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Sagarana IATO


Joćo Guimarćes Rosa


IATO



        Rapidi alle briglie, con il giovane buttero Põe-Põe e il vecchio mandriano Gnazio, s’arrivava a Cambaùba, che è un torrente, pascoli, dove si vede volano il saì-scé ¹, lo scescèu ², da Settembre a Maggio la maria-branca ³, che meglio si chiamerebbe maria-poesia, e canta tutto l’anno la patativa4, felice fatina di piombo, amica delle sementi. 

   Oltre i campi coltivati, boschi di caparrosa comune5 sorprendono, in mezzo alla mistura di specie del serrado6. Irrompeva per dentro all’erba alta una rasa valle ─ al rumore e rinserro, crudo, della disregola del fogliame ─ giungendoci gli sfregati odori vegetali alla saliva bocca. Andavano i cavalli ad oltre ─ il cielo sole, massa di luce, nuvole drappeggianti, rugiada perla a pèrola. Ci saziammo d’allegria e provviste. Il mattino era indiscutibile. Tante vie e rette.

   Iii, putei, xé bom, veder l’ora de galopar... ─ si vantava Gnazio, marron nel giusto giubbone, che punte di grandi rami a guisa di mani e dita graffiavano. ─ Ih, è, ah! Oh vita da vivere! ─ esultava mimetico Põe-Põe, spronando il suo roano blù.

   Di là, scelti, erano i due, Põe-Põe, faccia d’indiano, bambino quasi, agile il modo sulla sella da campo. Gnazio, ombroso, violaceo, battitore di tracce, negroide eroe. Facevano ai casi tutti, di gaia compagnia e scorta.

   Si veniva lievissimo, sugli animali, salendo ancora alle nuvole laddove s’aveva da scendere. Si giunse ai bordi d’una selva in clausura ─ e acqua, che si estendeva e specchiava, lago, di strabuzzare gli occhi. I buritì7 l’orlavano. Ogni acqua è antidiluviana. L’aria c’era non c’era. O né deve dettagliarsi l’imprevedibile. Il mattino, di per sè, respirava. Erbacce: là cresce l’angola8, eccelle, che solo si mantiene un sentiero per passar buoi. Tutto tendente al chiaro. L’acqua dormiva da donna. Dalla gramigna, alta, quello scaturì.

   Passò e ─ nero come grosso steso panno nero, di crespo lutto velo, che è un che spaventoso! ─ salirono le orecchie i cavalli. Toro grande come nessuno, e impossibile, nuca e tronco, corna come falci, il ventre, cassa toracica, dismisura di ossatura, totale disforma. Il suo muso tremò in noi, estratto minerale, un secco agitar di guance ─ sentivamo sotto le cosce il solido sussulto dei cavalli. Occhi ─ ombroso e lùccico ─ i cavi della maschera. Vecchio come l’essere, odiatore d’anime. Deteùto tangibile, radente, il petto, corpo, ci toglieva qualunque spazio, attoniti in fulminata inerzia, nella stessa aria e respiraria. Dal pavore, il cavallo risuona, ruglia, un borborino alle narici, come uomo che dorme. Quello girò le corna. Si voltava e camminò, con stretti movimenti, zampe cavando fondo nel melmaio: peso, cosa, il che a stupefare. Grande solo andava a bere, nei pantani di sotto, minuziosamente. Era enorme e nulla. Si rinfittì nel folto.

   Già arruffati rompevano i cavalli sulla destra, di storto s’avanzava, saggiando grotte, scrociando rami, nostre schiene infreddate.

   Vaccaro Gnazio, bagnato sudo di sotto al collo, gli tremavano i muscoli della mandibola. Butterino Põe-Põe copriva di lato il viso, di certo mangiando zucchero e farina. Qualche turbare entro a noi ci contagiava, senza riflessione utile.

   Põe-Põe esitava nel passare capofila, sul ciglio della scarpata, e s’arrabbiava Gnazio, sperticato sulla sella. ─ “Putei, anca el coragio el ghe bisogna de pratica!” Balbettava superfluo, con gran ragione. Sole e grugno. L’intorno lo guardava.

   Remoto, il toro, sinistra immaginazione ─ la quadratura della bestia ─ ingenerato, nero impietrito. Ordine di misteri senza contorno in misteri senza contenuto. Che l’azzurro manco è del cielo: è d’oltre ad esso. Tutto era possibile e non successo.

 
 
 
 
 
 

   Ma montavamo verso l’area delle colline, lì da lontano avvistate le foreste dove il fiume si relega. S’aveva, senza volere, girato in tondo, traendo dal cammino l’allontanare di grande arco ─ ritorto il paesaggio: un vago intorno, spiattellati alberi, falso l’abbiocco delle piante, il dissapore pastoso.

