assassini. Che non perdonano, non accettano. Non perdonano mai, ecco. E neanche lo capiscono che non è neanche una questione di perdono. Se uno di loro si mette a discutere con te, quello sarà sempre l'ultimo insulto che ti sbatterà in faccia. Il più offen­sivo, secondo loro. Non sarai mai nient'altro se non un frocio schifoso. Una a-ber-ra-zio-ne. Nonostante tutti i Masters & Johnson4 di questo pianeta. Che cosa deplorevole, amico mio. Santiago si sfregò le mani. E sviò lo sguardo. – Ce n'era un altro – aggiunse. – Come si chiamava? Ary, era quello dell'Istituto di Bellezza.

– 'Sta mania dei froci di infilare sempre le mani nei capel­li degli altri.

Santiago si mise a ridere.
– Non era così carino.
– Lo so. Era triste?

– Triste? Hai detto triste? Era spaventoso. Era di una solitudine orribile, era di una disperazione da panico. Era... Era di un'aggressività, di un disprezzo, di una crudeltà. Non ti ricordi? – Me n'ero già andato.

– Neanche un amico avevo. Solo Peter Pan.
– Chi?
Persio passò lievemente l'indice sui cerchi violacei degli occhi.
– Adesso, sullo sfondo, appare una slide di Pollyanna.

Avevo già visto il film, il libro l'ho comprato dopo. La versio­ne di Monteiro Lobato. E poi mi hanno regalato la traduzio­ne, bellissimo. Non c'era per caso un album, un album di figu­rine? Mi ero innamorato perdutamente di Peter Pan. Quando andavo a dormire, la sera, volevo che quelle ragazzine schifose crepassero tutte mentre io volavo sopra le loro teste. Verso la Terra del Mai. Peter Pan mi veniva a prendere ogni notte, e insieme volavamo verso la Terra del Mai. God! Ho interioriz­zato completamente il personaggio di Wendy, quella puttanel­la. Non volevo crescere. L'idea di crescere mi faceva venire la nausea. Gli adulti mi facevano venire voglia di vomitare. – Il cameriere portò il cognac, e lui lo bevve quasi per metà, in un sorso solo. Passò poi il calice a Santiago. – Ma io non avevo in mente niente di perverso. Volevo solo stare vicino a lui. Al massimo stendermi abbracciato a lui. Nello stesso letto. Neanche un bacio, niente. Solo un abbraccio, bello stretto. Ridicolo, ero così ridicolo. E un po' ritardato, immagino. Fino a diciotto anni non sapevo neanche cos'era una sega, sarà mai possibile?

Le ragazzine del tavolo accanto si agitarono. E cominciarono a ridere piano. Persio le guardò. Accese un'altra sigaret­ta. Tirò una profonda boccata, e ripeté ad alta voce:

– U-na se-ga. Non sapevo neanche cos'era. Quelle ragazzine mostruose. Adesso devono essere tutte grasse, delle balene, delle orribili megere piene di vene varicose, frigide, con un'infinita prole catarrosa attaccata alla sottane, malfottute. Con mariti che lanciano rutti e scoreggiano cavoli, con pance gonfie di birra, con il cazzo afflosciato, che si scopano le domestiche di nascosto. Come cani. – Sollevò la mano e agitò la sigaretta a mezz'aria. La cenere cadde. – E non dirmi che perdonare-è-divino. Gli auguro le cose peggiori, a tutte loro. La lebbra, il cancro alla pelle. Cazzo, continuo a essere isteri­co. Non dovrei provare tutto questo odio. Ma mai nessuno, porcaputtana, mai nessuno. Uff, che deplorevole orgia di autocommiserazione. Però proprio non ce la faccio a dimen­ticare. So che non è niente di spirituale, neanche un po'. – E all'improvviso, con sguardo fulgente: – Ma tu non avevi una ragazza?

Santiago arrossì di nuovo:
– Sì, si chiamava.

