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Sagarana 50


Ugo Riccarelli


50



Entrò nella stanza con un passo sicuro e il sorriso sulle labbra. Al­lungò verso di me la mano presentandosi solo con il nome: Alber­to. Mi rizzai alla meglio sul letto. L'abbraccio della febbre ancora mi stordiva e il torpore, che nel dormiveglia del dopopranzo mi av­viluppava come una sciarpa, fu schiaffeggiato da quell'apparizione improvvisa. Così, con una certa titubanza, ricambiai il saluto al­lungando a mia volta una mano per stringere la sua, insieme bia­scicando il mio nome e affermando un "piacere" che in realtà non provavo affatto. Piuttosto sorpresa, e anche disturbo, un certo fa­stidio per l'isolamento che vedevo infrangersi da un'incursione

non desiderata.

Personalmente preferisco passare le mie degenze ospedaliere in soli­tudine e silenzio, lontano dal pericolo di compagni di stanza che ti rovesciano addosso ipocondrie, diagnosi, aneddoti, elenchi di far­maci e di malattie impastati con parole e mugugni, condimento di insofferenze varie per le condizioni del vitto, per la competenza dei medici, per la scortesia degli infermieri. A tutto questo, a quello che normalmente viene rubricato come "compagnia" preferisco il silen­zio, il nulla in cui far scorrazzare i miei malumori, i miei lamenti in­teriori, i mugugni e le ansie, gli unici compagni del tempo lasco e stanco che scorre tra le mura degli ospedali.

Questo Alberto, inoltre, pareva perfettamente a suo agio: si spo­stava nella stanza senza alcuna esitazione. Con movenze precise e veloci, dopo avermi salutato, andò al letto, controllò i cuscini, alzò lo schienale di almeno due tacche e poi si rivolse al comodino facendolo ruotare con un movimento deciso. Apri il cassetto e lo sportello e quindi la borsa che aveva con sé, il tutto con una velo­cità sorprendente, posando sul piano e all'interno del mobiletto l'essenziale che un buon paziente deve avere con sé: fazzoletti, un pacchetto di biscotti, una bottiglia d'acqua, penna, matita, gom­ma, un settimanale di enigmistica, una radiolina e un pacchetto di caramelle.

Con la stessa decisione si voltò, fece due passi e apri la porta del ba­gno, e attraverso l'uscio socchiuso io lo potei vedere distribuire sul portaoggetti dentifricio, spazzolino, schiuma da barba, un pacchet­to di rasoi, pettine e una boccetta di profumo. Mentre compiva questi gesti sottolineava quasi in una litania il nome delle cose con cui stava occupando lo spazio che ormai da due giorni consideravo mio, e così facendo mi pareva uno di quei venditori che si possono vedere ancora nei mercati di paese, quelli che con maestria sorpren­dente, mentre elencano le proprietà o le caratteristiche dell'aggeg­gio che intendono vendere, quasi fossero prestigiatori, muovono con eleganza le mani e avvitano frullatori, stringono trapani, stri­sciano grattugie e battono le nocche su piatti o ceramiche, obbli­gandoti ad assistere ipnotizzato alla loro esibizione.

Così io guardai quell'Alberto disporre oggetti banali, ne seguii i movimenti e mi adagiai sulla sua voce che rimarcava il nome delle sue cose tentando di farmi compensare, con quella sorta di nenia, la delusione per il silenzio rotto. Finita la sua rapida entrata il mio compagno si dedicò a sé stesso con la stessa efficienza e rapidità con la quale si era dedicato al suo corredo e in meno di un minuto in­dossò il pigiama e ripose i vestiti nel suo armadietto. Poi si mise a sedere sul letto, le mani appoggiate alle ginocchia, sorridendo, guardando me che me ne stavo ancora imbambolato.

Ecco, pensai, ci siamo. Ora la perfezione della mia solitudine sarà per sempre seppellita dai racconti di questo sconosciuto che vorrei rimanesse tale. Stirai un sorriso di circostanza, come contraccambio delle prime parole che già il compare mi rivolgeva:

"Un cancro" disse, mentre con la mano indicava la parte del suo addome attorno al fegato.

"Una bestia sbucata all'improvviso che quasi mi mandava al Creatore, un anno fa."

