UNA COSA MOLTO STUPIDA Erri De Luca Corto e amaro il mese di febbraro, si diceva da noi di un Sud senza difesa per l’inverno. Al paese del sole succedeva la puzza per il freddo. Spella, sviscera, svuota, sgambetta il freddo, ‘o fridd’. Nei vicoli della città stesa sul mare si gelano pure gli strilli, per non buttare all’aria il poco di calduccio del respiro. I corpi dei vecchi e dei bambini rinsecchiscono e si torcono nelle dissenterie. Adda passa ‘vierno, ha da passare inverno dice l’uomo che vive in una stanza al piano marciapiede con moglie, figlio e padre anziano. È domenica e si sta intorno alla tavola che è costituita dalla porta del bagno sfilata dai cardini e appoggiata sul letto, con una tovaglia sopra. Nello spazio minuscolo ci dormono pure, due sul letto, il figlio su un materasso in terra e su una branda il vecchio, che già magro di suo, si fa più stretto. Il passaggio di febbraio per lui è un cunicolo in cui strisciare. Il vento di tramontana spazza nuvole, vecchi e bambini. “Che dite, don Saverio,” dice l’uomo avvolto in una coperta militare reduce di due guerre al padre che sta seduto sulla tazza del gabinetto, “voi che avete visto ottantuno inverni, quanto manca alla fine di questa penitenza?” Il vecchio per risposta ha la scarica di un brivido di viscere e di freddo. È il secondo giorno di tramontana e un terzo segue sempre. Il voi dell’uomo al padre è l’ultimo resto di un rispetto finito. Quando in poco spazio uno si trova scosso dagli svuotamenti di intestino pure se sta a digiuno, quando si è di peso e di puzza agli altri, il rispetto se ne va coi secchi d’acqua dentro lo sciacquone. Il ragazzo che studia fa il saputo e interviene a favore dell’inverno: perché debella microbi e infezioni. Debella? Che parola può essere, chiedono i due genitori compiaciuti del figlio erudito. Il vecchio trema nell’angolo buio del gabinetto senza porta. Debella, dal latino, fa morire, spiega il ragazzo e involontariamente guarda verso il nonno. Certo, senza di lui ci sta più spazio e quell’odore in meno. Da bambini e da vecchi non esiste il verbo morire, rimpiazzato dal verbo passare. L’inverno oppure il vecchio: uno dei due deve passare l’altro. A Davide re in Gerusalemme in ultima età veniva messa nel letto una ragazza, non per amore, ma per riscaldamento. Al vecchio basterebbe un po’ di caldo ai piedi, che poi ci pensa il sangue a distribuire un poco di tepore al resto dello scheletro. Questo può fare la gioventù riguardo alla vecchiaia, un travaso di temperatura come da Abigail a Davide. Al vecchio basterebbe una parola buona. Seduto sulla tazza mentre gela gli spuntano due lacrime tiepide che si perdono nel bianco della barba non rasata da giorni. La loro spremuta arresta i brividi, strano che pure un malincuore di mortificazione possa riscaldare. Succede anche con le risate, ma non è il momento.
“Al vico Setteventi è morta ‘onna Speranza,” dice la donna. “È stata soffocata dal fumo del braciere.” “Ossido di carbonio,” dice il figlio che studia, “un gas incolore, inodore, insapore, più pesante dell’aria.” “La morte dei puveriellli,” dice l’uomo, che ci tiene all’ultima parola. “È un gas che ci sta e nun te n’adduone?” chiede la donna. “Ci sta e non te ne accorgi,” risponde il figlio che la corregge in italiano. “È come la morte,”conclude l’uomo.
Il vecchio cerca di tirarsi in piedi, si appoggia, si puntella per far risalire mutande e pantaloni, due, tutto il suo guardaroba addosso, pure due camicie e due calzini. Intanto rimugina che la morte un odore lo tiene, di gabinetto, di scarpe vecchie, muffa. I topi di notte escono e lo fiutano addosso ai vivi che stentano. Il sapore è di acido di stomaco digiuno. E sarà pure un gas più pesante dell’aria del lungomare, ma non dell’aria del vicolo che fa andare curvi sotto il peso del freddo. A tavola senza mal intenzione la donna e il figlio guardano nel piatto del vecchio. Il mezzo chilo di pasta è sparso in quattro scodelle, la porzione più scarsa va a lui che ha pochi denti. Con quelli rimasti è lento a buttare in gola la pasta grossa al dente. Usano quella perché fa più volume dentro il piatto. E il vecchio ci mette più tempo e il ragazzo, che finisce prima, va di forchetta nel piatto del nonno. A volte il vecchio si strozza per il boccone inghiottito in fretta e gli tocca il commento della nuora: “Facite chiano, masticate bene. All’età vostra vi dovete mantenere leggero”. Non è vero, e non a febbraio, magari a luglio se ci arriva. Ma ora tiene fame di saziarsi e non succede, non arriva in tempo. Allora oggi, domenica, il vecchio ha preso il piatto e se l’è portato al gabinetto. Se l’è mangiato piano, seduto sulla tazza. La mossa ha sparigliato, infastidito. La donna non si è tenuta e ha commentato: “Quello che mangia lo va a scaricare subito là dentro”. L’uomo ha alzato le spalle, il figlio ha scosso la testa. “Perché? Voi ve lo conservate in corpo sotto chiave?” ha risposto dalla tazza il vecchio. Ha risposto, ha reagito, la donna sta per scattare, l’uomo la trattiene. “Babbo per favore, stiamo a tavola.”
