L’IDENTITÀ FEMMINILE IN MOZAMBICO Lettura socio-antropologica di un romanzo di Paulina Chiziane Silvia Cavalieri
Ho incontrato la scrittrice mozambicana Paulina Chiziane per la terza volta a Modena, nel maggio del 2007, quando a partire dal suo ultimo romanzo tradotto in Italia, Niketche – Uma História de Poligamia[1], ha raccontato le donne del suo paese: come vivono, cosa pensano, sentono, patiscono, nascondono, condividono, cosa inventano per sopravvivere in una società che continua a discriminarle, in diverse forme e sotto vari aspetti. Ed è proprio prendendo spunto da questo romanzo che voglio dipanare il mio percorso alla scoperta dell’identità femminile nel Mozambico contemporaneo, utilizzando Niketche essenzialmente come fonte etnografica di dati raccolti sul campo dall’autrice, grazie alla sua esperienza lavorativa con un’ONG che opera nel nord del paese, nonché ricostituiti a partire dal suo vissuto personale di donna mozambicana. Nella consapevolezza, però, che è impossibile “all’interno del testo poetico, […] distinguere tra fatti oggettivi e immaginario poetico”[2], ho voluto confrontare gli indizi che il libro offre con scritti teorici sull’argomento e con ricerche fatte sul campo. Ho, inoltre, utilizzato lo stesso romanzo come manufatto di per sé utile all’indagine antropologica, testimonianza di una realtà, come quella che mi pare emergere dai dati considerati, che elude le contrapposizioni nette e, per questo, non interpretabile linearmente, secondo parametri convenzionali: un sistema complesso e in continua trasformazione che può essere fotografato soltanto nella consapevolezza che esiste un margine di approssimazione inevitabile, che ne sfoca i contorni.
Il romanzo prende forma a partire da una questione complessa e spinosa per il Mozambico, così come per molti altri paesi africani, la poligamia, che compare già nel sottotitolo. Dopo vent’anni di matrimonio, Rami, sposata con rito cattolico nonché lobolata[3],secondo le tradizioni locali, da Tony, commissario della polizia a Maputo, scopre che il marito ha costruito altri quattro focolari paralleli a quello legalmente riconosciuto con altrettante donne, con le quali ha avuto anche numerosi figli. Invece di dichiarare guerra aperta alle sue “rivali”, Rami riesce, con una lungimiranza che inizialmente le costa qualche sforzo, a creare con loro una rete di relazioni che, da un sentimento di complicità, si trasforma in amicizia e sostegno reciproco, tanto che Tony, all’interno del tradizionale sistema di valori a cui fa riferimento, ne viene sopraffatto a tal punto da non raccapezzarsi più. Facendo perno su questo asse centrale, il romanzo schiude continuamente delle finestre su altri aspetti del mondo femminile in Mozambico: le discriminazioni di matrice sessista, che cominciano già al momento della nascita, i problemi che devono affrontare ogni giorno le donne abbandonate dai mariti o le vedove, i riti d’iniziazione, i maltrattamenti, gli stupri (diffusissimi nei lunghi anni della guerra civile, tra 1977 e 1992), l’importanza delle donne nelle microeconomie locali e il loro rapporto con l’autorità e col potere. Il fatto che le cinque protagoniste del romanzo appartengano ognuna a un’etnia diversa permette di avere un taglio trasversale sulla condizione femminile nell’intera nazione, da sud a nord.
1. Il dilemma della poligamia: mortificazione o ancora di salvezza?
In un’intervista al Salone del Libro di Torino, nel maggio 2006, Paulina Chiziane descriveva la poligamia non tanto come un problema quanto piuttosto come un sistema, tanto questa realtà è radicata nella società mozambicana[4]. Le unioni poligamiche non sono né riconosciute né proibite dalla legge che comunque, nel dicembre 2003, ha preso pragmaticamente atto della diffusione di questa pratica giungendo a rivedere il diritto familiare e a sancire che, in caso di morte del marito, l’eredità debba essere suddivisa in parti uguali tra le vedove[5], una decisione che è stata salutata con canti di gioia dalle decine di donne che stazionavano in attesa, davanti al Parlamento[6].
Il nodo della poligamia viene affrontato anche nel settembre 2008 dal blog Vasikate va Moçambique (‘Donne del Mozambico’ in lingua chope), che esplicitamente si propone l’obiettivo di “abordar assuntos que façam crescer a mulher moçambicana”: si critica l’atteggiamento diffuso che non solo tollera ma fondamentalmente ammicca al poligamo, come se la sua promiscuità fosse un attributo sintomatico di una virilità spiccata, mentre una donna con un amante viene immancabilmente condannata dall’opinione pubblica. Come Ana Bénard da Costa mette in rilievo nel suo studio svolto alla periferia di Maputo, la poligamia complica un paesaggio sociale già estremamente variegato per quanto riguarda le relazioni tra i generi, a causa dell’accavallarsi di più tradizioni culturali senza che una prevalga nettamente sulle altre. In ogni caso, come scrive Ximbitane nel blog delle donne mozambicane,
na sociedade actual, talvez por ainda estar imbuída pelo espírito esvoaçante da poligamia, que modernamente se insiste em fingidamente ignorar, ter Casa 1 e 2 e, porque não, outras mais, é uma prática real. Geralmente, quem tem conhecimento de tal prática cala-se e/ou faz-se de carapau de corrida, talvez porque também é adepto ferrenho ou jogador de tal clube e o campeonato assim vai andando.[7]
Il piccolo dibattito, a cui partecipano sia donne che uomini, che il post sopraccitato scatena, riproduce la discordanza di opinioni che si agglutina attorno alla questione: chi considera la poligamia un fenomeno circoscritto sostanzialmente alla classe media urbana, chi invece, come la stessa autrice del post, ritiene che la povertà non faccia da deterrente e che, anzi, avere più mogli possa anche essere un modo per fare aumentare gli introiti, ma pare che ad associare il fenomeno a un certo benessere che permetta il mantenimento di più mogli sia un’opinione diffusa, tanto che la troviamo già negli atti del secondo incontro dell’Organização da Mulher Moçambicana (OMM), nel 1976[8]. Sul fatto che si tratti di un fenomeno diffuso quasi soltanto nelle città, invece, vari commentatori non sono d’accordo, fornendo numerosi esempi di poligami che vivono in campagna.
