DIVO E LA FISARMONICA Francesca Caminoli Arrivò in silenzio. Il primo ad accorgersi che qualcosa camminava alle loro spalle fu Matteo. «Guardate!», esclamò.
Un cane li seguiva. Aveva un muso appuntito, un corpo a siluro che si reggeva su zampe cortissime, pelo liscio, bianco tendente al rosa pallido chiazzato da macchie brune, una delle quali copriva l’occhio destro. La coda, simile a una frusta, era sproporzionatamente lunga. I tre fratelli si fermarono. Anche il cane si fermò, a un paio di metri di distanza. Con un occhio li guardava e con l’altro, quello macchiato, non perdeva di vista lo zaino con la merenda che Matteo si era tolto di spalla e aveva appoggiato per terra. Luca gli si avvicinò. Il cane indietreggiò. «Dai, piccolo, vieni, vieni qui da me».
«Scemo», disse Matteo, «prendi un pezzo di pane e vedrai che verrà». «Prendilo tu», disse Luca, senza togliere gli occhi dall’animale. Matteo tirò fuori un panino, stava per spezzarlo e dargliene un po’, quando il cane si fiondò velocissimo sul sacco da montagna, ci infilò dentro la testa, afferrò un panino intero e scappò tre metri più in là. «Accidenti, che fame», disse Maria.
«Portiamolo a casa», suggerì Matteo.
«A casa? La mamma si arrabbierebbe», disse Maria. Uno strano rumore interruppe la discussione.
«I funghi!», esclamarono insieme i tre ragazzi. Il cane aveva rubato anche il sacchetto con i funghi che avevano appena raccolto nel bosco. Maria si mise a ridere. «Sarai contenta, eh?», disse Luca.
A lei non piaceva cercare funghi. Non li vedeva. Le apparivano solo quando andava a letto. Allora le si paravano davanti agli occhi con aria minacciosa e le impedivano di dormire. «Vieni, andiamo a cercar funghi», avevano detto i fratelli quella mattina, entrando in camera sua e spalancando la finestra. Trovare funghi era la loro rivincita nei confronti della sorella maggiore. Una volta Luca glielo aveva anche detto, mettendole sotto il naso un porcino di quasi un chilo. «Tu sei brava a scuola, ma guarda io che cosa trovo». Non sapevano quanto Maria avrebbe invece desiderato trovarsi faccia a faccia almeno con un comunissimo finferlo o con una banale manina. Li avrebbe scambiati volentieri con i complimenti che la maestra le faceva davanti ai fratelli e che riuscivano a trasformare in un secondo le sue gote pallide in due mele più rosse di quella di Biancaneve. Anche quella mattina aveva cercato di opporre ai fratelli una finta resistenza fatta di lenzuola strappate via, riprese, tirate di nuovo giù dal letto. Maria sapeva che tanto Luca e Matteo vincevano sempre e in fondo si divertiva ad andare nei boschi a perdersi nei suoi pensieri. «No, i funghi no!», esclamò Matteo.
Il cane dette un paio di morsi ai porcini che con Luca avevano trovato, poi sputò tutto. «Deve avere proprio una fame bestiale», disse Maria. «Dai, portiamolo a casa».
I tre fratelli misero in atto una strategia che adottavano spesso quando trovavano un animale dall’aria abbandonata: si facevano seguire fingendo indifferenza, pronti a lanciare un immediato richiamo appena si accorgevano che il cane o il gatto del momento stava prendendo un’altra strada. Scendendo dal bosco verso casa, videro da lontano la madre sdraiata sul prato con Giacomo, il fratello più piccolo. Gli stava riempiendo di baci i piedi nudi. Sicuramente pensava di non essere vista da nessuno. «Mamma, mamma», corse avanti Matteo.
