LA BATTAGLIA DI AGINCOURT Antonio Scurati
“Tomorrow in the battle think on me!”
Shakespeare e lo spettro della Guerra.
Il 25 ottobre 1415, nei pressi del piccolo castello di Agincourt (o Azincourt, secondo la dizione francese), sulle stesse pianure di Piccardia che 500 anni più tardi, durante la prima guerra mondiale, sarebbero divenute il teatro della battaglia della Somme, si combatté tra inglesi e francesi l’ultimo dei grandi scontri campali della guerra dei Cent’anni. Gli inglesi, guidati da Enrico V, al termine di un’ennesima incursione in territorio francese, dopo aver assediato e preso Harfleur, stavano cercando di riguadagnare la piazzaforte di Calais per trascorrervi l’inverno, quando si trovarono a sbarrargli la strada una poderosa armata francese, nominalmente capitanata da Charles D’Albret, per conto di re Carlo VI di Valois.
Sulla carta, la battaglia si annunciava come una sicura vittoria dei francesi, che parevano sul punto di riuscire a punire gli inglesi per le ripetute scorribande cui avevano sottoposto il loro territorio da quasi cent’anni a quella parte, e di riuscire a riscattare le numerose sconfitte patite nel corso di quelle. Tutto lasciava pensare che lo scontro si sarebbe risolto in una disfatta per gli uomini di Enrico V. Innanzitutto, la schiacciante superiorità numerica dei francesi, che potevano contare su circa 3 000 balestrieri, più di 20 000 uomini d’arme, di cui 7 000 montati e 15 000 appiedati, e anche qualche cannone, contro circa 6 000 arcieri e nemmeno mille uomini d’arme inglesi. Ad Agincourt si fronteggiarono, insomma, un esercito, quello francese, che, contando anche attendenti, servitori e gente del seguito, arrivava a più di 40 000 uomini, e una schiera di inglesi che gli era inferiore di numero in ragione di 1 a 5. Bisogna inoltre considerare che gli uomini di Enrico V erano reduci da una marcia a tappe forzate durata giorni, che li aveva costretti a patire la fame, le intemperie e a dormire all’addiaccio per parecchie notti. Quando si presentarono al cospetto dei francesi, apparvero loro giustamente come un’armata di straccioni, debilitati nel corpo dalle fatiche, dalle privazioni, e abbattuti nel morale dalla condizione di braccati sorpresi dall’inseguitore.
L’esercito francese, invece, oltre a poter contare su tutti i vantaggi derivanti dal combattere in territorio amico, era composto quasi interamente da nobili che avevano raggiunto il campo di battaglia a cavallo – ce n’erano più di 10 000 dalla parte francese – assistiti e approvvigionati da paggi, scudieri e servitori. I francesi, inoltre, avrebbero dovuto avere dalla propria parte anche il “fattore morale”, poiché combattevano per riscattare la propria terra e il proprio onore, mentre gli inglesi si battevano soltanto per aprirsi una via di fuga verso una ritirata, seppur decorosa. Infine, l’esercito francese, massima espressione del cavalierato nobiliare, poteva contare su di un genere di superiorità che, per la mentalità dell’epoca, valeva molto di più di tutte le circostanze materiali favorevoli: il superiore prestigio riconosciuto dal medioevo alla cavalleria su ogni sorta di combattente appiedato. E fu proprio questa presunzione di superiorità a perderli.
La battaglia, come noto, si risolse in una delle più cocenti sconfitte mai patite dai francesi e in una delle più terribili carneficine della storia militare premoderna. Secondo stime approssimative al termine degli scontri si contarono circa 8000 caduti da parte francese, tra cui moltissimi uomini d’arme e grandi aristocratici, più di 1500 prigionieri, poi condotti in Inghilterrra, e soltanto 500 caduti da parte inglese, tra cui soltanto due nobiluomini di alto rango, il conte di York e il duca Suffolk. L’enorme sproporzione insita in questi dati impone a qualunque resoconto della battaglia di Agincourt, prima di ogni altra considerazione, di interrogarsi su come sia stato possibile che l’evento effettivo abbia prodotto degli esiti tanto smisuratamente contrari alle sue premesse logiche. La risposta è, a nostro avviso, che nessun ragionamento esclusivamente basato su fattori astrattamente razionali e dati meramente materiali può spiegarlo. L’ecatombe di Agincourt si spiega soltanto come risultato di una micidiale miscela di particolari condizioni materiali e di singolari condizionamenti culturali. Queste ultime influenzarono il combattimento agendo, in circostanze fattualmente sfavorevoli, da fattori di condotta irrazionale, e perfino suicida.