Ecco è successo: loro, la famiglia, da una parte, dall’altra il vecchio a carico e a zavorra. “Fa pure l’insolente,” dice la donna all’uomo, che le lascia l’ultima parola. Fai campare gli altri: il vecchio sente le frasi nella testa dei parenti e non serve tapparsi le orecchie. Fai campare gi altri, che vai cercando ancora dentro il piatto, seduto al gabinetto? È com’era quando soldato in guerra la sua vita proseguiva mentre quella degli altri no e gli sembrava che la sua salvezza costava la perdita delle altre intorno. Questo febbraio è un campo di battaglia, ma stavolta non ci stanno le vite dei coetanei da sfoltire al posto suo, in cambio della sua. Stavolta è circondato e sta pure da solo. Finalmente un po’ di sole è sceso fino a terra strisciando giù dai muri, tra i panni stesi in alto che ingombrano il passaggio. Il vecchio esce e si mette con la sedia sul marciapiede. Si appoggia al muro e succhia a faccia in su un poco di tepore dalle mammelle secche di febbraio. A palpebre calate, così pigliano caldo pure loro. Mentre gusta la grazia di quell’elemosina, cade dall’alto fuori da un canestro il guscio pieno di una mandorla. Gli finisce in braccio senza rumore. Non fa a tempo a sussultare, apre gli occhi, la prende, poi guarda in su, sia per ringraziamento sia per vedere se ne piove un’altra. È una mandorla che l’anno scorso è stata un fiore bianco e ora è un piccolo forziere di legno con un frutto dentro. Per aprirla prova a schiacciarla sotto il piede della sedia e appoggiandoci il peso. Il guscio non cede e il vecchio vacilla, traballa, si regge al muro per non cadere dalla sedia. Raccoglie la mandorla illesa e se la mette in tasca. Dura poco il sole di febbraio sul marciapiede, risale i muri e la temperatura scende a tuffo. Il vecchio non vuole tornare nella stanza. Ha la mandorla in tasca e il desiderio zingaro di andare dietro al sole. Lascia la sedia e si avvia in discesa, le ossa appena intiepidite, verso il mare, dove il sole si trattiene fino alla discesa dietro la collina bassa di Posillipo. Nel palmo stringe il guscio e sente i battiti del suo sangue intorno. Se piovevano fichi secchi era più facile. Nei suoi gesti è entrata una vaghezza, imprecisione, la testa gira dietro a un’euforia improvvisa. Dev’essere perché va dietro al sole che gli presta il cappotto. La mandorla sta nel suo guscio fortezza, ma quando la vincerà darà calore più di un bicchiere di vino guerriero. Intanto al borgo di Santa Lucia, abbagliato di luce raddoppiata dal riflesso sull’acqua. Ci sbatte sopra e poi rimbalza addosso, promessa di calore pieno appena trova un punto riparato. Il vecchio sa dove: dopo la roccaforte di tufo piantata sull’istmo inizia la diga foranea, blocchi di pietra bianca ammucchiati a fare sbarramento quando il vento gira a libeccio e lancia la cavalleria delle onde. Tra i massi c’è un posto al riparo dove lui d’estate passa i pomeriggi a pescare con la canna. Intanto è sbattuto dal vento alle spalle che potrebbe alzarlo e buttarlo a mare come fa con gli ombrelloni dei bar. Il vecchio resiste, contrasta, stringe più forte la mandorla nel pugno come un ormeggio. Nelle orecchie il vento fa un chiasso di stadio che applaude, sulla nuca gli assesta scappellotti, sui panni esegue una perquisizione. Il Vesuvio ha il collare di neve e sopra si vedono i mulinelli alzati dalla tramontana. Il mare è mosso ma spinto verso il largo non contro la scogliera. La tramontana aiuta la partenza delle navi, ostacola l’arrivo. Andatevene: è il suo invito. Il vecchio arriva alla scogliera, scavalca la balaustra appoggiandoci le mani, lento, per non farsi buttare a terra prima del traguardo. A quattro zampe avanza tra le rocce squadrate fino al punto che sa. Eccolo il posto suo, invisibile dalla strada, protetto dal vento. La roccia bianca è calda. Il vecchio si abbassa, si accovaccia, sforzandosi di sedersi piano, scivolando di schiena contro il sasso, tanto peggio per la giacchetta che non ce la fa più a seguirlo. Si siede, affanna, ma sta nel migliore posto della città, col