Gli aggregati familiari poliginici creati dalla pratica della poligamia possono assumere sostanzialmente due forme: quella della coabitazione delle mogli e dei figli sotto lo stesso tetto e quella di più nuclei matrifocali visitati dal marito a periodi alterni secondo un calendario ben preciso, come avviene per le protagoniste di Niketche. La poligamia può gettare le donne e i loro figli in gravi situazioni di indigenza, perché come afferma una delle mogli di Tony:
- Sabes o que significa ser mulher de um homem casado? É o mesmo que fazer filhos na sombra da outra mulher. É não ser socialmente reconhecida como esposa. É ser abandonada a qualquer momento, ser usada, ser trocada. Que futuro esperas tu?[9]
Ma non tutte sono dello stesso parere. Luísa, terza moglie di Tony che, diversamente da Rami e dalla seconda moglie, viene dal nord del Mozambico, da quella provincia della Zambesia dove Paulina Chiziane lavora, considera la poligamia come una pratica dettata dal buon senso:
Eu venho de longe, minha senhora, sou da Zambézia […] Venho de uma terra onde os homens novos emigram e não voltam mais. Na minha aldeia natal só há velhos e crianças. […] Desde cedo aprendi que homem é pão, é hóstia, fogueira no meio de fêmeas morrendo de frio. Na minha aldeia, poligamia é o mesmo que partilhar recursos escassos, pois deixar outras mulheres sem cobertura é crime que nem Deus perdoa.[10]
- Não sou possessiva. Venho de uma terra onde a solidariedade não tem fronteiras. Venho de um lugar onde se empresta o marido à melhor amiga para fazer um filho, com a mesma facilidade com que se empresta uma colher de pau.[11]
Se teniamo presente che con il matrimonio, soprattutto in ambito rurale, per la donna mozambicana il livello di vita, imperniata su lavori durissimi nei campi, le attività domestiche e i continui servizi al marito e per i figli, quasi sempre peggiora, la collaborazione con altre spose può davvero essere auspicabile. Anche in città del resto, dove tante donne hanno un lavoro esterno alla famiglia, si configurano situazioni cosiddette di “doppia carriera”, molto simili a quelle delle società occidentali, nelle quali, in pratica, “la moglie contribuisce alla carriera del marito offrendogli i mezzi esistenziali ed economici per lanciarsi in attività più remunerative mentre mantiene comunque per sé la parte più gravosa delle incombenze domestiche e di cura dei figli.”[12].
La poligamia si configura allora come una consuetudine dall’aspetto bifronte, che, in molti casi, le donne subiscono, ma che possono perfino sostenere, all’interno di un sistema che prevede per loro condizioni di lavoro a dir poco debilitanti, in un contesto dove spesso devono lottare duramente per la sopravvivenza propria e dei loro figli.
2. I riti d’iniziazione: spazi di potere femminile o amplificatori del sistema patriarcale?
Leggendo Niketche salta immediatamente all’occhio che esiste una netta spaccatura, in Mozambico, tra culture meridionali, dove la penetrazione coloniale è stata più profonda, e culture settentrionali. Sembra quasi che l’autrice, nata a Manjacaze, nel sud del paese, ritenga che al nord le donne godano di una maggiore considerazione, anche se i modi di questa valorizzazione denotano non poche ambiguità che lo stesso romanzo, d’altronde, non esita a rappresentare, circoscrivendo così una sorta di poetica dell’aporia, che nasce da uno sguardo che non vuole forzare la realtà dentro a sintesi astratte, pronto invece ad accoglierla nelle sue inconciliabilità. La differenza fra nord e sud che il romanzo evidenzia ha a che fare soprattutto con la corporeità: le donne settentrionali sembrano conoscere a fondo il proprio corpo e padroneggiarne le potenzialità con grande maestria, anche se le strategie che mettono in atto presuppongono sempre e comunque uno sguardo e un giudizio maschili. All’inizio del romanzo Rami, disperata per i reiterati tradimenti del marito, si reca da una “consulente d’amore” che la istruisce in materia di sensualità e seduzione. Immediatamente, dall’accento, si rende conto che la consulente è una macua, di un’etnia del nord, dunque: Rami, meridionale, si è preparata al matrimonio secondo modalità apprese dal cattolicesimo, ma è passata anche per i riti d’iniziazione. Alcune usanze sembrano condivise in tutto il paese, ma ciò che manca alle ragazze del sud, secondo la consulente di Rami, è la conoscenza di trucchi e segreti fondamentali sull’amore, la seduzione e il sesso, che le giovani della sua etnia, invece, apprendono durante questi riti.
I giudizi su queste cerimonie non sono unanimemente positivi tra le donne mozambicane. In sintonia coi dettami della Frelimo, che aveva tentato di sradicarli proibendoli, negli atti del secondo convegno delle donne mozambicane organizzato dall’OMM, leggiamo che essi inculcherebbero “na mulher o espírito de submissão e independência total em relação ao homem”, e che sarebbero tesi a “criar na menina o espírito de submissão e resignação ao sofrimento físico, são-lhe infligidos maus tratos”[13]. Sembrerebbero, dunque, uno strumento di propagazione del modello patriarcale; ma c’è anche chi li ritiene uno spazio in cui le donne possono esercitare un potere reale, come Ruth Jacobson che ha studiato le discriminazioni di genere in relazione alle prime elezioni libere mozambicane, del 1994. La Jacobson giudica negativamente il tentativo di abolire i riti fatto dalla Frelimo, poiché li considera uno dei contesti cruciali in cui si dà un riconoscimento sociale all’autorevolezza femminile[14]. La stessa Paulina, a Torino, ci raccontava che molte donne considerano i riti e le scuole di iniziazione un momento talmente importante per la loro formazione che fanno di tutto per esservi ammesse. Le interviste di Daniela Maccari, a donne che si sono avvicinate al cattolicesimo, mettono in evidenza la propensione per una scelta sincretica che non mira a un’estirpazione totale della tradizione ma, piuttosto, a una sua riformulazione, rivista alla luce dei principi della religione importata[15].