Era bella la madre, sdraiata lì sul prato, con il sole che batteva sui capelli nerissimi. «Da dove arriva quel cane?», chiese, alzandosi di scatto sul busto e mettendosi a difesa di Giacomo. L’animale si infilò rapidamente sotto il braccio su cui lei si appoggiava e si sdraiò di fianco al bambino. «Via!», gli gridò la madre.
Il cane non sembrava avere alcuna intenzione di spostarsi: la guardò con l’occhio macchiato, si girò verso Giacomo, si rigirò verso di lei e non si mosse. «Portatelo via!», ordinò la madre, alzandosi in piedi. «Ci ha seguito lui», mentì Luca. «Non ti piace?». «È mostruoso», disse la madre.
«No, guarda che aria da divo», disse Matteo, «sembra la balia di Giacomo». «Divo, chiamiamolo Divo», disse Maria, «è proprio un nome giusto per lui». «Divo, un nome perfetto», si accalorò Matteo, «sembrava davvero un divo quando ci ha fregato i panini nel bosco». «Cretino», gli sibilò Luca.
«Non vi ha seguito allora, come immaginavo», disse la madre, «siete voi che vi siete fatti seguire. Comunque, adesso lo portate via». «Via», gli gridò, «vai via!».
Il cane la guardò, corse ai suoi piedi, le saltellò intorno, si buttò a pancia all’aria, si appoggiò con le zampe alle sue gambe, la fissò negli occhi, poi tornò da Giacomo e gli si stese accanto. La madre e i tre figli più grandi si guardarono. Nessuno commentò. Matteo cercò senza successo lo sguardo dei fratelli. «Credo proprio che non esista nome più azzeccato di Divo», disse la madre.
Così, tra le grida di gioia dei fratelli più grandi e i gorgoglii del piccolo Giacomo, Divo entrò in famiglia, esibendosi in una nuova serie di saltelli e tuffi a pancia all’aria. «Un cane da circo», disse la madre.
Un vero cane da circo, che veniva spesso chiamato a soccorso da tutta la famiglia per risolvere le situazioni più diverse. «Divo», chiamava la madre quando Giacomo piangeva. Prendeva il cane e lo metteva nel box insieme al piccolo. Giacomo smetteva subito di frignare, s’infilava un dito in bocca, con la mano libera pastrugnava l’orecchio del cane e dopo un po’ si addormentava. Alla crescita dei molari, Divo fu messo a letto con Giacomo anche per tutta la notte. «Divo», chiamavano a soccorso Luca e Matteo, rinchiusi nella loro stanza per fare i compiti con la signorina Wanda, che aveva un fiato cattivissimo. A volte chiamavano anche Maria. Lei apriva silenziosamente la porta della camera, i fratelli le lanciavano uno sguardo disperato, poi lasciavano cadere il corpo indietro sulla sedia, fingendo uno svenimento causato dall’alito mefitico della signorina. Se Maria non c’era, o se era una di quelle giornate in cui avevano litigato e lei rifiutava qualsiasi aiuto, chiamavano Divo. Che si fiondava nella stanza, saltava sul tavolo e gettava a terra quaderni, libri e matite. «Questo cane, mandatelo via», urlava la signorina Wanda. Poi si alzava, si piegava a raccogliere rapidamente tutto, mostrando due gambette talmente secche che, dopo un paio di sbirciate alle prime lezioni, non avevano più provocato nei fratelli alcun interesse. Un pomeriggio Divo fece volar via dal tavolo anche il calamaio. L’inchiostro si rovesciò sull’anonima gonna grigia della signorina, che ebbe una crisi di nervi e non la si vide più. Fu sostituita allora da una Fraülein che aveva un gigantesco bitorzolo sul naso. Chiudeva la porta a chiave. Resistette al cane, ma non alle risate che i tre fratelli facevano davanti all’enorme escrescenza rossa che occupava buona parte del suo naso. Se ne andò anche lei. «Divo», chiamava Maria, per