– Fermo, non dirlo. Mi ricordo, adesso mi ricordo. Te lo dico io. Era una delle più mostruose di tutte. Aveva un seno enorme, e una frangiona sulla fronte. Aveva un nome ridicolo, non era così? Janete? No, Salete? No, adesso ricordo: Rejane, santiddio, era Rejane Magalhàes, la figlia del Dottor Antoninho.

Santiago iniziò a ridere.

– Erano due sorelle, no? Regina e Rejane. Regina portava gli occhiali, aveva i baffi e una gonna di jeans. Era l'unica gonna di jeans in città. Studiava da queste parti, e tornava a casa solo per le vacanze. E portava sempre una amica. Aveva amiche smilze e asciutte, coi capelli lisci, occhiali e coda di cavallo. Dicevano che era una virago, femmina macho, un tantino comunista. Mia madre giurava che non era così. Mia madre era un po' gay, era pronta a mettere la mano sul fuoco per tutti i gay e le lesbiche incompresi della città. Ovvio, con il figlio che aveva... Garantiva che quello che Regina aveva in abbondanza era la personalità. Una personalità molto forte. Tu, da ex-futuro-cognato, dovresti sapere tutta la verità su Regina Magalhàes, no? Era lesbica?

– Eccome. Una volta l'ho incontrata al Ferro's Bar. Con tanto di moto e giaccone in pelle.

Persio si mise a ridere così forte che tutta la famiglia del tavolo accanto si girò a guardarli:

– Dài, non ci credo. E quanto aveva di scarpe?
– Cinquanta per piede. Punta larga.
Persio rise dando colpi sul tavolo:

– Ma tu sei fuori, amico. Sei totalmente fuori. Ma com'è che ti eri messo ad andare con Rejane Magalhàes, con quelle tettone alla Jayne Mansfield? Abitavano all'angolo della via.

Quando uscivano per andare in centro verso sera, dopo la doccia, mio padre si metteva a guardarle e diceva ma com'è possibile, gente, la figlia di Antoninho non si sarà mica messa a mangiare gli ormoni per polli.

– Eravamo fidanzati.

Persio rise tanto che quasi cadde dalla sedia, e il fumo gli andò di traverso. Bevve un sorso di vino. Mentre si sfregava gli occhi arrossati, il cameriere mise la pizza in tavola. Santiago ne tagliò un pezzo. Prima di assaggiare vi soffiò sopra.

– Non era canfora. Né rosmarino.
– Che cosa?

– L'odore. L'odore che ho sentito quando siamo entrati. Era basilico.

– Pianta di Oxum – Persio alzò la mano verso il soffitto, pronunciando di nuovo il saluto: – Ora ye ye o5, madre mia! Salvami tu, con la benedizione di Oxalà e la protezione di Ogum. Dài, continua a raccontare. Dovevi essere stato totalmente mongoloide. Gesù, fidanzarsi con Rejane.

– Con anello, divano e tutto il resto – confermò Santiago.

– Anni e anni di seguito. Sei anni. Aveva già il corredo pron­to. Ma io sono venuto a studiare a San Paolo e.

– E hai conosciuto un tipo.
– Come fai a saperlo?

– È un classico, tesoro. Mica ti devi vergognare. Si comin­cia sempre così, con un lui che incontra una lei. Ma dopo un po', per la disperazione di lei, lui incontra l'altro. E gli piace di più, ovvio. Vai avanti, dài.

Santiago esitò, rigirando la pizza con la forchetta. Addentò quindi un pomodoro. Anche senza occhiali, le bac­canti nude, visione nitidissima, i satiri con le corone di foglie di vite nei capelli riccioluti. Le ragazzine attentissime al tavo­lo accanto. Masticò lento, le mani messe con cura sulla tova­glia, quasi senza toccare il tessuto, una accanto all'altra. Persio lo spiava, con occhi divertiti, un po' affettuosi forse, leggermente arrossati.

– Un tipo, ecco, in università. Roberto, si chiamava Roberto. Ma tutti lo chiamavano Beto. Io mi portavo sempre un libro sotto il braccio, e volevo, credo, che tutti vedessero la copertina del libro. Che pensassero alcune cose su di me, quello che leggevo, o altro. Me ne restavo da solo al Centro Accademico e leggevo quel libro. Non era sempre lo stesso, ma era scelto a proposito, in modo che si vedesse. Lo tenevo per una settimana, poi lo cambiavo. Ero lento a leggere a quei tempi. Uno bel giorno arrivò lui, così, all'improvviso, e mi chiese che libro era.