Che il corpo impazzisca e ritorca contro sé stesso malformazioni, neoplasie, tumori vari non ha niente di eclatante se non per chi cre­sce il proprio male e per chi ne ha conseguenze dirette: amici, pa­renti, conoscenti. Io non posso altro che ascoltare e provare un ov­vio dispiacere, una generica partecipazione umana, direi di circostanza. Per uno come me, cliente abituale degli ospedali, queste storie appartengono al già sentito, quasi all'assuefazione. E poi, faccio già abbastanza fatica ad accettare la mia di sofferenza, per avere an­cora voglia di spendere emozioni a condividere le disgrazie altrui.

In genere mi limito a indossare un costume di educato ascoltatore. Annuisco, lancio qualche stupita esclamazione spalancando gli occhi, interrompo il racconto dell'altro buttando là qualche interie­zione, assicuro di capire, sperando nel mio intimo che la storia che in fondo già conosco si srotoli il più in fretta possibile verso la fine, e che un briciolo di silenzio ritorni a occupare la stanza al posto di quelle frasi sentite e risentite.

Fu così anche con Alberto con il quale dunque interloquii a base di "davvero", "ma guarda un po'", "ma come no?" e "cose da non cre­dere", la solita storia di un uomo di cinquanta anni che, a causa di un controllo medico di routine, scopre di avere un tumore bello grosso sul fegato, la disperazione sua, quella dei parenti e degli amici, la vita che all'improvviso cambia di gusto e di colore, e poi la de­cisione di operare, le traversie della degenza, le chemioterapie e via via tutto quello che va fatto in questi casi, compresi i controlli a distanza di mesi, il motivo per cui adesso si trovava di fronte a me a raccontarmi di sé come se fosse un eroe possente, uno che era ri­uscito a sbaragliare un nemico infido e terribile.

Io lo osservai mentre sottolineava la soddisfazione per questo suo ri­sultato con il tono di voce forte, i movimenti delle mani ad accompa­gnare le parole, l'espressione del viso ora accorata e ora raggiante. Lo osservai cercando di superare il fastidio che quella situazione mi pro­vocava, qualcosa che stava mutando l'irritazione per la solitudine vio­lata in un sentimento sgradevole di noia. Mentre lui parlava pensai infatti a quanti Alberto avevo conosciuto nelle mie degenze ospeda­liere, quante parole uguali, quanti gesti e quante espressioni identiche tanto che quasi riuscivo ad anticipare le fasi del racconto e a indovi­nare le circostanze, le funzioni dei personaggi, i colpi di scena.

Solo un fatto di quella situazione era originale: Alberto era un in­fermiere, e quello stesso reparto era il suo luogo di lavoro. Per quello si muoveva così a suo agio, allargava sorrisi al personale e occu­pava lo spazio proprio come fosse a casa sua. E di questa familiarità lui ne faceva vanto, sembrava quasi fosse un valore aggiunto alla lot­ta intrapresa contro il tumore che aveva osato attaccargli il fegato. Ben presto, infatti, dovetti constatare quanto quella sua strana posi­zione cambiasse il suo aspetto di paziente, forse come un cuoco che sieda al tavolo del proprio ristorante o un pilota ospite sul suo stes­so aereo. Conosceva il modo per far funzionare i canali del televiso­re che io invece non ero mai riuscito a sintonizzare, si faceva passare telefonate esterne dal centralino, regolava la sua terapia discuten­done o addirittura dando ordini e consigli ai colleghi.

Io assistevo a tutto questo con un misto di curiosità e di fastidio per il viavai di persone che venivano a portagli cose o soltanto a salutarlo, per quel continuo cicaleccio attorno a una storia che ormai ave­vo già ascoltato troppe volte, e soprattutto per la sicurezza che Al­berto dimostrava, quel sentirsi padrone di casa, quel perfetto agio che non mi pareva si confacesse alla condizione di un paziente. E infatti, pensai, quell'uomo paziente non si sentiva per nulla, in quella posizione ambivalente nella quale lasciava chiaramente intendere di trovarsi soltanto per un accidente momentaneo, un'in­combenza da espletare in fretta per riprendere appieno il proprio ruolo fuori dal letto che gli era stato assegnato.