Per quanto riguarda la supposta posizione avvantaggiata delle donne settentrionali rispetto a quelle meridionali occorre, in ogni caso, fare alcune precisazioni. È vero che quelle macua sono società matrilineari, in cui si riconosce la linea parentale materna e la donna ha il diritto di accesso alle terre collettive, ma è importante sottolineare chiaramente che a una società matrilineare non corrisponde un maggior potere delle donne: sia a nord sia a sud le esse continuano a vivere in uno stato di subordinazione. L’unica distinzione è che, in effetti, il sistema matrilineare conferisce alle donne maggiore autorevolezza e una relativa autonomia, ma sempre all’interno di una cornice fortemente maschilista. La stessa ereditarietà della terra sancita dalla matrilinearità ha sia dei vantaggi che degli svantaggi: conferisce indubbiamente autorità e anche un maggiore margine di autonomia ma, al tempo stesso, aumenta il carico di lavoro della donna, sommando alla fatica fisica ulteriori responsabilità.
3. Sole e solidali
Disperata per la prolungata assenza di Tony, Rami si confida con le sue vicine di casa e si rende conto che la maggior parte di loro vivono situazioni analoghe alla sua, quando non peggiori:
Nesta minha rua a maior parte das mulheres ficou só, os maridos decidiram abalar quase ao mesmo tempo. Eu sou a única que ainda vê rosto de homem de vez em quando – só para vir comer e mudar de roupa. Não há homens neste bairro, as mulheres é que governam as famílias, mas quando a noite cai, vêem-se muitos homens a entrar e sair de algumas casas como ladrões, sorrateiramente. São homens casados, com certeza, e dessa relações nascerão filhos, muitos dos quais morrerão sem conhecer o pai.[16]
Rimanere sole in una società poco avvezza a considerare la donna come un individuo autonomo può diventare una vera e propria tragedia. Quella delle “mães solteiras” è una realtà che esiste da prima della guerra civile, come testimonia la voce specifica ad essa dedicata nell’elenco dei problemi da affrontare stilato durante la Conferenza dell’OMM del novembre ’76 e che persevera a tutt’oggi, come dimostra la testimonianza riportata da Ana Bénard da Costa:
Minha mãe não quis casar com o cunhado e por isso mandaram-na embora, […] faziam isso antigamente, quando morre o marido eles arrancam todas as coisas da mulher. A família do marido leva todos os bens da senhora […] podem até levar os filhos […] e a mulher volta para casa dos pais […] e ela engravida outra vez, tem outro filho, e assim sucessivamente […] e então chamamos de «mães solteiras».[17]
Scrive Paulina che, durante la cosiddetta “Rivoluzione” – i primi anni dopo l’indipendenza, nel 1975 – “eram presas todas as mulheres que não tinham maridos e deportadas para os campos de reeducação, acusadas de serem prostitutas, marginais, criminosas”[18]Harri Englund, nel suo studio etnografico sulle relazioni che si istauravano tra le persone in fuga dal Mozambico devastato dalla guerra civile e che si insediavano temporaneamente nel Malawi, vicino al confine, evidenzia come, anche negli anni della guerra civile, sia l’uomo a “connotare”, in positivo o in negativo, le donne a cui si relaziona. I tre personaggi femminili di cui viene raccontata la storia, Namanyada, Nasoweka e Namadzi, sono legate a Luís, un importante membro locale della Frelimo, e per questo vengono pesantemente molestate dai guerriglieri della Renamo (Resistência Nacional Moçambicana), il partito avversario. Anche la donna, in un certo senso, conferisce all’uomo maggiore o minore credibilità, ma sempre in posizione subalterna, complementare all’uomo: Nasoweka, seconda moglie di Luís, che, alla fine della guerra civile, vorrebbe rimanere nel Malawi perché in esilio ha ricostruito una rete soddisfacente di relazioni, è “costretta” a rientrare in Mozambico altrimenti il marito perderebbe prestigio all’interno della Frelimo. Englund sottolinea come siano soprattutto gli uomini a ragionare in termini di separazione a seconda della nazionalità, dell’etnia, della tribù o del partito di appartenenza, mentre per le donne venga più naturale creare reti di supporto reciproco per condividere (e quindi alleviare) le dure fatiche quotidiane, come andare a prendere l’acqua, raccogliere legna per il fuoco, pestare il granturco e occuparsi di figli e nipoti[19], intessendo pazientemente quell’“economia del dono e della reciprocità”[20] che è tanto diffusa in tutta l’Africa, patrimonio etico enorme, da cui, secondo Serge Latouche, l’Occidente dovrebbe volgersi per ricominciare a mettersi seriamente in discussione[21]..
Per le donne più povere – e i tassi nazionali di povertà sono ancora altissimi – essere abbandonate significa precipitare in uno stato penosissimo, in costante sottoalimentazione, senza nessuna possibilità di curare né se stesse né i loro figli, tra i quali la mortalità è altissima. Ai figli che sopravvivono le donne non sono assolutamente in grado di assicurare un livello di scolarizzazione neanche minimo. Il livello di povertà è, in effetti, un discrimine molto forte: per le vedove scolarizzate la possibilità “di farcela” sono maggiori, come dimostrano le storie di Anita e Shona raccolte da tre antropologi nella provincia di Manica[22].