   Erratico, a retrotempo, si ricordava sopra di noi il toro, scuro come il futuro, malo oggetto per la memoria. Põe-Põe fingeva il pigolio di passeri in gabbietta, sibilo fino. Gnazio schiudeva ora scrollate dicèzie, arrotolava ancora silenzio, risofferto. Il toro, essendoci, eccesso, esorbitante, sue transitazioni, e nel temoroso punto, piazza offerta al caso.

   Avante la gramignaccia muta di figura, flusso del fiume, che manda una rugiada all’ora sua, sennò un sussurro, e dal quale ricevono i buoi l’avviso dell’odore d’acqua, che sùbiti vertono in muggiti, quando è dall’ovest che il vento viene.

   C’aveva impacciato, quello, nello smaschero, conseguentemente; ancora ci perseguiva, immobile, per pavori, nel disriparo.

   Il toro?

   Esterefàttosi il vecchio Gnazio, pendente il suo labbrone Iorubano9.

“Ma va’, è un bue mansueto, molle, da quattro soldi! Guarda che ci ha visti, addossati a lui, e s’è bloccato, solo impaurito, tonto, tonto?” ─ l’aveva detto in gran staccato, gli prese un riso convulso.

   Non c’ha neanche malefatti ─ con nessun augurio, sinistra boccata ─ quello stordito ottuso mostro. Di dove viene allora la paura? O questo terraqueo mondo è di tenebre, quel che resta del sole tentando illuderci del contrario. Faceva stanco, nel furto freddo delle nostre ombre. Tiravamo passo.

   Era, sì, sposato, il vaccaro Gnazio, meticcio. Era nato sul Verde-Grande e non poco10. C’aveva figli, nipoti d’ogni genere, in questo mondo assai; anche il ragazzo Põe-Põe era uno dei suoi.

   ─ “Zio Gnazio, vossignore non ha mai più sentito parlare dell’uomo che uccise mio padre?” ─ Põe-Põe indagò, forse piagnoso.

   L’altro serrava la cinghia del suo roano. ─ “Fino ad oggi, mai. Ideo che l’hanno fatto fuori pure lui, persino le pietre in terra operano le giustizie...”

   Lì in volo le bande d’anatre, dietro i pappagalli.

   Vaccaro lo Gnazio, tossicchiante, s’arrestò. ─ “Non ce la faccio più, l’andar campagne, macché. Non c’ho più nessuna cadenza...” ─ fottuto; tristezza mano nella mano con la vecchiaia.

   ─ “Ah putèi...” ─ e il buttero Põe-Põe abbacchiava fedele la capoccia.

   Ancora, poi, si giungeva ─ al rifugio, riposo, tetto ─ rancharìa di tutti. Incontravamo branda, focolare, favella, pace di locanda, ad ogni rispetto. La benavventuranza dello sbadiglio. Desta maniera.

 
 
 
 
 
NOTE
 
 

¹ Saì-xê, passero multicolore, soprattutto verde e azzurro brillanti (Tangara-Tangara L. o Tangara Bris).

² Xexéu, passero giallo e nero (Cacicco dal groppone giallo-Cacicus Cela)

³ Passero grigio della famiglia delle Tyrannidae (Monjita cenerina-Xolmis cinereus).

4 Passero grigio-piombo (Beccasemi plumbea-Sporophila Plumbea).

5 Arbusti dotati di piccoli fiori della famiglia delle Gutifere (Vismia acuminata).

Il cerrado è vegetazione tipica dell’altopiano centrale del Brasile, di arbusti ritorti, bassi e sugherosi, il suolo ricoperto di graminacee, simile alla savana.

7 Una palma da frutto (Mauritia vinifera).
8 Una graminacea originaria dell’Angola. Erba.

9 Gli Yorubà, un popolo sudanese presente soprattutto nel antico Daomè (oggi Benin)

10 Fiume che bagna gli stati di Bahia e Minas Gerais, affluente del São Francisco.

 
 
 

SULLE FATICHE ED IL COMPITO DI UN TRADUTTORE DI JGR

 
 

Non riesco ad immaginarmi nulla di più antieconomico, meno redditizio, di questo lavoro di traduzione che ho svolto con Tutaméia di João Guimarães Rosa. Dal punto di vista finanziario meglio sarebbe considerarla un’opera di beneficienza, una dimostrazione di affetto verso il mio paese d’origine, l’Italia, la mia lingua madre, l’Italiano.

Questo perché di fronte all’ordine delle migliaia di euro che posso ragionevolmente chiedere ad un editore come compenso, si stagliano le molte più migliaia di ore faticosamente spese sul testo.

Certe attività sono intimamente anti-professionali, se consideriamo che ciò che prima di tutto distingue un professionista, buono o cattivo che sia, é che, riccamente o meno, riesce a vivere del suo lavoro che gli rende denaro.