Queste sensazioni seccanti mi assalirono e per difendermi dal loro assedio dichiarai una profonda stanchezza, chiesi scusa al mio com­pagno di stanza e mi coricai dandogli le spalle, cercando la prote­zione di un sonno falso. Le visite non cessarono ma, devo ricono­scere, le voci si abbassarono e il rumore delle chiacchiere diventò un bisbiglio che alla lunga mi avvolse e mi cullò, così che davvero mi addormentai.

Fui risvegliato di colpo da un urlo a stento trattenuto, una voce di donna che con rabbia stava gettando addosso a qualcuno un rim­provero:

"Ma come hai potuto dimenticartene" diceva.

Io non mi mossi. Continuai a tenere gli occhi chiusi fingendo an­cora il sonno così da poter proseguire a spiare quel litigio disperato, dalla tana che mi ero ricavato. Intanto la voce femminile continuava a ripetere quella frase come un mantra, con un timbro angosciato, le parole a volte inframmezzate da singhiozzi, mentre un'altra voce, quella di Alberto, sussurrando tentava di tranquillizzare la donna, sibilava implorando il silenzio.

Disteso sul mio letto, io mi immaginavo la scena che si stava svol­gendo alle mie spalle. Mi pareva di vedere Alberto piegato su una donna che, a giudicare dalla voce, doveva essere giovane. Le sussur­rava parole di consolazione, si giustificava, e intanto la accarezzava come per ammansirla.

Tutto questo durò ancora una decina di minuti durante i quali le due voci si erano abbassate ed erano diventate un bisbiglio quasi impercettibile, interrotto da un mezzo grido della donna che a un certo punto troncò decisamente il colloquio:

"Non riesco a perdonarti" disse.

Poi sentii dei passi verso la porta e, prima dell'urto di questa che si richiudeva, ancora quella voce dire secca, glaciale:

"Non oggi."

Il silenzio ripiombò nella stanza, quel silenzio che io amo così tanto e che, da quando era stato rotto dal nuovo arrivo, anelavo riconqui­stare. Eppure, adesso, quell'assenza assoluta di rumore mi pesava tanto quanto il fastidio per la perdita provata in precedenza. Nulla si muoveva nella stanza. Non si percepiva un respiro, un cigolio.

Tutto s'era ghiacciato in un'immobilità insopportabile.

Così decisi di romperla. Come se mi fossi svegliato in quel momen­to, aprii gli occhi, stirai le braccia e mi girai verso Alberto: se ne stava seduto sul suo letto, le mani appoggiate alle ginocchia e lo sguar­do fisso sul pavimento.

"Cinque anni fa mia moglie si ammalò" disse all'improvviso, senza che io gli avessi domandato nulla.

"Febbri alte, debolezza totale, nausee continue. La feci ricoverare qui, per fare dei controlli, approfittando del fatto che io ci lavoro e dunque potevo starle vicino e assicurarle un trattamento di ri­guardo."

Lo sguardo sempre piegato verso il basso, stirò un sorriso e si strin­se nelle spalle.

"La misero in questo letto. Il 50. Ci sembrò un buon augurio perché è l'anno in cui siamo nati tutti e due."

Rimase zitto per un lungo minuto.

"La diagnosi fu di leucemia fulminante. Un lampo. Una bestia fe­roce che se la mangiò in poche settimane. Non sto a dirle altro."

Alzò la testa e puntò lo sguardo verso il cartellino sopra il letto, un pezzo di plastica lucida con il numero 50 stampigliato in nero.

"Quando l'anno scorso mi sono ammalato io, mi è sembrato una specie di tributo da pagare al fatto che le ero sopravvissuto, che non ero stato capace di trattenerla, che c'era un destino a unirci per sem­pre, così come l'amore che ci aveva fatto sposare. Per molto sono andato avanti pensando queste stupidaggini, lasciandomi andare alla deriva come un relitto."

Mi guardò fisso negli occhi.

"Sa, a volte è più comodo così. E come abbandonarsi alla corrente e arrendersi."

Di nuovo lasciò tra noi un lungo silenzio.

"Fu mia figlia a non arrendersi. Fece proprio come un bagnino che ti viene a prendere in mezzo all'acqua e ti impedisce di annegare. Con le urla e con braccia forti. Con sguardi di fuoco e con i baci."

I suoi occhi si girarono ancora verso il numero.