accarezzarlo sospirando per dimenticare le sue prime pene d’amore. Non aveva mai considerato i ragazzi qualcosa di particolarmente interessante. Ne aveva due quasi coetanei in casa e gli altri non le sembravano così diversi e affascinanti da suscitare quei risolini che facevano invece la Brambilla e la Caruso, sue vicine di banco, quando parlavano del Marcucci della terza D. Ma in seconda media qualcosa cambiò. Un ragazzo di prima ginnasio le provocava strani batticuori. Le piaceva come si vestiva, odorava di buono anche quando era tutto sudato dopo aver giocato al pallone sul piazzale vicino alla scuola, dove lei con sua cugina Laura andava a guardarlo, cercando di non farsi notare troppo. Maria sognava spesso a occhi aperti che lui stesse per finire sotto una macchina. Lei si lanciava per salvarlo: la macchina la investiva e la portavano all’ospedale. Lui saliva in ambulanza con lei e le teneva la mano. Lo rincontrò a vent’anni, durante una manifestazione studentesca. Indossava Lacoste, mocassini e Rayban a goccia: un sanbabilino. Il ricordo di quel sogno ad occhi aperti la spinse a difenderlo dai suoi compagni, «lasciatelo stare, lo conosco». Lui la guardò, forse la riconobbe. «Divo», chiamava qualche volta anche il padre, che i primi tempi non ne voleva sapere di «quel mostro», senza farsi sentire dal resto della famiglia. Ma un giorno i tre bambini lo scoprirono. Stavano giocando agli indiani, giravano strisciando per casa senza far rumore. La porta dello studio del padre era socchiusa. Lui stava leggendo il giornale in poltrona, con Divo in grembo. Da indiani erano sgattaiolati via. Fu per merito di Divo se a Natale i tre fratelli quasi riuscirono a regalare alla madre una fisarmonica. Avevano scoperto da alcune vecchie foto che da ragazza la suonava. «Mamma, ma tu sai suonare la fisarmonica?», le aveva chiesto Luca. «Sapevo», aveva risposto lei, arrossendo un po’. «Sapresti suonarla ancora?», aveva domandato Matteo. «Non so, sono passati così tanti anni», aveva risposto la madre. «La suonavi bene?», aveva chiesto Maria.
«Abbastanza, ho fatto anche qualche concerto, ma niente di speciale, erano solo concerti di beneficenza». «E stavi proprio sul palcoscenico davanti alla gente?», aveva domandato curiosa Maria, molto indecisa se da grande salire su un palcoscenico per fare la cantante-ballerina, se diventare medico alla Albert Schweitzer o campionessa olimpionica di sci o scrittrice. «Sì, insieme alle mie sorelle. Avevamo un nostro piccolo trio. Zia Laura suonava il piano, zia Giulia il violino e io la fisarmonica». I tre fratelli decisero che gliene avrebbero regalata una. Ma, dopo aver chiesto il prezzo in un negozio di strumenti musicali, si erano resi conto che la somma di tutte le loro paghette, delle mance dei nonni, delle monete pescate in giro e, a dire la verità, anche di quelle sottratte ogni tanto dal portafoglio dei genitori non sarebbe bastata nemmeno per cominciare. Poi però era arrivato Divo.
Un giorno Maria entrò in camera dei fratelli con aria molto decisa. «So come possiamo fare per regalare la fisarmonica alla mamma, con Divo». «Con Divo?», si meravigliarono i fratelli.
«Tutti dite che sembra un cane da circo, possiamo fargli fare uno spettacolo e ci facciamo pagare». «Ho capito», disse Matteo ridacchiando, «credi di essere Remi. Però ti manca la scimmietta». «Cretino, va bene, se non ci state lo faccio da sola», disse Maria, uscendo arrabbiata dalla stanza, «però faccio da sola anche il regalo alla mamma». «Divo», la sentirono chiamare.