Anche la vedovanza, all’interno della società mozambicana, può mandare in rovina una donna. Nel momento in cui, per una serie di equivoci, pare che Tony sia morto, Rami subisce quelle umiliazioni fisiche e psicologiche che vengono inflitte molto spesso alle vedove dal sistema tradizionale: viene depredata dei suoi beni dai parenti del marito, che le svuotano la casa di tutti i mobili senza lasciare a lei e ai figli nemmeno un materasso, le vengono rasati i capelli a zero e, nonostante la calura opprimente, le donne della famiglia del marito la vestono con pesanti abiti neri per poi accusarla di essere responsabile della morte di Tony. Si consuma anche il cosiddetto kutchinga, una sorta di rito del levirato, che vuole che la vedova, a otto giorni dalla morte del coniuge, abbia un rapporto sessuale con un parente di lui, di solito suo fratello (il cognato della donna).
Rosa Areka, tra le testimonianze raccolte nel nord del paese da Daniela Maccari, mette in evidenza un altro fattore determinante per lo stato di abbandono in cui molte donne si sono trovate: l’impatto della guerra. Suo marito è stato ucciso dai guerriglieri nel 1985, dentro alla scuola dove insegnava. La tradizione vorrebbe, in questi casi, che la vedova venisse sposata dal cognato perché la famiglia del marito di solito non le permette di tornare a casa di sua madre, altrimenti perderebbe i figli della donna[23], ma non è detto che tutte le persone seguano questa usanza: il cognato di Rosa, per esempio, non l’ha mai importunata con richieste di matrimonio non gradite, ma il suo caso sembra piuttosto un’eccezione. A sottolineare negativamente la sua originalità, il fratello la bolla come “muthiyana-mulopwana” (“donna e uomo, perché risolve da sola anche le cose degli uomini”[24]), un atteggiamento punito dalla tradizione, come conferma la leggenda, che leggiamo in Niketche, di Vuyazi, la principessa ribelle il cui volto è stato schiacciato sulla luna da un drago, come punizione eterna per la sua disobbedienza:
Quando a lua cresce e incha, há uma mulher que se vê no meio da lua, de trouxa à cabeça e bebé nas costas. É Vuyazi, a princesa insubmissa estampada na lua. É a Vuyazi, estátua de sal, petrificada no alto dos céus, num inferno de gelo. É por isso que as mulheres do mundo inteiro, uma vez por mês, apodrecem o corpo em chagas e ficam impuras, choram lágrimas de sangue, castigadas pela insubmissão de Vuyazi.[25]
Gravi sanzioni, soprattutto morali, sono previste, in effetti, per le donne che vogliono infrangere le consuetudini, così come ve ne sono per gli uomini che intendano travalicare i confini tradizionali occupandosi di mansioni reputate femminili. Le donne che intendono lavorare sono, tra l’altro, spesso contrastate proprio dai padri o dai mariti, gelosi delle persone che esse possono incontrare attraverso la loro professione[26].
La guerra e le trasmigrazioni, interne o verso altri paesi (in particolare verso i vicini Malawi, Zimbabwe e Sudafrica), hanno un fortissimo impatto sulla condizione femminile, lasciando le donne con meno protezione, più responsabilità, prive spesso del supporto delle reti microsociali che tanto possono aiutare, particolarmente nelle situazioni più emarginate, in cui l’organizzazione statale fa più sentire le sue carenze. Sia nelle aree controllate dalla Renamo sia in quelle dominate dalla Frelimo, le donne sono state sottoposte a dure violenze dai guerriglieri, che le hanno sfruttate per i lavori agricoli e domestici, obbligandole in molti casi a fare loro da concubine: alla fine della guerra, nel 1992, molte donne sono tornate, con uno o più figli, ai loro luoghi d’origine patendo, nella maggior parte dei casi, gravi problemi di reintegrazione[27]. È però anche vero che, nei momenti di guerra, l’allontanamento momentaneo o definitivo degli uomini sovverte le gerarchie normali conferendo alle donne una parentesi più o meno lunga di emancipazione, il cui prezzo è comunque altissimo: in questi frangenti, Englund sottolinea come la tendenza all’aggregazione a scopo di sostegno reciproco si faccia particolarmente forte tra le donne, i cui legami possono essere sufficienti a garantire la sopravvivenza nei periodi di crisi.
Un altro motivo per cui una donna può venire abbandonata o essere obbligata ad accettare la poligamia è la sua, vera o presunta, sterilità. Nella società mozambicana le donne che non possono avere figli sono tradizionalmente sottoposte a gravi umiliazioni, come testimonia Cília Nampete:
Per il mio popolo, i macua, la maternità è un grande valore. Avere figli significa ricchezza, amicizia, rispetto. […] Il popolo macua non ammette che una coppia di sposi viva senza avere figli e questo purtroppo crea sofferenze e problemi, anche perché spesso incolpano la moglie di non essere fertile. Se il tempo passa e il figlio non arriva, comincia una serie di azioni di sfiducia verso di lei che la umiliano e la deprimono. […]
La donna che non ha avuto figli è considerata e ritenuta per tutta la vita una bambina. Non le è permesso di partecipare o aiutare in alcun parto, anche se è anziana. È sottoposta a discriminazioni come quella di essere ritenuta e chiamata strega. Se muore qualche bambino nel villaggio, il primo sospetto cade su di lei.[28]
È quindi la maternità a conferire alle donne uno status sociale.
La flessibilità delle relazioni non implica necessariamente, come osserva Ana Bénard da Costa, la destrutturazione della famiglia. Essa porta con sé, infatti, anche strategie di riformulazione dei legami sociali che vanno adattandosi a un “contexto social e económico que exige uma grande versatilidade de práticas e a articulação permanente de valores opostos”[29]. Nemmeno nel caso della solitudine femminile, dunque, è possibile dare una valutazione unilaterale: lo stato di abbandono costringe le donne a una trasgressione dei ruoli tradizionali che può essere, pur con tutte le difficoltà rilevate (in molti casi insormontabili), strumento per la creazione di nuove modalità di porsi in una società che si va necessariamente configurando come un sistema poroso, insieme tradizionale e moderno, conservativo e innovativo al tempo stesso.