– Splendido – disse Persio. – L'hai studiata nei minimi par­ticolari, eh? Con quella faccina sorniona. E che libro era, allora?

– Era Clarice Lispector, stavo leggendo Vicino al cuore sel­vaggio. Mi sa che sono rimasto a guardarlo per un bel po' prima di riuscire a dire il titolo del libro. Era temerario leggere Clarice in quel periodo, nessuno ci capiva niente, dicevano che era difficile. Lo pensavo anch'io, ma mi piaceva. Clarice mi piaceva. Aveva un modo di vedere le cose nascoste, dal di dentro, lo stesso modo che pensavo di avere anch'io. E solo io. Sono rimasto a guardare Beto. Era carino, lo avevo già visto e avevo pensato, ma che carino che è. Accidenti, quan­t'è carino. Portava una camicia a scacchi. Di madras, non è così che si diceva allora? Mi ricordo ancora oggi. A scacchi, un po' scolorita, alquanto casual, rosso, verde. Madras, che strano, non è anche il nome di una città indiana? Lui allora si è sedu­to e ha cominciato a parlare di Kafka e Sartre e Camus. Di Simone no, diceva che Simone era una farsa. Poi mi ha chie­sto se avevo letto un libro che si chiamava Polvere.

– Dusty answer – Persio sorrise. – Rosamond Lehman. Anche Santiago sorrise.

– Proprio quello. Judith, Roddy.
– Il fiume, la scuola.

– E Jennifer. Mi diceva che dovevo leggerlo. Che se mi piaceva Clarice dovevo leggere Polvere. Che lui me l'avrebbe prestato, assolutamente. E me lo ha portato, il giorno dopo. No, non il giorno dopo, che era sabato. E neanche domenica. Lunedì, me lo ha portato lunedì. Ho continuato a pensarci tutto il fine settimana, pensavo che se ne sarebbe dimenticato. E invece no. L'ho aspettato fumando a uno dei tavoli sul fondo. Nell'intervallo delle dieci, che era più lungo, non fumavo mai. Minister, avevo comprato un pacchetto di Minister. Era un libro con la copertina rigida, un po' ingialli­to. E da lì abbiamo cominciato a prestarci libri, andare al cinema insieme, il pomeriggio. Glauber, Godard, Truffaut, e altri. A lui piaceva Françoise Dorléac, io adoravo Rita Tushingham. Poi alcuni concerti, la sera. Mozart, Beto era appassionato di Mozart. Soprattutto un concerto per pianoforte in Si bemol­le. A teatro, qualche volta. Non ero mai stato a teatro. Ci siamo andati una sera, c'era Sapore di miele. Lo conosci?

– Certo. Quella storia della ragazzina incinta che va a vivere con un gay. C'era anche una musica, vero? A taste of honey – Persio si mise a canticchiarla, battendo con il coltello sul calice. – Ta-ram-ram. Taram-taram-taram.

– Poi siamo andati in un bar e abbiamo cominciato a bere. Scriveva poesie. Ne aveva scritta una, com'è che faceva? Me l'ha fatta vedere quella sera. Ah, adesso ricordo. Me l'ha letta tutta, cominciava così: Navigo nel tuo silenzio, amico mio, uno stra­no labirinto di porte false e desideri di marmo rotondo.

— Marmo rotondo?
— Si, perché?

— Niente, che strano. Mi ha fatto pensare. Rotondo come i sederi di Rodin. E la poesia era per te.

— Certo che sì. Avevamo solo vent'anni.
— Non c'è bisogno che ti giustifichi.