Poi silenzio. Matteo e Luca non resistettero nemmeno un minuto e andarono alla camera della sorella. Era chiusa a chiave. «Lo dico alla mamma che ti sei chiusa a chiave», disse Luca. «Diglielo, tanto non vi apro lo stesso».
«Dai, facci entrare», disse Matteo.
«Vi faccio entrare se ci state».
«D’accordo, ci stiamo».
Maria aprì la porta e spiegò ai fratelli che voleva insegnare a Divo a fare il salto mortale. «E come?», domandò Matteo, mentre Luca li guardava sogghignando. «Te ne puoi anche andare se ti facciamo così ridere», gli disse Maria e, rivolta a Matteo, «non lo so, ma un modo ci sarà». Prese una sedia, la mise al centro della stanza e ci salì sopra. Tese il braccio e fece schioccare le dita.
«Divo», chiamò.
Il cane corse fino alle sedia, si fermò, si sedette e guardò la mano di Maria. «No Divo, non così, devi saltare», disse Maria, «dai, salta!». Divo la fissò con l’occhio macchiato, mentre con l’altro guardava i fratelli. Scodinzolò un paio di volte e si sdraiò. «Vado a prendere qualcosa da mangiare», disse Matteo. Uscì, andò in cucina e tornò con una fetta di prosciutto. «Provo io», disse.
«No, io», disse Maria.
«Ma io ho preso il prosciutto».
«Ma l’idea è mia».
«Dai Divo», disse Maria, tenendo il braccio teso in alto con la fetta di prosciutto. Il cane saltò, cadde, risaltò fino a sfiorarla, la osservò bene, di colpo fece un balzo e se la infilò in bocca. Prima di ricadere a terra l’aveva già inghiottita. «Accidenti!», esclamò Luca, «vado a prendere ancora un po’ di prosciutto». Ritentarono l’esperimento diverse volte. Divo saltava più di un metro da terra, ma senza salto mortale. Erano ormai quasi decisi a rinunciare all’esibizione, quando Matteo ebbe un’altra idea. «Secondo me», disse, «dovremmo fare così: tenere la fetta di prosciutto sollevata, poi quando lui sta per raggiungerla, spostare il braccio…», e intanto mimò la sua azione, «velocemente verso il basso, facendo una curva, così lui segue la curva e fa il salto mortale. Proviamo». «Abbiamo ancora tre fette di prosciutto», disse Luca che, dopo essere corso in cucina diverse volte, aveva portato direttamente tutto il cartoccio. «Adesso però provo io», disse Matteo.
Maria scese dalla sedia e fece salire il fratello. Divo saltò, Matteo roteò la mano con la fetta di prosciutto, il cane si girò a pancia all’aria, fece una capriola su se stesso, prese la fetta e ricadde a terra. «L’ha fatto, l’ha fatto!», gridarono i tre fratelli, «ha fatto il salto mortale!». «Riproviamo, riproviamo», disse Matteo esultante, «datemi un’altra fetta». Luca gliela passò. Divo saltò, la scena si ripeté perfettamente uguale. «Ancora, ancora», gridò Matteo, sempre più eccitato. Luca si stava quasi strozzando mentre cercava di inghiottire a tutta velocità l’ultima fetta di prosciutto. «Stronzo!», gli gridò Matteo, saltò giù dalla sedia e gli si avventò addosso. Si rotolarono per terra, Divo saltellava intorno abbaiando. I due fratelli erano avvinghiati sul pavimento, un ammasso di pantaloni al ginocchio e maglioni da cui ogni tanto schizzava fuori un braccio o una gamba, che raramente riuscivano a colpire l’altro. Il più delle volte il colpo finiva nell’aria o contro il muro, contro il tavolo o contro Divo, che scappava via mugolando a coda bassa. La rissa sarebbe andata avanti ancora a lungo se all’improvviso non fosse entrata la madre. «Smettetela voi due», disse, «che cosa succede?». «Niente, niente», risposero insieme i due fratelli, alzandosi velocemente. La madre stava per chiedere informazioni più precise, quando arrivò in soccorso Divo, che le si piazzò davanti scodinzolando. La madre sorrise e se ne andò. Per una decina di giorni, tornati da scuola, subito dopo pranzo, i