HARLEM BLUES DELLE STRADE Fotografia di una città nella città Reginaldo Cerolini INCIPIT
“I have the people behind me and the people are my strength” (Vicino a me ho delle persone e le persone sono la mia forza) Huey P. Newton – Sono le 19.30 Pm ( 1.30 italiana). Dalla finestra della stanza dove alloggio, al sesto piano, un riverbero luminoso viene dalle colline della Cattedrale Saint John the Divine. Si apre un candore di nubi sfilacciate – ricordano le pennellate di Cezanne e certi furori candidi di un’antichissima Parigi -, sporgono dalle cime verdeggianti del lungo parco di Morningside gli edifici imponenti della Columbia University. Maggio si sente nelle narici. Sotto casa mia, è un inizio di serata incredibilmente silenzioso, nei limiti del silenzio della grande mela. Potrei salire sul tetto aperto alla città, come un desiderio audace e voluttuoso, per guardare in tutte le direzioni la New York che riesce a contenere il mio sguardo, sapendo che dopo tutto, a parte il cielo, non supererebbe la vasta planimetria di Harlem. Ma forse può bastare questo quadro vivo, nostalgico e fottutamente urbano perché in fondo, oggi, non parla che di Harlem. Cammino lungo la 125 – L’unica fra tutte le celebri vie dei quartieri di New York ad essere entrata a far parte delle vie della storia americana -. Di solito quando si rappresenta l’America – siano romanzi, o film - lo si fa spesso da una prospettiva di un mezzo in movimento, in genere una macchina, una moto, un elicottero, o di una barca. Io cammino. Buttato su un mondo che in parte conosco e in parte mi è del tutto nuovo attraverso Harlem. Lo stupore, insieme all’euforia e ad una serenità del ventre che ritma i passi, è costante. Tutto è voluttuoso e quasi indescrivibile. Harlem sembra aver riassunto vistosamente in sé gli aspetti del mondo che non ha mai contato . E’ una sintesi dell’Africa, del sud’America e della negritudine tutta americana in una versione randagiamente urbana. Una via è specchio di tante vite che passano, ciondolando, oppure siedono su gradinate. Scorre da per tutto il flusso delle persone, arrivano a gruppi, soli, in coppia. Diversi appoggiano i fianchi su grosse macchine mentre chi continua a camminare, verso qualsiasi direzione, ondeggia un passo felino e ondulato come gobbe di dromedario. Volti di una nerezza profonda oppure delicata e accennata, volti di sguardi di un nero voluttuoso e intenso che batte sul petto come un tamburo, arrivano da tutte le parti. Fisicità, sottili come fili d’erba o possenti come tronchi d’albero - spesso altissime -, si muovono per le strade di cemento nella foggia più varia del vestiario. I più giovani con strati di pantaloni su pantaloni che si fermano alla linea del culo, vistosa e sottolineata come una poetica sensuale di un perturbante erotismo – negro – mai sopito e di una fisicità asciutta o vibrante che grida, in qualche modo la vita. Non ricordano per nulla la moda Emo dell’adolescenza europea che ha esteso la poetica – sensuale ma languida - della vita bassa. Ovviamente la dialettica del culo fuori – per chi se lo ricorda - si rifà allo Sagging, e alla detenzione degli schiavi nelle carceri; più probabilmente alla moda tracotante dei rappers dalla braga lunga e dai muscoli rigorosamente in vista. Strana forma di vitalità, perché di giorno gli stessi adolescenti vanno rigorosamente con i vestiti azzimati da college che sembrano, del tutto, stridere con gli atteggiamenti del tempo libero. Sputano in terra tutti ad Harlem.
Più sereni e spontanei appaiono i bambini sotto i dodici anni, che si muovono con le lunghe magliette – rigorosamente nere con scritte bianche-, correndo tra le immancabili impalcature blu di edifici costantemente da rifinire e restaurare, a prendere trepidanti un dolce in un negozietto, un cono dai gelatai ambulanti con quattro gusti. Gli stessi bambini si muovono in skate- sia quelli classici che quelli modernissimi, in cui basta ondeggiare i fianchi con i due piedi sulla tavola – e in bicicletta, calmi oppure velocissimo. Gli stessi oggetti, dunque, con cui i loro coetanei e fratelli più grandi si creano un’identità nella città, facendo evoluzioni prodigiose in strade non proprio libere da macchine, sotto la protezione della musica che fiotta da qualche amplificatore sulla strada. E non mancano le palle da basket che ovviamente non hanno distinzioni d’età, come non mancano i campi da basket e i parchi giochi, sempre gremiti e vivi. Stupisce in questi campi, con ragazzini e adulti che sputano ritmicamente in terra, si toccano costantemente il pacco, il senso di rispetto per il turno, l’attesa senza lamentazione del proprio momento di gioco e la fusione indiscriminata di sesso, e età per una partita improvvisata. C’è sempre un coro di persone sulle gradinate, o basta la voce di un semplice passante, a sottolineare la particolarità di un’azione, la sua comicità e allora si sentono le risa esplodere improvvise. Ad Harlem la controparte della maschiezza è fatta da donne