Il disastro di Angicourt si compì in quattro fasi. Una prima fase in cui l’orgogliosa cavalleria francese, sollecitata dal tiro degli arcieri gallesi, ruppe una situazione d’attesa che durava da ore, a lei favorevole, e, contro ogni convenienza tattica, caricò a fondo la fanteria nemica. Questa prima fase si concluse con uno smacco per la cavalleria pesante francese, la cui carica era stata considerata irresistibile sino ad allora, poiché questa si rivelò incapace di travolgere gli arcieri inglesi che si erano fatti scudo con dei pali conficcati nel terreno a mo’ di picche.
L’orgoglio degli aristocratici cavalieri s’infranse contro il rifiuto a combattere in campo aperto opposto dagli arcieri gallesi, i quali, fedeli a un diverso principio bellico, insito nell’arma di cui facevano uso, si arroccarono dietro le loro difese, trasformando la battaglia in una sequela di violenti incidenti provocati dagli schianti dei cavalieri lanciati alla carica.
L’effetto di caos della carica strozzata si prolungò nella seconda fase della battaglia, allorché la cavalleria in ritirata scompigliò i ranghi della sua stessa fanteria che intanto avanzava contro quella inglese. A creare un’ulteriore e decisiva situazione di impasse da parte dei francesi, responsabile del loro massacro, intervenne in questa fase il desiderio dei francesi di primeggiare sui propri compagni d’arme. La fanteria francese era composta interamente da cavalieri smontati, cioè aristocratici uomini d’arme, rivestiti di armatura completa, che si contendevano con forza i posti nella prima linea, e che per di più puntavano tutti verso il centro dello schieramento nemico, dove si trovavano gli uomini d’arme inglesi, ritenuti gli unici con cui fosse onorevole incrociare le spade. I francesi erano in numero notevolmente maggiore degli inglesi, ma fu proprio questo genere di superiorità che li perdette.
Se al desiderio di occupare la prima fila e di puntare verso il centro della formazione avversaria, dettato dall’etica guerriera cavalleresca, si aggiunge che il nemico si era attestato in una strettoia naturale creata dai boschi adiacenti, ci si può facilmente figurare quale assurdo ammasso di guerrieri, che si ostacolavano a vicenda, si dovette creare dalla parte francese. Pare, infatti, che i guerrieri francesi della prima linea schiacciati tra l’opposizione dei ranghi compatti del nemico e l’enorme pressione esercitata alle loro spalle dalla massa abnorme dei compagni che premeva per raggiungere il punto in cui li attendeva la gloria, fossero quasi impossibilitati a muoversi. In questa situazione, i fieri uomini d’arme, altrimenti inattaccabili da parte di un combattente armato alla leggera, divennero facile preda degli arcieri che, completamente privi del senso di uno scontro “onorevole”, li attaccavano a gruppi di tre o quattro sbucando dai boschi sul loro fianco scoperto. La ferma volontà di cercare il combattimento individuale con un nemico di pari dignità, condivisa all’unisono da un numero troppo elevato di guerrieri, tutti ispirati dagli imperativi del medesimo codice cavalleresco, trasformò la somma di quei guerrieri in una massa informe, inarticolata e inerme, totalmente prona al massacro. Il sopraggiungere di una seconda linea di fanteria pesante francese alle spalle della prima contribuì poi ad aumentare la congestione, riducendo ulteriormente lo spazio di manovra, già quasi nullo, di chi si trovava esposto al macello.
La quarta e ultima fase della battaglia si consumò nel primo pomeriggio e ne accentuò l’aspetto d’assassinio di massa che aveva assunto nelle prime tre fasi. Gli inglesi a quel punto erano rimasti padroni del campo e avevano inoltre preso parecchie centinaia di prigionieri avversari. Ma poiché Enrico, a corto d’uomini, non poteva consentire ai suoi nobili di condurre con sé il proprio prigioniero, per poi avviare le trattative di riscatto, com’era consuetudine tra aristocratici dello stesso rango, tutte le prede di guerra furono ammassate in un unico recinto sotto la sorveglianza degli arcieri plebei. Quando, durante una fase di stallo in cui Enrico doveva però fronteggiare l’incombente minaccia di una seconda carica di cavalieri, giunse al campo la notizia che cavalieri francesi avevano attaccato le salmerie inglesi facendo strage di servi nelle retrovie, il re inglese, temendo di trovarsi stretto tra le forze preponderanti dell’incombente secondo squadrone di cavalieri e dei numerosissimi prigionieri, ordinò il massacro di questi ultimi. Le cronache ci forniscono, a questo proposito, sufficienti testimonianze del fatto che l’ordine del re non sarebbe stato eseguito se a riceverlo fossero stati i cavalieri inglesi. Il senso di solidarietà di casta tra aristocratici era un sentimento troppo forte, che si estendeva senza difficoltà oltre i confini delle diverse nazionalità, perché un nobile inglese potesse spingersi a massacrare decine di suoi pari inermi. Inoltre, il bottino che si ricavava dal riscatto di prigionieri altolocati era uno dei principali moventi delle guerre medievali e i nobili inglesi difficilmente vi avrebbero rinunciato. Ma a guardia degli uomini d’arme francesi c’erano i contadini gallesi, privi di scrupoli cavallereschi, non titolati a condurre trattative per il riscatto e verosimilmente accesi da un odio di classe.