tre fratelli si rinchiudevano con Divo in camera di Maria. Per insegnargli il salto mortale passarono dal prosciutto a cibi meno raffinati: usarono croste di formaggio, pelle di pollo al forno, avanzi di pastasciutta, di cui era ghiottissimo. L’esercizio ormai riusciva sempre. Non dovevano nemmeno più salire sulla sedia, bastava che alzassero il braccio e Divo saltava. Erano tutti e tre alti per la loro età e il cane non riusciva ad arrivare comunque alla mano tesa in alto. «Non possiamo però continuare così», disse Matteo un pomeriggio. «Finché gli diamo cose che gli piacciono farà sempre il salto mortale. Deve imparare a farlo senza niente». Decisero allora di usare un procedimento a scalare, offrendogli cose che pensavano gli piacessero meno o per niente. Divo saltò con spicchi di arancia, pezzi di pane secco, bucce di mela, foglie d’insalata. Tutto sembrava andargli bene: si leccava sempre i baffi come se avesse appena inghiottito un pezzo di bistecca alla brace. «Oggi», disse un giorno Maria ai fratelli, «si prova senza niente». «Divo», chiamò con il braccio alzato come al solito, ma senza nulla in mano.
Il cane la guardò perplesso, guardò Luca e Matteo e non si mosse. «Divo», chiamò di nuovo.
Il cane scodinzolò e rimase immobile.
«Divo», chiamò Maria per la terza volta, spazientita. Il cane le si avvicinò a culo basso, atteggiamento tipico di quando veniva sgridato o di quando aveva combinato qualcosa di cui nessuno si era accorto. Bastava vederlo arrivare strisciando il sedere per terra per sapere con certezza che, girando per casa, si sarebbe trovato qualche danno. Era un cane onesto. Maria fece schioccare le dita. Divo le saltò con le zampe alle ginocchia, poi si accucciò ai suoi piedi. «Stronzo», gli gridò Matteo, che da qualche tempo usava spesso questa parolaccia. Una volta se l’era fatta scappare davanti ai genitori e per castigo era stato mandato a mangiare in cucina, punizione che in realtà a lui piaceva molto. Non doveva sottostare al supplizio del «si porta il cucchiaio alla bocca e non la bocca al cucchiaio», del «ci si pulisce le labbra con il tovagliolo prima di bere», del continuo controllo di quanti centimetri i gomiti si staccassero dal corpo. In più, rimediava dalla Gina i bocconi migliori prima che venissero portati a tavola. C’erano periodi in cui a tavola si respirava una certa tensione, soprattutto quando il papà era nervoso per motivi suoi o per qualche brutto voto o una nota in condotta di uno dei figli. Allora i tre fratelli cercavano di comportarsi nel peggior modo possibile, per finire tutti in castigo in cucina. Lì potevano finalmente dare libero sfogo a turpitudini d’ogni tipo: mangiare con le mani, lasciare grandi stampate di salsa di pomodoro sul bicchiere, persino ruttare. La Gina guardava e rideva di gusto, interrompendosi solo ogni tanto con un «Ragazzi, ragazzi!». «Sei uno stronzo», disse di nuovo Matteo, «salti solo per mangiare». «E adesso come facciamo?», si preoccupò Luca. «Facciamo così», propose Maria, «portiamo qui il prosciutto, glielo facciamo vedere, ma non glielo diamo. Lo teniamo come premio per dopo che ha fatto il salto, magari capisce». Maria si rimise in posizione, fece schioccare le dita, ma Divo non si mosse. Ripeté il gesto una volta, due, tre. Niente. Il cane continuava a guardare il prosciutto su un ripiano in alto della libreria. «Lo vuoi? Allora salta, stronzo», gli disse Matteo. Il cane fece scivolare rapidamente l’occhio macchiato da Matteo al prosciutto alla mano di Maria. Poi all’improvviso, da fermo, saltò per aria, fece il salto mortale e ricadde a terra a quattro zampe. Girò su se stesso e guardò a turno i tre fratelli. «Cazzo!», esclamò Luca.
