LA SCOPERTA DELL’IDENTITà SESSUALE Rosemary Keefe Curb e Nancy Manahan Il racconto di Jane O’Leary
Nel 1966 in Ohio non esistevano movimenti pacifisti, né femministi, e neppure gay. Volevo fare qualcosa di speciale e apportare il mio contributo al mondo; ero alle superiori quando decisi di entrare in convento, una volta presa la decisione, non ebbi né vacillamenti né ripensamenti. I miei genitori erano cattolici praticanti, tutta la mia famiglia andava a messa, si confessava regolarmente e recitava il rosario. Quando ero in seconda elementare, mio padre promise che ci avrebbe mandato tutti alla scuola cattolica se mia madre fosse guarita da una grave malattia che aveva. Frequentai la scuola cattolica dalla terza elementare fino alle superiori. Ma quando dissi ai miei genitori che stavo per diventare suora, non pensavano che fosse la strada giusta per me: ero sempre stata indipendente e ribelle, ero stata sospesa dalla scuola superiore due o tre volte per aver organizzato cortei che marciavano durante i pasti a mensa o per aver messo pesci rossi nell’acquasantiera. A scuola tutti mi conoscevano, ed era importante per me essere una leader. Suonavo la batteria in un gruppo di adolescenti, ci esibivamo ai balli delle scuole o alle mense scolastiche. Bobby, il cantante del gruppo nonché una sorta di mio ragazzo, voleva sposarmi, ma io sapevo di non volerlo fare, e non volevo andare in tour con il gruppo. Un giorno una professionista del settore, di un band di Chicago, mi chiese di unirmi al suo gruppo. Suonare la batteria era la mia passione, ma non volevo finire drogata e alcolizzata. Le suore mi influenzarono molto, avevo un debole per Suor Mary Thomas, che stimolò il mio interesse per la religione. In un paio di notti lessi i libri di filosofia e di teologia che mi prestò, e ne presi altri, iniziai a interessarmi seriamente alla religione. Durante il discorso all’assemblea dell’ultimo anno annunciai la decisione di entrare in convento: per i miei amici fu uno shock, ma io ero davvero convinta della mia vocazione. Ora mi rendo conto che stavo anche cercando di scappare, pensavo che se avessi dedicato la mia vita a Dio mi sarei liberata dei sentimenti per le donne. Quando ero in terza elementare in una scuola di sole ragazze, sapevo che mi piacevano le donne: fantasticavo di vivere su un’isola con sole donne, dove io ero un maschiaccio e le ragazze amavano la mia mascolinità. Alle superiori uscivo con i ragazzi perché tutte lo facevano, ma i veri legami sentimentali erano con le mie amiche. Ho seguito un corso da segretaria solo per stare accanto a Betty James, dovrei ringraziarla se ora so battere a macchina. L’ordine a cui aderii aveva solo sei o sette suore, la maggior parte infermiere e insegnanti, era un ordine moderno e liberale con la casa madre negli Stati Uniti invece che in Europa. Quando mi unii al convento le suore indossavano ancora delle tuniche, ma nel corso del mio primo anno le uniformi furono modernizzate. La casa madre, situata in Pennsylvania, era una grande residenza chiamata Villa, con accanto un bosco e un lago, un luogo bellissimo, dove si respirava un’atmosfera serena. Arrivai lì un pomeriggio, con la mia batteria, non l’avrei mai lasciata a casa. Suor Carrie, che suonava il piano, fu felicissima di vederla, la sistemammo nella sala di ricreazione. Presi le bacchette e mi sedetti lì, in pantaloni, e suonai per tutta la classe di novizie. Quando iniziai il mio assolo di batteria, il pubblico impazzì, anche a Suor Carrie piacque moltissimo. Lei intanto suonava il piano e stavamo facendo una sorta di jam session, divertendoci moltissimo, quando entrarono la Maestra delle Postulanti e la Maestra delle Novizie, si limitarono a fissarci. Quando il chimes suonò le nove di sera, l’ora del Gran Silenzio, tutte noi ci facemmo il segno della croce, e dicemmo una preghiera. Nessuna osava neppure respirare. Io ero ancora seduta lì con le bacchette in mano. Le relazioni umane nel convento erano più intense che in ogni altro luogo. Eravamo sempre insieme: parlavamo di continuo, formavamo gruppi sull’amore e sulla speranza e sulla filosofia, studiavamo i grandi pensatori e la psicologia moderna. A un certo punto tutto era intensamente emotivo: l’ordine insisteva sulla crescita personale. Gli impulsi sessuali vennero inevitabilmente fuori, ma nessuna di noi disse mai le parole lesbica, o gay, o