4. Donne e alfabetizzazione
Nel 2006, il tasso di analfabetismo in Mozambico era ancora del 51, 9% ma per le donne raggiungeva addirittura il 66,7%[30].
Si può dire che, fin da quando vengono al mondo, le bambine subiscano delle discriminazioni:
O nascimento da menina é celebrado com uma galinha, o do rapaz celebra-se com uma vaca ou uma cabra. A cerimónia de nascimento do rapaz é feita dentro de casa ou debaixo da árvore dos antepassados, a da menina é feita ao relento.[31]
osserva Ju, in Niketche, ricordando la sua infanzia; le femmine, continua, vengono tradizionalmente allattate al seno per un anno mentre i maschi per due. Le donne indigenti, quando devono scegliere a quali dei loro figli dare la possibilità di farsi almeno un’istruzione di base, scelgono quasi immancabilmente i maschi.
Delle sette donne intervistate da Daniela Maccari, quasi tutte dimostrano una determinazione eccezionale nel volersi alfabetizzare e nel voler accrescere la propria cultura. Cília Nampete frequenta, negli ultimi anni della colonizzazione portoghese, il liceo che, grazie alle pressioni esercitate dalla Frelimo sul governo portoghese, era stato aperto anche agli indigeni non asimilados. Afferma di aver voluto proseguire i propri studi per “diventare un dirigente del Frelimo e costruire il futuro del suo paese”[32]: sono gli anni dell’utopia rivoluzionaria, dell’emancipazione dal giogo colonialista, in cui tante persone credono nella possibilità di dare una svolta alla martoriata storia del paese ora che il potere è finalmente nelle mani degli indigeni, ma la situazione precipiterà entro breve nel caos della guerra civile. Rosa Areka racconta la sua determinazione nel volersi istruire, nonostante l’ostilità di tutto l’ambiente circostante, a partire dalla madre.
Pare, dunque, che la donna venga confinata nella sfera del privato ed educata in modo da evitare in tutti i modi che le nascano ambizioni che possano, alla lunga, incrinare il sistema: essa viene, in altre parole, “orientata chiaramente allo spazio domestico” attraverso la configurazione di un ruolo e l’apprendimento di competenze che la “preparano all’accettazione e al conformismo della sottomissione”[33]. Non si può, d’altronde, affermare semplicisticamente che la donna viva segregata o reclusa, né dal punto di vista fisico (le donne passano la maggior parte delle loro giornate fuori di casa) né in senso metaforico (non si tratta semplicemente di proibizione ma anche di protezione nei confronti della donna, una protezione che molto spesso è lei stessa a cercare). L’identità femminile, in altre parole, si gioca su vari livelli: la stessa concezione dei legami familiari è in continua evoluzione, come testimonia anche la già citata riformulazione del diritto di famiglia, nel 2003, che rielabora quello promulgato dal governo monopartitico del 1981, e questo avviene perché il ruolo della donna va trasformandosi senza sosta: le reti di lignaggio si vanno rapidamente erodendo a favore “della solidarietà di vicinato e dell’autorità di altri agenti culturali come le chiese”[34]. A poco a poco le donne, che appaiono soggetti passivi nelle pratiche e nella legislazione, cominciano “a mettere in atto loro strategie per emanciparsi dalla famiglia e dal coniuge o, meno drammaticamente, per negoziare la loro posizione, nel quadro di un diritto alla giustizia che esse reclamano”[35].
5. Donne e potere politico
L’alto tasso di analfabetismo, soprattutto femminile, ha ampie ricadute sulla effettiva relazione che le donne stabiliscono col potere politico. Anche se pare stia raggiungendo una parità formale con l’uomo, la donna mozambicana detiene ancora oggi un potere politico molto limitato.
L’ideologia rivoluzionaria di stampo collettivista che ha orientato il governo della Frelimo dall’indipendenza fino alla svolta del 1989, anno in cui l’impostazione marxista-leninista del partito viene rivista, ha permesso una certa visibilità pubblica della donna e ha legittimato la rivendicazione della parità di diritti ma, in molti casi, i risvolti concreti di questa opposizione al sistema tradizionale e coloniale, sono stati piuttosto deludenti[36]: sul piano dei rapporti sociali le discriminazioni di genere sono rimaste un nodo grave nel Mozambico dei primi anni dall’indipendenza. Con l’avvento dell’ideologia liberale si assiste a un ulteriore svuotamento di significato della lotta per i cambiamenti nei rapporti sociali di genere e a un esacerbarsi dei formalismi a scapito dell’effettività: si ribadisce la necessità della presenza istituzionale della donna, ma si tendono a occultare i meccanismi di un sistema fortemente androcratico dietro la facciata di uno Stato neutro e regolatore[37]. Si sentono cioè molti discorsi “politicamente corretti” ma in pratica persiste una visione paternalista della direzione dei partiti[38], la legislazione poi, “nonostante la mobilitazione del mondo femminile, sembra mantenere un orientamento favorevole all’uomo, al quale rimangono privilegi in senso economico e giuridico”[39].
Verso la fine degli anni Novanta si dà un’approfondita riflessione sulla partecipazione delle donne alla vita politica nazionale, in cui si tentano di articolare nuove modalità che non obliterino le differenze avvalorando più o meno implicitamente il modello androcratico, ma che cerchino invece di tradurle sul piano istituzionale affinché la politica trasformi realmente la propria struttura e i propri modi, visto che “così come si configura oggi non stimola l’inclusione della donna come soggetto”[40]. Nella situazione attuale, infatti, vi sono meccanismi di interazione e organizzazione sociale tali per cui la partecipazione delle donne alla gestione della cosa pubblica è percepita automaticamente come un’anomalia: la stessa occupazione del campo politico da parte delle donne, secondo Conceição Osório che ha intervistato 28 donne e 7 uomini tra l’ottobre 1998 e il giugno del 1999, è ben lungi dal mettere in crisi il modello di dominazione maschile, ma tende anzi a riprodurlo e perpetuarlo, anche se ciò non impedisce alla donna “di sviluppare strategie che la portano a creare alternative al modello politico”[41].