Per un attimo Maria e Matteo guardarono più allibiti lui che il cane. «Ce l’ha fatta, ce l’ha fatta», gridarono poi tutti e tre insieme. «Adesso te lo meriti proprio», disse Maria, avvicinandosi alla libreria, dove Divo era già corso in attesa del premio. Riprovarono diverse volte. E ancora per diversi giorni. Ormai per il cane il salto mortale era diventato un gioco. Molto spesso, senza che nessuno glielo chiedesse, saltava per aria e si rigirava. Gli piaceva molto farlo anche per strada. Non appena gli si avvicinava un suo consimile, bastardo o di razza, piccolo come un barboncino nano o enorme come un San Bernardo, Divo lo scrutava ben bene e poi saltava. Quelli si mettevano ad abbaiare o scappavano, ma nella maggior parte dei casi si accucciavano scodinzolando. Una delle clausole che aveva permesso l’ingresso di Divo in famiglia prevedeva che Maria, Luca e Matteo lo portassero a fare una passeggiata dopo pranzo. Al mattino ci avrebbe pensato la Gina, quando andava a fare la spesa. Un pomeriggio la madre si offrì di portarlo fuori al posto loro, perché doveva uscire a comprare qualcosa non lontano da casa. Ci fu una sollevazione dei figli di cui si stupì non poco, ma il segreto non doveva essere scoperto. Anche se ormai, nel vicinato, il cane che faceva il salto mortale era diventato famoso. Lo conosceva il macellaio, che gli regalava sempre qualche scarto di carne. Lo conoscevano l’edicolante, il panettiere, ma soprattutto la portinaia: ogni volta che i tre fratelli passavano con Divo davanti alla sua guardiola, gli faceva fare un piccolo spettacolo. Un giorno ci mancò poco che la madre non scoprisse tutto. I tre fratelli stavano uscendo con lei per andare a trovare la bisnonna. Divo era rimasto a casa. Appena fuori dall’ascensore si trovarono davanti la portinaia. «Il grande attore oggi lo lasciate a casa?», chiese. «Quale attore?», domandò la madre.
«Ma Divo, naturalmente», rispose la portinaia. Per fortuna erano in ritardo, la madre commentò con un laconico «Sì, certo» e proseguì veloce, seguita dai figli che si guardarono tirando un sospiro di sollievo. Venne il gran giorno. I preparativi erano stati curati con molta attenzione. I tre fratelli avrebbero detto che andavano a studiare da qualche compagno che abitava vicino a casa loro. Per Maria e Luca non era un problema, lo avevano già fatto altre volte. Ma Matteo, di tre anni più piccolo di Maria e due di Luca, non era mai andato da nessuno. Inventarono allora una storia. Matteo aveva un compagno molto povero che andava male a scuola e gli aveva chiesto se poteva aiutarlo a fare i compiti. Non poteva venire lui a casa loro, perché doveva badare ai fratelli più piccoli mentre la madre faceva le pulizie in un ufficio. Il padre era morto. Essendo molto povero, non aveva il telefono, tremendo mezzo di controllo, bocca della verità attraverso la quale scoprire anche le bugie più raffinate. Commossa da una così triste storia, la madre si era subito offerta di accompagnare Matteo dall’amico «anche per conoscere la situazione, forse hanno bisogno di aiuto», disse. «È inutile, mamma», disse Maria, «Piero sta vicinissimo ad Adele, la mia compagna, lo posso accompagnare io». La mamma credette alla bugia.