omosessuale. Io e Suor Jackie eravamo entrambe postulanti. Seguivamo gli stessi corsi, lavoravamo insieme alla Villa, e alloggiavamo allo stesso piano dei dormitori. Parlando, sempre parlando, esplorammo i nostri sentimenti più profondi. L’energia tra di noi era incredibile; era il mio opposto, pacata e introspettiva. Fu il mio primo amore. Dopo mesi di dialogo, la nostra relazione iniziò con un massaggio sulla schiena. Eravamo in classe quando le campane del convento suonarono il vespro. L’edificio intorno a noi era silenzioso e vuoto. Tutte erano nella cappella in preghiera, avremmo dovuto sbrigarci anche noi. Mentre ascoltavamo i rintocchi Jackie e io ci guardammo negli occhi. Nessuna delle due si mosse. Lei parlò a voce bassa, rispondendo alla domanda che le avevo posto prima che le campane suonassero. La fine della frase terminò la nostra conversazione. Guardai il suo viso, così forte e intelligente, i suoi occhi misteriosi, appassionati, la loro distanza silenziosa. Rimase immobile e toccò la mia spalla. Guardai dritto di fronte a me mentre mi massaggiava il collo. Eravamo legate l’una all’altra, invisibilmente unite dal nostro sentimento. Quando si fermò, mi girai e la spinsi dolcemente sulla sedia accanto alla mia. Riuscii a sentire il suo respiro leggero e il suo battito, quando le toccai il collo. Glorificate nel silenzio del vespro, la tensione fra noi esplose nel nostro primo bacio. Non ammettemmo mai apertamente la nostra relazione. Jackie scriveva poesie per me. Dormimmo insieme nella ristretta intimità delle lenzuola tese tra i letti del dormitorio. Facevamo l’amore molto silenziosamente mentre le altre dormivano. Era spaventoso, rischioso, ma eccitante e stupendo al tempo stesso. Non dicemmo mai di essere amanti. Le poesie che Jackie scriveva erano romantiche, idealistiche e tragiche. Facevamo lunghe conversazioni sulla comunità e sull’amore, ma non pronunciammo mai la parola lesbica. L’ambiente era chiuso, isolato. Negavamo l’elemento sessuale. Ci avevano messe in guardia a proposito delle “amicizie particolari”. Jackie si sentiva molto in colpa per la nostra relazione. Io volevo ridefinire il celibato come un amore condiviso, un amore espansivo verso tutte le persone, eliminando la possessività e la gelosia. Ma non ricevetti nessun tipo di sostegno. Quando decisi di lasciare il convento, dissi alla Maestra delle Postulanti che ero lesbica. La sua risposta fu: “Non credi che abbiamo tutte sentimenti del genere?”, mi baciò sulle labbra e disse: “Tutto quello che devi fare è restare e cercare di vivere il celibato.” Era un conflitto intrinseco: riconoscere il desiderio sessuale ma negarne l’espressione. Rifiutai di negare i miei sentimenti, sebbene fosse anni prima che potessi ammettere apertamente la mia omosessualità. Jackie e io trovammo nuovi posti per stare sole dopo che tolsero i paraventi nel dormitorio. Pensavano di essere liberali, togliendo i paraventi e lasciando che tutte si vestissero davanti alle altre, ero sconvolta. Andavamo nella sala di ricreazione, o dietro al palco della mensa, o nel bosco, con la scusa di fumare. Fumare era vietato, ma era piuttosto comune. Avevo smesso sei mesi prima di entrare in convento, ma ricominciai la prima settimana che stavo lì. Fumare era una buona scusa per andare nel bosco da sola. Per avere più sigarette, scambiavo i miei vestiti alla mensa, prendevo la bici che tenevamo nel sottoscala e pedalavo fino alla stazione di servizio sulla strada. Un pacchetto durava un mese, visto che non potevamo fumare liberamente. Una volta iniziata la storia con Jackie, ero più consapevole di essere attratta dalle altre donne. Ero idealista: credevo che la mia energia fosse infinita, credevo di poter amare tante persone. Non volevo interrompere la relazione con Jackie, ma mi resi conto che ero anche attratta da Suor Carrie, che era nella classe avanti alla nostra, era la migliore amica di Jackie prima che entrasse nel convento. Carrie era come me, estroversa e spensierata. Era lei che aveva suonato il piano quella prima sera. Quando riconobbi l’attrazione, la seguii. Le inviavo messaggi sui santini, mi assicuravo di vederla ogni qualvolta fosse possibile. La inseguii per mesi. Un pomeriggio, io e Suor Carrie uscimmo nel prato. Era una bellissima giornata, ogni foglia luccicava alla luce del sole. Dovevamo stare all’aperto in un giorno così. Ci spingemmo a vicenda