La presenza femminile aumenta quantitativamente[42] in ambito locale, come dimostra un’analisi dello svolgimento delle prime elezioni locali, nel 1998, ma permangono limitazioni dovute al fatto che gli spazi politici organizzati rimangono comunque “strutturati e gerarchizzati secondo il modello maschile di potere”: l’accesso delle donne alla politica avviene “per via maschile”, dipende, cioè, da “reti familiari-partitico-etniche”[43] fortemente patriarcali che costituiscono la cornice entro cui viene conferito loro riconoscimento e valore. Si prescinde ancora una volta dal soggetto nella sua individualità e il metro di misura per scegliere candidati uomini e candidate donne è nettamente diverso: anche le donne militarmente impegnate negli anni di guerra, una volta rientrate nella normalità, si vedono obbligate ad accettare una “spartizione ordinata e «naturale» degli spazi e delle funzioni” per cui finiscono per occupare posti soltanto all’interno di organizzazioni femminili o, se dentro ai partiti, in posizioni subalterne. Quello della politica è, dunque, vissuto come uno stato “profondamente estraneo alle forme di socializzazione e costruzione dell’identità femminile”[44] e quelle che lottano per parteciparvi appaiono, nell’immaginario collettivo, quasi come degli “uomini”. L’accesso al potere per le donne è ovviamente limitato dal fatto che esse sono discriminate in ambito scolastico, sanitario e lavorativo: l’organizzazione della società tende cioè a riprodurre una situazione di forte disparità. Ma esistono rotture, “anelli che non tengono”, occasioni che il sistema stesso, nella sua madornale imprecisione, crea, dando luogo a situazioni preterintenzionalmente eversive rispetto all’ordine tradizionale, che possono far scaturire spazi di emancipazione per la donna[45].
6. Il mercato informale: spazio d’elaborazione di nuovi modelli?
Stanche di elemosinare denaro dal marito, le cinque mogli di Tony, guidate da Rami che ha qualche risparmio da parte, mettono insieme le loro risorse e si organizzano per crearsi fonti di reddito autonome, particolarmente utili nel caso il marito venga a mancare: Saly compra sacchi di cereali all’ingrosso e li vende in cartocci ai mercati di periferia, Lu e Rami cominciano a vendere vestiti di seconda mano, Mauá diventa un’estetista molto richiesta, mentre Ju si mette a vendere bibite al dettaglio. Anche qui, il romanzo della Chiziane si dimostra estremamente aderente alla realtà che vede i mercati africani pullulare di donne che vanno costituendo quelle “sacche di economia informale”[46] che, in alcuni casi, si rivelano il nerbo di sistemi economici vampirizzati da guerre e crisi. Il mercato è un luogo cruciale per il costituirsi e le rappresentazioni delle identità africane: Serge Latouche, additando i mercati africani come esempio virtuoso all’interno della sua proposta di “decrescita serena” e “conviviale” che potrebbe salvare l’Occidente dalla caduta nel baratro verso cui sta correndo, li definisce come “luoghi di scambio di derrate e di parole”,
occasione di incontri tra amici e parenti, dello stesso villaggio o dei villaggi attigui. Un luogo in cui si incrociano le generazioni, i sessi e le diverse etnie, legate da «parentele per scherzo» o, al contrario, in stato di guerra più o meno aperta. Il mercato è un territorio neutro: prima di entrarvi, ciascuno deposita le sue armi.[47]
Il significato di queste piccole imprese è soprattutto simbolico[48], talora perfino politico, visto che queste donne nei mercati hanno occasioni e motivi per aggregarsi in veri e propri gruppi di protesta, com’è capitato, per esempio, a Maputo, dove esiste un movimento delle donne dei mercati informali che si oppone al fisco o al trasferimento delle attività commerciali[49].
Il mercato, tra l’altro, è uno spazio denso di significati stratificati, in Africa, perché “rende visibile sia l’ordine mondano, sia un ordine metafisico espresso nella relazione con antenati e spiriti”[50], detenendo un valore di rappresentazione sociale forte: le donne qui possono, in effetti, “superare le barriere troppo rigide loro imposte dalla condizione domestica”[51], anche se la discriminazione di genere che costringe la donna mozambicana a ritmi di lavoro massacranti si riflette anche sulla configurazione dei mercati dove molte donne non possono recarsi perché troppo occupate a lavorare la terra. Anche quando possono vendere, esse sono spesso penalizzate da una minore conoscenza del contesto di consumo, da una minore disponibilità di denaro o vi esercitano un tipo di attività che è mera protesi del tradizionale lavoro agricolo, i cui frutti che non vengono consumati per la sussistenza del nucleo familiare vengono “smaltiti” al mercato con guadagni minimi, che non tengono certo conto della fatica del lavoro nei campi né del tempo necessario per la produzione e il trasporto[52]. In molti casi i tentativi, da parte delle donne, di inserirsi nel tessuto dei mercati informali sono fallimentari[53]: i conflitti di potere si riproducono anche qui, dove s’incontrano venditori professionisti che spesso hanno anche un negozio fisso. Ciò non toglie che, dal punto di vista della “circolazione dei significati e della formulazione di un pensiero comune”[54], i mercati costituiscano uno spazio estremamente importante: sulle magliette e sulle capulanas vendute dalle donne ci sono scritte “impegnate” con riferimenti a temi di primo piano, come il terrorismo e la guerra in Iraq, che ne fanno quasi dei manifesti politici contro le aggressioni statunitensi o a favore dell’unità africana o della mobilitazione contro l’Aids. Alcuni casi, come quello raccontato in Niketche, possono essere classificati come tentativi di vera e propria imprenditorialità da parte delle donne, in cui ci si approvvigiona di beni in mercati lontani oppure si offrono veri e propri servizi. Dal punto di vista psicologico (e non solo), questo è un grande salto di qualità perché si fonda “sull’autonomia totale del soggetto”[55]. In città la partecipazione delle donne alle attività del mercato è più diffusa, come confermano i dati raccolti da Ana Bénard da Costa alla periferia di Maputo, nel 2002. Praticamente in tutte le famiglie le donne esercitano attività che portano introiti in casa: confezione e vendita di carbone, vendita di legname, di prodotti orto-frutticoli, di alimenti autoprodotti o importati. Molte però, significativamente, non considerano queste mansioni come un vero e proprio lavoro, sottovalutando la portata del loro contributo nell’economia familiare, ma l’antropologa conclude che “em muitas famílias o número de mulheres que trabalham é igual o superior ao número de homens que trabalham”[56].