I tre fratelli discussero a lungo se fare lo spettacolo alla stazione o in piazza del Duomo. Alla fine vinse piazza del Duomo, sostenuta soprattutto da Matteo, contrario alla stazione perché bisognava andarci con il tram e «perché lì la gente passa troppo veloce». Alla fine di innumerevoli «questo io non lo faccio», «questo tocca a te», «non ci penso nemmeno», conclusi generalmente da un «allora io non vengo» o, peggio, da un «allora io lo dico alla mamma», il piano stabilito era: Maria avrebbe fatto fare il salto mortale a Divo, Luca, come avevano visto in un film, avrebbe girato in tondo cercando di attirare la gente dicendo «Venite, venite a vedere il cane acrobata», e Matteo alla fine sarebbe andato in giro con un cappello a chiedere i soldi. Era il pomeriggio di un freddo giorno di dicembre: la Milano del boom economico riluceva di festoni e stelle. Anche se i tre fratelli non avessero conosciuto la strada che portava al Duomo, l’avrebbero trovata seguendo l’aumentare delle comete e dei cristalli di neve illuminati. Camminarono fino alla grande piazza senza dirsi una parola. Era piena di gente. Un altissimo albero di Natale, nel mezzo del selciato di fronte alla chiesa, era adornato con uno striscione d’argento che invitava a essere più buoni. A un banchetto con la scritta «Dame di san Vincenzo», alcune eleganti signore chiedevano soldi per i poveri. «Ma se sei povero e non puoi dargli niente, allora sei anche cattivo?», chiese Matteo. Domanda impegnativa, cui Maria e Luca non risposero e si misero invece a cercare il posto migliore per fare lo spettacolo. Girarono a lungo, con Divo sempre al guinzaglio, stordito da tutta quella gente e quella confusione. «Non capisce più niente», si demoralizzò Luca, «non riuscirà, vedrete». «Torniamo un altro giorno», disse Matteo.
«No», disse Maria, «poi non facciamo in tempo a raccogliere i soldi per il regalo. Guardate, davanti alle scalinate c’è un po’ di posto, mettiamoci lì». Andarono al luogo indicato dalla sorella e slegarono Divo. Il cane si guardò attorno, corse tre metri più in là, poi si accucciò ai piedi di Maria. «Dai», disse Maria a Luca, «comincia a chiamare la gente». Luca non si mosse e non disse una parola.
«Se non lo fai», si arrabbiò Maria, «i soldi ce li teniamo io e Matteo». «Muoviti», gli disse Matteo, spingendolo verso la gente che passava. «Facciamo che tu chiami la gente e io chiedo i soldi», propose Luca. «No, io sono il più piccolo, è sempre il più piccolo che chiede i soldi», disse Matteo, tenendo ben stretto tra le mani un cappello, a dire la verità un cappellino di cotone da neonato che avevano trovato tra i vestiti dell’estate alla fine di lunghe e segrete ricerche. Con le orecchie a sventola sempre più rosse per l’imbarazzo, Luca cominciò a girare in tondo, senza allontanarsi troppo dai fratelli e dal cane, bisbigliando qualcosa d’incomprensibile. «Parla più forte», gli urlarono, «così non ti sente nessuno». «E allora voi non state lì fermi, cominciate a fare qualcosa», disse Luca. Maria chiamò il cane. Fece schioccare le dita. Niente. Lo fece di nuovo. Niente, Divo non si muoveva di un centimetro. «Torniamo un altro giorno», implorò Luca.
«Proviamo ancora», disse Maria.