"Era lei prima. Quando è entrata e ha visto il letto dove mi avevano messo è impallidita, e poi mi ha assalito. Mi ha accusato di aver di­menticato tutto, di aver mancato di rispetto a lei e a sua madre."

Alberto scosse la testa come a negare qualcosa. "E a me stesso."

"Sa," continuò "quest'anno compio cinquanta anni, e quel numero suona davvero così assurdo..." disse indicando il cartellino.

Continuò a scuotere la testa, lentamente. Nel breve tempo in cui mi aveva raccontato queste cose mi era parso un'altra persona, come se il piazzista che aveva frantumato la mia tranquillità fosse scomparso all'improvviso, lasciando al suo posto un uomo triste, rasse­gnato, morsicato dalla malinconia.

"Non so se esista una spiegazione," disse con un tono pieno di ama­rezza "e se c'è, io non riesco a coglierla."

Guardò ancora una volta il numero sul letto e quasi rivolgendosi a lui spiegò:

"Mi sono talmente impegnato a sopravvivere che me ne sono di­menticato."

Poi, lo sguardo ancora rivolto al pavimento, ribadì con un filo di voce, gli occhi lucidi:

"Me ne sono proprio dimenticato."

Le sue parole rimasero sospese in un vuoto che ancora una volta mi parve insostenibile. Provai una pena profonda e allo stesso tempo un senso di inadeguatezza per non saper dire o fare qualcosa capace di sostenere la debolezza di quei suoni, di risollevare il capo del mio compagno di stanza, di allontanare da lui il peso di quello che era stato. Rimpiansi persino di essermi infastidito per la sua vitalità e per un attimo desiderai fortemente che lui si alzasse dal letto e, come nella scena in cui ci eravamo conosciuti, rompesse la durezza di quella sospensione con i suoi gesti sicuri, smanettando col televisore o salutando uno dei tanti amici della corsia.

Così mi parve ovvio fargli un'offerta:

"Senta, potremmo cambiare letto. Io mi faccio mettere al 50 e lei si trasferisce nel mio, il 49. Quando sua figlia tornerà, questo cambia-mento la aiuterà a calmarsi. Vedrà che capirà" dissi con uno slancio di speranza.

Alberto scosse la testa:

"Lei è gentile, grazie. Ma quello che è fatto è fatto."

Mi ritornò in mente quanto mi aveva appena raccontato, il deside­rio di arrendersi, di lasciarsi andare.

"Ma no," sbottai quasi insistendo "agli errori si può rimediare, e me l'ha detto lei prima, è sempre bene non cercare scuse."

Il mio compagno stava per aprire bocca, ma la sua risposta venne interrotta da un paio di infermiere che vennero a prenderlo per portarlo di sotto, per un esame. Alberto sembrò scrollarsi di dosso un po' della rassegnazione che l'aveva colto dopo la visita della figlia: preparò le cose con una certa celerità, si ficcò in bagno, aprì l'arma­dietto per togliervi delle carte, rispolverò un tono di voce affabile e deciso. Però, osservandolo bene, mi parve che tutto suonasse falso, che quel ritorno all'antica sicurezza fosse una sorta di recita, nella quale, forse, non credeva più neanche lui.

Infatti era quasi arrivato alla porta, le due infermiere che gli facevano strada, quando si bloccò e tornò indietro, verso di me. Fece i due metri che ci separavano molto lentamente, come l'Alberto che ave­vo conosciuto non avrebbe mai fatto:

"In fondo io amo quel letto" mi disse con un filo di voce. Poi mi al­lungò la mano come aveva fatto quando si era presentato.

"Grazie lo stesso" sussurrò. Posò ancora una volta lo sguardo verso il 50, rimanendo immobile per qualche secondo, poi si voltò e raggiunse con passo deciso le infermiere.

Era la tarda mattinata e le ore che seguirono furono per me molto spiacevoli, trascorse con quel senso di intontimento che si prova dopo un sonno pomeridiano prolungato. Lo giustificai con la febbre, con l'umore nero per il pessimo pranzo, ma alla fine dovetti ammettere con me stesso che l'immagine del mio compagno di stanza che guardava il letto vicino al mio, continuava a occupare la mia mente. Inol­tre, con il passar del tempo, saliva in me anche un'inquietudine. Un paio di volte erano venuti infermieri a cercare nell'armadietto docu­mentazioni e referti che Alberto doveva aver avuto con sé e nella se­conda occasione non avevo resistito a chiedere informazioni.