Le ore spese non dipendono solo dalle oggettive dificoltà del compito, dalla maggior o minor velocità del traduttore, dallo strumentario informatico e culturale a sua disposizione, insomma dalla sua professionalità. Sono legate anche al fatto che il testo va fatto riposare per periodi anche lunghi di mesi o anni. Per distogliere quella assuefazione che si crea sul triangolo traduttore, testo di origine e testo di arrivo. Un trio che è sempre esposto al pericolo della sclerosi se suggerimenti esterni, ma molto più intimamente il tempo, non curano questa relazione.

Come certe opere originali anche le traduzioni letterarie, in particolare su testi difficil, si giovano di lunghi periodi nel cassetto. Quando avviene il reincontro, come per magia, balzano agli occhi i passaggi ancora problematici, le inadeguatezze, i manierismi, a volte anche gli errori commessi. Di certo quello che cambia è la relazione, dovendo escludere, per prudenza, che il testo stesso, come un vino a riposo, subisca delle variazioni fisico-chimiche e di conseguenza organolettiche. Più realistico immaginare che il traduttore sia passato per mutamenti più o meno significativi, trasformazioni chimico-culturali, nel tempo del distacco, che lo rinnovano rendendolo più adatto a risolvere gli enigmi ed a percepire la realtà delle corrispondenze.

La traduzione di Tutaméia di fatto corre con intervalli più o meno lunghi dal 2008 fino ad oggi, quando ancora trovo, nelle riletture, piccole o grandi modifiche e migliorie da realizzare. Da un certo punto di vista può diventare un’opera senza fine, un diabolico sforzo, se una aristotelica provvidenze in forma di pubblicazione non la interrompe imponendo di chiudere tutte le esitazioni. Perché è anche vero che è letterariamente sano dare un taglio alle migliorie, seguendo la saggezza popolare che indica nell’ottimo il nemico del buono. A quel punto è bene che la criança incontri il mondo pur con tutte le sue imperfezioni (del mondo e della criança).

Con questo mi pare di aver perorato a sufficienza una doppia causa. Quella di una impellenza della pubblicazione di Tutaméia nei tipi di un qualunque coraggioso editore, grande o piccolo che sia. Anche la causa più personale di un traduttore che non è un professionista delle lettere, pur lavorando, parzialmente, nel ramo delle traduzioni remunerate. Proprio l’aver conosciuto da vicino il settore della traduzione profesionale mi spinge a dire che lavori di un certo livello letterario abbiano una forte necessità di distanziarsi dal macchinismo di questa specialità. Un po’ come la cura di un vino di qualità lo allontana dalla dimensione industriale, richiedendo tempistiche e metodiche che ne fanno un prodotto di lusso, cioè da vendere a caro prezzo o meglio ancora da regalare.

La realtà è che ci troviamo qui in un campo, quello letterario, intimamente anti-professionale, o magari, più amenamente, a-professionale. Voglio dire che in fondo la professione di letterato non è mai esistita e che la letteratura, anche e forse soprattutto quella di alto livello, altro non è che un operazione amatoriale. Che poi non è così umiliante, se leghiamo la dimensione amatoriale al motore dell’amore e quella professionale a quello del denaro, senza il quale anche il maggiore dei geni non può definirsi un professionista. Dilettanti illuminati potremmo definire non pochi grandi scrittori: mi sovvengono qui, accanto a JGR, le figure ingegneristiche di C.E. Gadda e di R.Musil. In quest’ultimo, emblematico, caso, uno dei più geniali scrittori del ‘900, che era anche un invalido economico sostenuto da un gruppo di amici.

JGR, molto più pragmatico nella sua magia, si sosteneva assai bene con le sue brillanti attività di funzionario pubblico e diplomatico. Parlando però della sua passione per le lingue e le grammatiche straniere, per la lingua in genere, cita quasi la necessità  di essere in questi campi un amatore, anche coi suoi limiti, di svolgere queste attività nelle ore libere e, per sua esplicita ammissione, con motivazioni un tanto frivole di divertimento, gusto e distrazione.

Il che non toglie che JGR abbia riservato a queste attività linguistiche e letterarie risorse di intelligenza, dedicazione e passione forse anche superiori a quelle che rendeva disponibili, dietro pagamento di un buon salario, agli organi pubblici e diplomatici per cui lavorava. Un po’ come J.J. Bachofen faceva a Basilea, dedicandosi lui, giudice, agli studi di paleologia nelle ore libere e con non pochi risultati.

Molto più modestamente, ma in maniera analoga, il traduttore ha proffuso in questo lavoro risorse intellettuali e fatiche che difficilmente si giustificano nella sua pur esistente sfera di homo economicus.

 
Marco S. Cristellotti







Traduzione dal Portoghese di Marco S. Cristellotti. Illustrazione di Maria Teresa Salvati




Joćo Guimarćes Rosa
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