Lo squilibrio fra uomo e donna pare verificarsi soprattutto sul piano sociale e giuridico, mentre sul piano economico le donne riescono spesso a mettere in piedi strategie di resistenza che permettono loro un certo margine di autonomia, per quanto estremamente vulnerabile perché necessita della cornice, insieme protettiva e discriminante, del contesto parentale: dentro la famiglia, cioè, la donna manda avanti la casa, detenendo un certo potere, che però non si traduce formalmente all’esterno ed è talmente esposto ai venti del caso da rischiare di svanire da un momento all’altro in caso, per esempio, di morte del marito.
Esistono tuttavia, come si diceva, non facili strategie di resistenza che possono portare alla configurazione – o per lo meno all’abbozzo – di identità liminari, che si collocano tra tradizione e modernità e sono senza dubbio, nella loro intraprendenza creativa, foriere di novità nell’orizzonte socio-culturale mozambicano. Queste strategie possono essere facilitate dalla tendenza femminile, particolarmente spiccata in Africa, a creare reti di sostegno e solidarietà: il nuovo entra comunque attraverso uno strappo con la tradizione, una disponibilità ad andare avanti senza fare tabula rasa totale sul passato.
La vita si svolge fra perpetue ambivalenze, mai completamente riconciliabili in una visione unica e coerente. E la scena finale di Niketche sembra volerci comunicare proprio questo: Rami, unica moglie rimasta accanto a Tony perché tutte le altre lo hanno lasciato, rendendosi economicamente autonome attraverso il proprio lavoro e socialmente visibili grazie a matrimoni monogamici ufficialmente riconosciuti, si ritrova da sola col marito, umiliato e disperato, al giardino pubblico. Tony vorrebbe cancellare anche il ricordo dei suoi tradimenti e ricostituire il proprio nido familiare con Rami e i loro figli: la stringe forte a sé e sente che il ventre di lei è gonfio e teso. Vuole credere che quel figlio che lei porta dentro sia suo e la implora perché lei gli confermi la sua speranza ma Rami gli infligge il colpo finale, dicendogli che il figlio è di Levy, frutto di quella notte in cui il cognato, essendo tutti convinti della morte di Tony, aveva approfittato del suo diritto di levirato, come vuole la tradizione.
Lo strappo non si può ricucire. Il nuovo avanza nutrendosi dei riti del passato, ma trasformando inesorabilmente la realtà.
[1] Lisboa, Caminho, 2002. Per tutte le citazioni dal romanzo sarà, d’ora in poi, indicata in nota semplicemente la pagina relativa all’originale, seguita dalla traduzione di Giorgio de Marchis, con pagina relativa all’edizione italiana, Niketche – Una storia di poligamia, Roma, la Nuova Frontiera, 2006.
[2] Renata Gambino, Antropologia letteraria,
http://www.culturalstudies.it/dizionario/lemmi/antropologia_letteraria_b.html, ultimo accesso 05.02.2010.
[3] Il termine lobolo indica sia l’insieme di beni, soprattutto in denaro, che un uomo paga ai familiari di una donna per poterla sposare sia il rito con cui ciò avviene. Ha effetti giuridici, perché rende pubblica la promessa di matrimonio e la convalida, ed economici, perché è una trasmissione di beni che implica un “cambiamento di stato” per la donna (v. Anna Casella Paltrinieri, Mercati del Mozambico – Persone, beni e cultura nei mercati rurali di Sofala e Cabo Delgado, Milano, Vita e Pensiero, 2005, pp. 41-44).
[4] Intervista a Paulina Chiziane (a cura di ValentinaTimpani),
http://www.romanzototale.it/mompracem/2006/11/23/intervista-a-paulina-chiziane/, ultimo accesso 05/02/2010.
[5] Ana Bénard da Costa, “Há de vir um senhor que é meu marido”: relações de género na periferia de Maputo, www.apantropologia.net/publicacoes/.../cap6/CostaAnaBernard.pdf, ultimo accesso 06/02/2010.
[6]http://allafrica.com/stories/200312090271.html, ultimo accesso 06/02/2010.
[7]http://vansikatemoz.blogspot.com/2008/09/os-nomes-dos-bois.html, ultimo accesso 06/02/2010.
[8] v. Documentos da 2a Conferência da Organização da Mulher Moçambicana realizada em Maputo - 17 de Novembre de 1976, Imprensa Nacional de Moçambique, 1977.
[9] pp. 55-56. «Sai cosa vuol dire essere la donna di un uomo sposato? È come fare figli all’ombra di un’altra donna. Vuol dire non avere alcun riconoscimento sociale come moglie. Vuol dire essere abbandonata in qualunque momento, venire usata, sostituita. Che futuro ti aspetti?» (p. 53)
[10] p. 57. «Io vengo da lontano, signora, sono della Zambesia […] Vengo da una terra da dove gli uomini emigrano e non tornano più. Nel mio villaggio ci sono solo vecchi e bambini. […] Presto ho imparato che l’uomo è pane, è un’ostia, un falò in mezzo a donne che muoiono di freddo. Nel mio villaggio, la poligamia è la condivisione di risorse insufficienti, perché lasciare altre donne senza protezione è un crimine che non perdona neanche Dio.» (p. 55)
[11] p. 83. «Non sono possessiva. Vengo da una terra dove la solidarietà non ha frontiere. Vengo da un luogo dove si presta il marito alla migliore amica per fare un figlio, con la stessa facilità con cui si presta un cucchiaio di legno.» (p. 80)
[12] Anna Casella Paltrinieri, op. cit., p. 57.