sull’altalena, sempre più alto. Giocammo a nascondino e lottammo sull’erba. Carrie corse nel bosco, nascondendosi dietro un albero, non cercava di scappare davvero. Ridendo, senza più fiato, la afferrai e cademmo sull’erba. Riuscivo a sentire il suo calore e la sua vitalità. Le misi una mano sulla spalla, avvicinandola a me. La baciai dolcemente. Fu una scossa elettrica. Carrie non rispose, diventò di marmo. Mi guardò con occhi spalancati, e corse via. La rincorsi e la raggiunsi alle altalene, “È tutto a posto, è tutto a posto, ascoltami per favore” le dissi. Volevo che capisse. Le volevo bene. Non volevo che avesse paura di me, non volevo perderla. Parlammo a lungo d’amore, d’amicizia, di condivisione. Carrie fu onesta con me e con se stessa, riconobbe l’intensità dei nostri sentimenti. Non aveva paura di esplorarne il significato verbalmente o intellettualmente, non aveva pregiudizi sull’amore. Quel giorno parlammo e basta, cercando chiarezza. Era ovvio che ci amassimo, era inevitabile che avremmo fatto l’amore. Jackie era sopraffatta dalla gelosia, sono sicura che volesse bene a entrambe. Mi descrisse in lettere e poesie quanto stesse male, a volte piangeva tutta la notte. Non volevo causarle tutto quel dolore, cercavo di rassicurarla, ma non potevo negare il mio amore per Carrie. Era una celebrazione, un’affermazione d’amore per tutta la comunità. Una sera dopo la lezione di teologia, chiesi di condividere con tutte un pensiero che avevo scritto analizzando la speranza, era uno studio individuale di cui andavo fiera. Stavo spiegando un passo sulle emozioni che Jackie continuava a dire di non capire, ma lo stavo spiegando molto chiaramente. A un tratto Jackie scappò via dalla classe e finì nel bosco. Poco dopo ci fu un temporale terribile, così uscimmo tutte a cercarla. Nessuno riuscì a trovarla. Tornò più tardi, zuppa fino ai capelli. Il prete, uno psicologo venuto per un incontro sui gruppi e la sensibilità, chiese di parlare a Jackie e a me. Ci parlò e ci aiutò attraverso quello che era essenzialmente una separazione, sebbene nessuno lo ammettesse mai apertamente. Anche Carrie iniziò a vedere il prete per dei colloqui individuali. Parlarono in totale innocenza di tutto quello che facevamo. Io impiegai sei mesi per avere il coraggio necessario per parlargli, e in una di quelle occasioni mi sfuggì che pensavo di essere omosessuale. Non riuscivo a usare la parola lesbica! Fu la prima volta che lo dissi, dopo anni di consapevolezza e negazione. Parlammo della mia attrazione verso le donne. Tuttavia quando iniziò a farmi delle domande, gli diedi le risposte “giuste”, non la verità. Alla fine, mi disse che non dovevo preoccuparmi, non ero omosessuale. Me ne andai pensando: “Mio Dio, questo tizio non ha capito nulla di quello che ho detto”, ma immagino che non gli avessi detto nulla. C’era un grande silos vuoto alla Villa, altro uno o due piani. Entrai e mi sedetti. Immobile nel silenzio, mi sentii terribilmente sola. Era la prima volta in vita mia che dicevo a qualcuno come mi sentivo e lui lo negava perché non voleva sentirlo. Tutti negavano. Qualcuno vide me e Carrie camminare al lago, ci tenevamo per mano e ci baciavamo alla luce del sole, vicino al ponte. La Maestra delle Novizie ci chiamò nel suo ufficio, ci disse che non dovevamo camminare accanto al lago perché era contro le regole. Nient’altro. Sapevamo che lei era informata di quello che succedeva, ma non disse nulla. Una sera la Maestra delle Postulanti, Suor Martha, ci colse in flagrante. Tutte le ragazze erano nella sala di ricreazione, Suor Martha invece stava lavorando a un mosaico, e mi chiese di prenderle altre tessere dalla lavanderia. Le chiesi di poter portare Carrie con me. All’inizio Suor Martha disse di no, ma quando le dissi che volevo compagnia perché lì era buio, acconsentì. Ogni volta che io e Carrie eravamo sole, eravamo molto passionali, cercavamo di continuo simili momenti di intimità. Prendere le tessere non avrebbe dovuto impegnarci a lungo, ma una volta lì, era buio e calmo ed eravamo sole, ognuna persa nel mondo dell’altra. All’improvviso una luce accecante invase la stanza: Suor Martha era sulla soglia della porta e ci stava fissando. Avevamo tolto i veli, e non c’era dubbio su cosa stessimo facendo. Quella notte ero terrorizzata. Sapevo che mi avrebbero buttata fuori. Sapevo che l’indomani sarebbe stato il mio ultimo giorno. Tutte