"Purtroppo ha qualche problema" mi rispose un suo collega in mo­do molto laconico, scappando con in mano una radiografia.

Ho confessato di preferire la solitudine, ma per essere sincero, la notte che passai da solo, guardando accanto a me il letto numero 50, mi mise di fronte a un vuoto che non riuscii a sopportare, obbligan­domi ad alzarmi per andare alla finestra, scrutare il parco di fronte alla mia stanza, contare le panchine e osservare il disegno dei lampioni, seguire le ombre che la luce giallognola proiettava tra le vene­ziane e i tubi dell'ossigeno, la forma delle maschere e degli aspirato­ri. Guardavo e contavo mentalmente il numero dei letti della corsia, partendo dal primo locale in fondo, per verificare il numero, due per due, fino ad arrivare al 50 che avevo di fronte, sempre vuoto.

Stava quasi albeggiando quando una voce, in un sussurro, mi chiamò:

"Mi scusi, ma dovremo spostarla" mi disse l'infermiera.

Mugugnai una richiesta di spiegazioni:
"Dobbiamo lasciare la stanza per un'urgenza."

Mentre raggiungevo la mia nuova sistemazione con le poche mie cose tra le braccia, incrociai nel corridoio un letto spinto da due in­fermieri. Dalle aste accanto alla spalliera pendevano tre o quattro flaconi di fleboclisi, un paio di macchinari pompavano qualcosa a un uomo coperto quasi totalmente da un lenzuolo dal quale si intravedevano fili colorati, tubicini. Sbucava solo una parte della testa, quanto per me sufficiente a riconoscerlo.

"Alberto" quasi urlai.

L'infermiera che mi accompagnava mi strinse il braccio, sospirò qualcosa che non capii, poi, forse come avrebbe detto a un bambino, mi esortò: "Su, andiamo."

Mi misero al 34, accanto a un vecchio signore che si lamentò per quella sveglia antelucana, imbastendo un monologo di lamentazio­ni che, dentro di me, benedii. Non avevo nessuna voglia di rimanere ancora solo. Mi accucciai sul nuovo letto, mi abbandonai alla musica dei lamenti del mio vicino e finalmente mi addormentai.

Qualche ora più tardi, al mio risveglio, l'ospedale aveva ormai ri­preso la sua normale vita. I pazienti ciabattavano per il corridoio, viavai di medici e di infermieri, trilli di campanelli, un vocio diffu­so e incomprensibile. Il peso della notte non mi aveva ancora ab­bandonato. II mio vicino stava leggendo un giornale e mi salutò freddamente, mugugnando qualcosa che non capii. Per un momen­to mi risentii bambino, rimasticai il sapore amaro della sconfitta, la delusione che si prova dopo un compito in classe andato male. Mentre mi avviavo per il corridoio riprovai uguale, la stessa morsa allo stomaco che mi assalì il giorno in cui mia moglie mi telefonò, per dirmi che se ne sarebbe andata.

Alzai la mano verso la fronte in un gesto per me abituale, quasi a voler giustificare con il calore della febbre il peso che sentivo dentro di me. Mi fermai un momento e sorrisi. Feci un lungo respiro per allontanare ogni remora e finii di percorrere gli ultimi metri che an­cora mi dividevano dalla mia vecchia stanza.

Dalla fessura della porta, appena socchiusa, vidi una giovane donna seduta ai piedi del letto, le braccia appoggiate alla spalliera e lo sguardo fisso e triste. Io lo seguii e dai suoi occhi scesi sulle coperte fino al corpo immobile che aveva di fronte, steso sotto il cartellino con il numero 50.

 







Racconto tratto dalla raccolta Diletto, Voland editrice, Roma, 2009.




Ugo Riccarelli

Ugo Riccarelli (Cirič, 3 dicembre 1954 – Roma, 21 luglio 2013) č stato uno scrittore italiano. Ha studiato Filosofia all’Universitŕ di Torino. Nel 2004 ha vinto il Premio Strega con il romanzo Il dolore perfetto. Fra gli altri riconoscimenti ricordiamo il Premio Chianti 1996, per Le scarpe appese al cuore, nel 1998 č stato finalista al premio Campiello con il romanzo Un uomo che forse si chiamava Schultz.





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