Il massacro ebbe perciò luogo.
La battaglia di Agincourt fu senz’altro uno dei principali eventi bellici che nel corso di tutto il XV secolo, e dei primi decenni del XVI, segnarono la cesura tra medioevo e modernità, almeno sul piano della storia militare. Agincourt si comprende perciò spiegandola come una vera e propria disfatta storica della cavalleria, cioè non soltanto come una pesante sconfitta fattuale patita dagli aristocratici cavalieri francesi di Carlo VI di Valois ad opera dei plebei arcieri gallesi di Enrico V, avvantaggiati da contingenze materiali, ma come il tracollo dell’idea stessa di cavalleria, un’idea di supremazia, provocata in larga parte dalle componenti squisitamente ideologiche di cui quell’idea si nutriva.
Agincourt fu, infatti, una battaglia/caos, sia per gli esiti assurdi cui diede luogo, sia per le modalità in cui si svolse. A renderla una manifestazione del caos fu proprio l’assenza del criterio di visibilità e della logica del duello. Ossia, di quei fattori che, secondo l’ideologia eroica della guerra cavalleresca, dovevano fare dello scontro armato un fenomeno “etogenetico”, cioè il luogo eminente, o addirittura esclusivo, di apparizione e istituzione di un ordine, di una gerarchia e di un sistema di valori specificamente umano. Ad Agincourt i cavalieri francesi cercarono a ogni costo di distinguersi, ogni loro gesto fu dettato dall’imperativo di mettersi in evidenza, di evidenziarsi individualmente, e questo tentativo, date le particolari condizioni, avverse ad ogni proposito di distinzione, trasformò il loro sogno di luce in un incubo tenebroso. L’ambizione di decine di migliaia di combattenti ad apparire come altrettante individualità, li trasformò fatalmente in una massa indistinta, informe e impotente, che come tale fu colpita e distrutta.
Agincourt non fu il primo fatto d’armi in cui la cavalleria subì una rilevante sconfitta dalla fanteria, arma rispetto alla quale la cultura marziale medievale la riteneva superiore in base a una considerazione pragmatica che non andava mai scissa da una valutazione di carattere etico e sociale, ma si può legittimamente considerare, per le circostanze in cui maturò, l’inizio della fine della sua supremazia culturale, oltre che storico-fattuale (una supremazia, quest’ultima, che, secondo un certo punto di vista, non c’era mai stata). Agincourt segnò l’inizio dell’eclissi della cavalleria, e mai metafora fu più appropriata, poiché l’oscuramento di questa particolare cultura guerriera implicava, sul piano concettuale, il declino della piena visibilità quale principio informatore della guerra concepita sul modello del duello.
Quest’evento capitale per la storia della cultura guerresca dell’Europa cristiana, e non soltanto di quella guerresca, dovette attendere quasi due secoli per trovare una narrazione letteraria adeguata alla sua portata. Ci riferiamo, ovviamente, all’ Enrico V di William Shakespeare, l’ultima opera delle due tetralogie shakespeariane sulla storia inglese, quasi certamente composta nel 1599. Come noto, il dramma storico intitolato al vincitore di Agincourt segue l’intera vicenda della spedizione inglese del 1412, comprese le sue premesse e il suo epilogo – il matrimonio tra Enrico e Caterina, principessa reale francese – e ha il suo apice drammaturgico proprio nella narrazione della celebre battaglia. Brano tratto dal libro Guerra : narrazioni e culture nella tradizione occidentale, Donzelli editore, Roma, 2003. Antonio Scurati è nato a Napoli nel 1969 e ha studiato a Parigi e negli Stati Uniti. Insegna Sociologia della comunicazione presso l'Università di Bergamo, dove è tra i membri del Gruppo di ricerca sui linguaggi della guerra e della violenza. Su questi argomenti ha pubblicato, tra l'altro, "Televisioni di guerra" (Ombre Corte, 2003), "Guerra. Narrazioni e culture nella tradizione occidentale" (Donzelli, 2003) e il romanzo "Il rumore sordo della battaglia". Per l'editore Bompiani è appena apparso il romanzo "Il sopravvissuto". È direttore del settore Formazione del Festival di Ravello.
|