sole in faccia e addosso, senza i morsi di cane del vento. Le gambe distese, più magre di come le ricorda, le scarpe si sono slacciate, le lascia così. Il mare splende in faccia, il sole abbraccia il vecchio, preso tra due fuochi amici. Il corpo scioglie i nodi di tensione, gli spiana le rughe della fronte. La circolazione del sangue gli fa formicolio e solletico fino ai piedi. Si sono calmate le viscere spremute dal freddo. È un disgelo, colano due lacrime di felicità. La testa è sollevata in alto, punta alla cieca la sorgente di calore, come un girasole. Un respiro profondo gli solleva il petto, è un’onda che l’avvolge, le labbra un poco aperte, così pure la lingua assaggia. Cerca la mandorla in tasca, la guarda in mezzo al palmo, compatta, è una conchiglia con due valve sigillate. Cerca a tentoni un sasso, lo raccoglie e comincia a bussare piano al guscio. Il rumore da secco passa a grave, segno che si schiude. Arriva il cedimento, si è aperta la breccia, liberato il frutto della mandorla piovuta. Prima di infilarla in bocca la solleva in alto e le dà un bacio. L’accoglie come un’ostia sulla lingua, si mette a succhiarla. Vita, come ne basta poca a fare la felicità completa. Davanti a lui le onde alzano creste, che sono fazzoletti bianchi e salutano le navi. Piccioni e gabbiani giocano a buttafuori con il vento, scaraventati frenano impennandosi. Svolazza perso un palloncino rosso. Potesse svalicare febbraio dentro la nicchia tiepida della scogliera, scegliersela per casa, togliendo il suo ingombro dalla stanza. Potesse. Può, e succhia la mandorla con gli occhi serrati. Ricorda il giorno di soldato dentro la nave da guerra bombardata. Intorno esplodevano i corpi degli altri e il suo no. Ogni cellula chiedeva d’invecchiare e di avere una via d’uscita dal guscio di ferro che affondava. E il mare all’improvviso era entrato da uno squarcio nuovo e l’aveva afferrato spingendolo fuori. Il mare scippava una vita a casaccio, un furto con destrezza dal carro dei dannati. Lui era uscito all’aperto con un tuffo di nascita seconda, mani invisibili di levatrice l’avevano levato. Salito in superficie aveva pianto a singhiozzi aggrappato a qualcosa. Intorno era calma sovrana, sole a picco, un giorno d’estate perfetto avvolgeva la strage dentro la più benevola indifferenza. Il bollettino meteo di quel giorno annunciava assenza di fenomeni nel Mediterraneo orientale. Più assurda che a terra, la guerra sul mare: lo avevano issato a bordo i marinai inglesi, insieme a una manciata di affiorati. La vita salvata era stata rinchiusa in una cella, incassata nel corpo di una nave da guerra. Per lui era un reparto di maternità, se ne stava rannicchiato a feto, dormendo per la gran parte del giorno. Per cibo ricorda il peggiore formaggio della sua vita. La seconda nascita comportava un latte mal cagliato. Un poeta ha scritto: “C’è competizione nel caos, una cosa molto stupida”. Nient’affatto: la rissa per vivere, dalla corsa degli spermatozoi fino alla scomposta salvezza da un naufragio, era fuga, furia, affanno, fortuna e molto di più, ma stupida no. Nella scatola di ferro della nave inglese l’aveva benedetta quella fraintesa cosa molto stupida, la vita allo stato puro.
La mandorla in bocca fa il paio con quella vita liberata dal guscio, uscita illesa. Il sole in faccia gli tiene le palpebre calate, il mare nelle orecchie gliele tiene riempite. È invecchiato come e quanto aveva chiesto. Un grazie del corpo gli affiora alla bocca e lo dice. I vasi del sangue, allargati, battono colpi più lenti. Il frutto si è dissolto contro la calotta del palato, lui ne inghiotte il resto. La stanchezza è perfetta, adesso è sazio e può. Respira un paio di litri d’aria calda, la trattiene, poi apre la bocca e da lì sguscia con una rapida capriola di scugnizzo che si tuffa a mare, la vita che aspettava un’ora di felicità per togliere il disturbo. Racconto tratto da Storia di Irene, Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano, 2013. Erri De Luca
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