Schioccò di nuovo le dita, Divo si alzò sulle zampe. «Dai Divo, salta che poi ti diamo il prosciutto», lo supplicò Luca. Il cane guardò i tre fratelli, corse su per le scale del sagrato, si girò, scese di corsa fino ai piedi di Maria e saltò. «Bravo!», gridarono i tre fratelli insieme, guardandosi poi un po’ imbarazzati intorno. Diedero una fetta di prosciutto a Divo, che iniziò a fare un salto mortale dopo l’altro. I passanti cominciarono a raccogliersi intorno ai tre fratelli. Li guardavano incuriositi, chissà che cosa ci facevano quei ragazzini lì in piazza con quello strano cane saltimbanco. Fosse per la curiosità per il cane o per Maria con il suo cappottino blu che faceva schioccare le dita, per Luca che continuava a dare fette di prosciutto all’animale o per Matteo che teneva il cappellino stretto in mano, fatto sta che una folla sempre più numerosa cominciò a radunarsi intorno a loro. Matteo, imbaldanzito, si mise a girare tra la gente a raccogliere soldi. Ogni volta che nel cappellino cascava una moneta, si girava con un sorriso di soddisfazione verso i fratelli. «Forse sono dei boyscout», disse una dama di san Vincenzo che si era allontanata dal suo banchetto per vederli più da vicino. «State facendo una raccolta per i poveri?», chiese a Matteo un signore con un cappotto grigio, facendo cadere cinquecento lire nel cappello. «Come?», domandò Matteo guardando strabiliato i fratelli per la generosità dell’uomo. «Per i poveri? No… no, per la nostra mamma», rispose. «Per la vostra mamma?», si stupì la dama di san Vincenzo. «Sì, è molto malata, è in ospedale», disse Matteo serissimo, «vogliamo farle una sorpresa, pagarle il viaggio per andare a Lourdes». Incuriosite, altre persone si avvicinarono. «Ma, e vostro padre?», chiese il signore con il cappotto grigio. Matteo lanciò uno sguardo ai fratelli in cerca di soccorso. «Nostro padre», disse Luca avvicinandosi, «è morto». Il gruppo di curiosi si stava facendo pericolosamente folto e desideroso di altri particolari. Maria mise Divo al guinzaglio e si avvicinò ai fratelli. Numerosi pezzi da cinquecento e da mille lire cascavano nel cappellino, senza che Divo facesse più niente. Ormai la gente voleva solo sapere. Una perfetta storia natalizia. «Con chi vivete allora?», chiese la dama di san Vincenzo. «Con la signorina Rottermeier», rispose sicura Maria. «Rottermeier, Rottermeier, ho già sentito questo nome», intervenne una donna con una cuffietta di lana e gli occhiali. «Rottermeier, Rottermeier», continuò a bisbigliare tra sé. «È quella di Heidi», esclamò Matteo, beccandosi un’occhiataccia dai fratelli. «Heidi, chi è Heidi?», chiese la dama di san Vincenzo. «Nostra cugina», spiegò Luca, «noi siamo un po’ austriaci». «Come vi chiamate di cognome?», chiese un’elegante signora con i capelli grigi e il bastone. «Strauss», esclamò Luca, che, convinto di essere la reincarnazione di un antenato ufficiale degli ussari, girava spesso per casa ballando sulle note di qualche valzer di Johann padre o figlio. «Dobbiamo andare adesso», disse Maria, «è tardi». «Grazie, signori», disse Luca con un inchino. La dama di san Vincenzo accarezzò affettuosamente la testa a Matteo. Con Divo al guinzaglio attraversarono quasi correndo la Galleria, senza mai guardarsi in faccia e senza dire una parola. Arrivati in piazza della Scala, si fermarono e scoppiarono in una grande risata. Non comprarono la fisarmonica, i soldi non bastavano. Per una settimana andarono tutti i pomeriggi alle Tre Marie e si rimpinzarono di cannoncini alla crema. A Natale, alla madre regalarono un libro.
Racconto tratto dalla raccolta C'erano anche i cani, Jacabooks, Milano, 2013. Francesca Caminoli (Lecco, 1948), giornalista, vive a Lucca. Ha pubblicato con Jaca Book Il giorno di Bajram, 1999, La neve di Ahmed, 2003, Viaggio in requiem, 2010 e La guerra di Boubacar, 2011.
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