e tre tornammo alla Villa senza dire una parola e andammo a letto senza fiatare. Non volevo lasciare il convento, non ero pronta per il mondo. La mattina seguente Suor Martha mi convocò nel suo ufficio. Riuscivo a malapena a guardarla. Avrei voluto essere in qualsiasi altro luogo tranne che nel suo ufficio, sapevo che mi avrebbe cacciata. Mi disse: “Il minimo che avresti potuto fare era parlarmene.” Rimasi di stucco, non era arrabbiata, non stava per buttarmi fuori: era gelosa! Lasciai l’ufficio fluttuando. Il giorno dopo Suor Martha mi chiese di accompagnarla al negozio. Quando tornammo, guidai la station wagon nel garage, spensi il motore, misi il braccio intorno a lei e la baciai. Era così semplice. Suor Martha era nel convento da vent’anni, seguiva meticolosamente le regole, e ne imponeva di nuove: luci spente alle dieci, niente radio, niente sigarette, camminare correttamente, non fare le spiritose, mantenere un comportamento dignitoso. Non incoraggiava la familiarità. Tuttavia, dopo che iniziammo a frequentarci, Martha cambiò drasticamente; iniziò a esprimere il suo meraviglioso senso dello humor, ed emerse una persona spontanea, creativa, affettuosa. E, naturalmente, cambiò anche il convento: diventammo una famiglia, una comunità d’intimità e d’amore. Non che fossimo aperte o dirette a proposito dell’amore, ma l’atmosfera diventò completamente stimolante e positiva. Più tardi tutte le mie amiche furono trasferite in altri posti. Anch’io lasciai la Villa per andare al college nel Mid-West. Ero più consapevole degli eventi nel mondo e volevo marciare su Washington D. C., contro la guerra del Vietnam, ma non mi fu permesso. La maggior parte delle donne che conoscevo e amavo, tranne Jackie e Claire, aveva ormai lasciato il convento. Claire, la mia ultima relazione, era come Jackie, introspettiva e dominata dai sensi di colpa. Claire era la prima donna che chiuse i contatti con me, stava frequentando un’altra suora, e non seppi mai che tipo di relazione avessero. Mi sentivo molto sola, tutte se ne erano andate. Ero pronta per andarmene: a livello conscio volevo partecipare al mondo; a livello inconscio ero pronta ad ammettere la mia omosessualità. Il convento mi aveva dato un ambiente protetto e accogliente in cui esplorare i miei sentimenti per le donne. Neppure le negazioni e le restrizioni riuscirono a sopprimere quell’ istinto. Martha disse che io avevo cambiato l’ambiente per adattarlo ai miei bisogni, ma furono tutte le donne che ho amato a cambiarmi profondamente, ci influenzammo le vite a vicenda. Era cinque o sei anni prima che iniziassi a pensare a loro quotidianamente; anche adesso sono sempre nei miei pensieri. E l’unico senso di colpa che sentii non fu per amare le donne, ma per cooperare nell’ipocrisia della negazione. Nonostante la mia esperienza, non posso dire che il convento è un covo di omosessualità. Penso che molte donne si siano rinchiuse nei conventi per sfuggire alla sessualità, sia lesbiche sia omosessuali. Un desiderio di obbedienza e devozione a Dio sono spesso secondari a un bisogno di celibato e negazione. Il convento appare come un riparo, distante dalle pressioni e dai rischi del mondo. Ma quel riparo esigeva un prezzo di auto-negazione che io non ero disposta a pagare. Volevo cambiare il mondo, non uscirne. Il brano proposto è tratto dal libro: Lesbian Nuns: Breaking silence, Naiad Press, 1985, tradotto in italiano con il titolo Dentro il convento : Le monache rompono il silenzio, Milano, CDE, 1989. Rosemary Keefe Curb è stata un’attivista, professoressa e scrittrice americana. Insegnante prima di biologia poi di lingua inglese, è stata per otto anni suora nel convento dominicano nel Wisconsin. Negli anni ’80 è stata co-editrice del libro Lesbian Nuns: Breaking silence, Naiad Press, 1985, un’antologia in cui suore lesbiche raccontano la sessualità dentro i conventi. Insegnò principalmente al Rolling College, in Florida, dove fondò il primo corsi di Studi di Genere (Women’s studies pro-gramme). Nancy Manahan è una studiosa americana di Studi di Genere attualmente in pensione. Dopo la ma-turità entrò in un convento, dove rimase fino all’età di vent’anni, quando scoprì di essere omoses-suale. Ha insegnato in Africa, California e Minnesota. Ha contribuito alla stesura di Lesbian Nuns, Breaking silence e ad altri saggi.
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