[13] Documentos da 2a Conferência…, cit. p. 90.
[14] Ruth Jacobson, Dancing towards a better future? Gender and the 1994 Mozambican Elections (A Report prepared for the Norwegian International Cooperation Agency (NORAD)), November 1994, p. 16.
[15] V. Daniela Maccari (a cura di), Noi, figlie d’Africa (Josina – Rosa – Cecília – Isabel – Cília – Laura – Maria), Bologna, Editrice Missionaria Italiana, 2006.
[16] p. 15. “Nella mia strada la maggior parte delle donne è rimasta sola, i mariti hanno tutti deciso di andarsene quasi allo stesso tempo. Io sono l’unica che ogni tanto vede ancora la faccia di un uomo – giusto per venire a mangiare e a cambiarsi i vestiti. Non ci sono uomini in questo quartiere, sono le donne che reggono le famiglie, ma quando cala la notte, si vedono molti uomini entrare e uscire da alcune case come dei ladri, furtivamente. Sono uomini sposati, senza dubbio, e da quelle relazioni nasceranno dei figli, molti dei quali moriranno senza conoscere il padre.” (pp. 14-15)
[17] Ana Bénard da Costa, op. cit., p. 4.
[18] p. 163. “venivano arrestate tutte le donne che non avessero un marito e venivano deportate nei campi di rieducazione, con l’accusa di essere delle prostitute, delle sbandate, delle criminali” (p. 157).
[19] v. Harri Englund, From War to Peace on the Mozambique-Malawi Borderland, Edinburgh, Edinburgh University Press, 2002, pp. 101-106.
[20] Gabriella Rossetti, Terra incognita – Antropologia e cooperazione: incontri in Africa, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino Editore, 2004, p. 166.
[21] v. Serge Latouche, Mondializzazione e decrescita – L’alternativa africana, Bari, Dedalo, 2009
[22] v. John Sender, Carlos Oya, Cristopher Cramer, Women Working for Wages: Putting Flesh on the Bones of a Rural Labour Market Survey in Mozambique, “Journal of Southern African Studies”, 2006, pp. 313-333.
[23] Il controllo dei figli è spesso un nodo di non facile soluzione nelle società matrilineari, anche quando il marito è vivo, come sottolinea Anna Casella Paltrinieri: “Se la donna si trasferisce nel gruppo del marito, i suoi parenti matrilineari avranno difficoltà a mantenere il controllo sui figli, se, invece, ella rimane presso i suoi parenti sarà lo sposo ad avere poca possibilità di esercitare la sua autorità di zio. Una maniera di limitare le difficoltà di tale situazione è data dalla abitudine del marito di trascorrere parte del tempo con la donna e parte con la propria famiglia, ma in questo caso i matrimoni sono poco stabili. Un altro sistema è alternare la residenza.” (op. cit., p. 33)
[24] Daniela Maccari, op. cit., p. 68.
[25] p. 157. “Quando la luna cresce e si gonfia, c’è una donna che si vede in mezzo alla luna, con un fardello sulla testa e un bebé sulla schiena. È Vuyazi, statua di sale, pietrificata nell’alto dei cieli, in un inferno di ghiaccio. È per questo che il corpo delle donne di tutto il mondo, una volta al mese, marcisce e loro diventano impure, piangendo lacrime di sangue. È la punizione per la disobbedienza di Vuyazi.” (p. 152)
[26] v. Ruth Jacobson, p. 15 e Sender-Oya-Cristopher, p. 316 e p. 321.
[27] v. Daniela Maccari, op. cit., p. 33 e pp. 82-86.
[28] v. Ivi, pp. 177-178.
[29] Ana Bénard da Costa, op. cit., p. 7.
[30] http://www.portaldogoverno.gov.mz/noticias/educacao/agosto2006/news_176_e_08_06/.
[31] p. 161. “la nascita di una bambina viene festeggiata con una gallina, quella del bambino si festeggia con una vacca o una capra. La cerimonia per la nascita del bambino viene fatta dentro casa o sotto l’albero degli antenati. Quella della bambina viene fatta all’addiaccio” (p. 152).
[32] Daniela Maccari, op. cit., p. 165.
[33] Conceição Osório, Potere politico e protagonismo femminile in Mozambico, in Democratizzare la democrazia – I percorsi della democrazia partecipativa (a cura di Boaventura de Sousa Santos), Troina (En), Città Aperta Edizioni, 2003, p. 349.
Silvia Cavalieri. Assegnista di ricerca in “Lingua portoghese e brasiliana”, presso l’Università di Bologna, si occupa attualmente della variante mozambicana del portoghese, in particolare attraverso lo studio di un corpus di blog che sta costruendo e annotando. Si è occupata di narrativa mozambicana (ultimamente di Mia Couto, a cui sta dedicando uno studio specificamente linguistico) e portoghese: ha approfondito la produzione letteraria femminile della Generazione delle Novas Cartas Portuguesas su cui ha scritto la sua tesi di dottorato. Ha tradotto quattro romanzi dal portoghese, oltre a brevi racconti e poesie. È redattrice della rivista “Confluenze” (http://confluenze.cib.unibo.it/) e co-fondatrice del gruppo Donne Pensanti, contro la mercificazione del femminile (http://www.donnepensanti.net/). Ha pubblicato articoli su varie riviste scientifiche italiane e brevi saggi, occupandosi di letteratura della guerra coloniale, Teolinda Gersão e altre autrici della stessa generazione letteraria, José Luís Peixoto, Mia Couto, Paulina Chiziane e del racconto mozambicano.
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