— Non mi sto giustificando. Era carino. Avevamo bevuto tanto. Cuba, bevevamo cuba libre. Ha avuto un gran bel corag­gio a recitarmi quei versi subito dopo aver visto quella pièce teatrale. Siamo usciti insieme, stavano già chiudendo il bar, e sulla piazza... Eravamo ubriachi marci. Sulla pizza ci siamo abbracciati con forza. Con molta forza. Per molto tempo. Ricordo che stava tremando. Forse tremavo anch'io. Poi mi ha dato un bacio, sulla bocca. O forse l'ho baciato io, non ricor­do. O lo abbiamo fatto insieme, contemporaneamente.

— E poi siete andati a letto?

— Quella sera stessa. Io stavo in un piccolo hotel, non ci ha visto nessuno.

— E stato bello?

— È stato... È stato complicato. Complicatissimo. Io nean­che sapevo scopare. E neppure lui. Solo dal collo in su. Eravamo fissati li, come se il resto del corpo non esistesse. Niente cazzo, o altro. Ma è stato bello. E non importava che non fossimo riusciti a farlo. — Solo vent'anni, — ripeté — ave­vamo solo vent'anni.

Santiago incrociò le posate e allontanò il piatto.
— E allora?
— Allora cosa?
— Allora, dopo. Cos'è successo dopo?
Santiago accese una sigaretta.

— Abbiamo vissuto insieme per quasi dieci anni. Be', ogni tanto io partivo, viaggiavo, o partiva lui. Ma quando uno di noi tornava, la cosa continuava. Ci si lasciava, a volte. A volte, ma non tante volte, scopavamo con altri. Ma tornavamo sempre.

— Dieci anni hai detto? God! una bella passione, di quelle che durano. SEI anni con Rejane Magalhàes, DIECI anni con Beto. Cazzo, ma come fai? Io non sono mai riuscito a scopare per più di un mese con la stessa persona. Mi prende sem­pre un non so che, una voglia di chi ormai conosce tutto di quel corpo, di quel profumo, di quel gusto. Allora parto all'attacco.

Santiago esalò il fumo dalle narici e rimase ad osservarlo mentre si spandeva sopra la testa di Persio. Come un'aureola, che velava i contorni dei satiri, delle baccanti. I grappoli d'uva scivolavano sgretolandosi lungo i bordi della botte. Viola su verde, si mischiavano all'erba alta cosparsa di fiori gialli. Madras, mudrà gesto immobile.

– Quanto tempo, eh?

– Altroché! E dopo? Aspetta. Dieci anni. Se avete comin­ciato a scopare quando avevi circa vent'anni, quanti ne hai adesso?

Santiago bevve un altro sorso di cognac. E disse:

– Trentatré. Son passati quattro anni da quando Beto è morto. (…)

 
 
 
NOTE:
 
1 In italiano nel testo [N.d.T.]
2 In italiano nel testo [N.d.T.]
3 Luogo mitico ricorrente nell'opera di Abreu, a cui l'autore fa converge-re l'immaginario legato all'infanzia dei suoi personaggi [N.d.T.]
4 Coppia di scienziati americani che per primi studiarono il comporta-mento sessuale umano [N.d.T.]
5 La stessa espressione che si incontra a p. 116: è il saluto di Oxum, divi­nità del candomblé insieme a Oxalà e Ogum [N.d.T.]
 
 
 







Brano tratto dal romanzo Triangolo delle acque, Quarup editrice, Pescara, 2013. Traduzione di Bruno Persico.




Caio Fernando Abreu

Caio Fernando Abreu: Vincitore in vita di ben due premi Jabuti, circondato poi – in tutto il mondo – da un amore postumo e straziante, Caio (nato a Santiago do Boqueirão nel 1948 e morto nel 1996) ha scritto molto e quasi sempre “in fretta”: “lo scrittore brasiliano è uno scrittore che opera nei fini settimana, nelle ore libere, nei giorni di festa, diceva a Vera Aguilar in un’intervista del 1988. Autore di numerose raccolte di racconti, romanzi, intensissime cronache, sceneggiature cinematografiche e teatrali, scopertosi portatore del virus dell’aids nel 1994 (malattia di cui è morto due anni più tardi), ha continuato fino agli ultimi giorni a trasmetterci la testimonianza vivida del suo amore per la vita.





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