altere, con forme giunoniche e botticelliane in pelle negra. Sfilano ondeggiando con leggings attillatissimi, con seni prorompenti, e magliette generose sulla vista bruna delle loro colline. Hanno capelli da tagli improbabili, che sfidano ogni autoproclamata idea di gusto, colore e forma creando una poetica dell’acconciatura che da ragione di tanta proliferante esistenza di parrucchieri ogni dieci metri, con file di parrucchieri che ti aspettano all’angolo delle vie, con parlate affilate, veloci, quando mettendoti il bigliettino sulla mano ti ricordano che è venuto il tempo di dare un “cut” alla monotonia sospetta dei tuoi capelli. Gli stessi parrucchieri che assieme alle strade, ai gradini, ai campi da basket, ai giardini miseri e alle pur immancabili chiese evangeliche, raccolgono il grosso della vita sociale, debordante, in vena di chiacchiere, discussioni e teatralizzazioni di fatti del giorno. Queste donne dai capelli leopardati, dalle treccine lunghissime, dai colori fuxia e giallo canarino, dai capelli lisci come Beyoncé, Rihanna, Niki Minaj, e Mariah Carey - bruni, neri oppure color di prugna -, agli angoli delle strade sfidano la voce degli uomini con movimenti del corpo giunonici e imperiosi. Immancabile l’accento delle falangi, più spesso l’indice, verso una direzione – mirino e giudizio- mentre i toni sincopati dell’americano – slang – con “DD’U WANA NOW!!?”, “MEEM, LET ME TALL ‘U!”, si contrappongono e contorcono – ai toni alti come stormi in volo degli uomini. Intanto tutti, gli uomini, ridacchiano di qualcosa, ripresentando così come sembra essere stata la scena o l’uscita infelice di qualcuno con mimiche del corpo sagaci, basse, con trilli della voce che sembrano non coincidere con la presenza dei larghi corpi. Fa confidenza. E ci sono tutt’intorno pacche, risate basse, bit profondissimi e –ancora- risate impetuose che scuotono le strada mentre, uno sguardo improvviso a trenta , venti metri di distanza riconosce, nella folla di persone, un conoscente, un amico. Ci sono anche altre fogge e altri vestiti. Ci sono i vestiti dei religiosi islamici, bianchi, con fasce nere al capo come fossero eroici combattenti dei manga, ci sono le donne velate in modo vario, ci sono i capelli grondanti e ricci delle bambine, come una selva aperta, ci sono gli abiti sgargianti dei più anziani con scarpe lucide, bianchi accecanti, gialli smaglianti, e costantemente fuxia, ci sono i giacchetti delle signore di mezz’età sbracciati e aperti su magliette nere, ci sono le unghie laccate, le sopraciglia giganti, le mani anziane dei vecchi, ci sono le seggiole a rotelle con cui si muovono, fanno la spesa i più malandati e stoici del quartiere – sempre fermi in un angolo a rintanarsi nell’ombra. Ci sono i discorsi apparentemente senza destinatario, quando vedi una signora che cammina e parla da solo, ma poi scopri a cinque metri alle sue spalle qualcuno che risponde e controbatte, per circa trenta secondi, un minuto e il dialogo acceso continua finché l’orecchio riesce a sostenere la distanza. Vedi le palle da basket comparire sempre, in cerca di qualche campo da basket, vedi un anziano sulla sedia, o un baracchino che non vende più di 15 giornali in tutto, chiacchierare con chi passa o gli si siede a fianco. Scopri che i vecchi, ognuno con le proprie abitudini, segnano il tempo del giorno lungo le vie e gli angoli e puoi sapere, con certezza, che ore sono a seconda del vecchio che incontri passando per Harlem. Puoi salutarli se vuoi, si apriranno come il sole, lo stesso sole che sembrano avere in qualche modo tramandato ai più giovani, anche se i più giovani te lo sussurrano in un sorriso improvviso, sfuggito al loro volto apparentemente chiuso, mentre vi incrociate sulle strada, accompagnato da un ‘ HOW U DD’N?!’ ‘W’Z UP MAAN?’, a cui non devi, ovviamente, rispondere niente se non ripetere semplicemente la domanda con urbana sollecitudine. E ci sono quelli che canticchiano in strada, immancabili rap, oppure parlano da soli in forma allegra, allucinati o terribilmente con furore come se le strade e persone non esistessero neppure. E ti domandi che cosa vedano e sentano. Passa un illuminato divino che a voce alta ti dice di credere, di credere in Dio perché la tua anima ha bisogno di sollevarsi , ti stringe la mano con occhio ieratico , ti rifila un foglietto con una preghiera, e mentre sei andato via da più di dieci passi senti la sua voce che rimbomba ancora quasi fosse Dio a parlarti dalla cavità dell’anima. Oppure ci sono più calme le signore delle chiese, che ti aspettano sedute sulle panchine - le più eleganti e sobrie di tutto il quartiere, che profumano di ginestre- che ti chiedono di dove sei, dopo un commento sul tempo, e poi ti chiedono con una gentilezza che sa di torta di mele, se possono darti un foglietto. Ad Harlem ci sono le macchine che ti fanno quasi vergognare di andare a piedi, ci sono le macchine che non parlano per nulla di povertà, ma di tracotanza uniformante distinta, appena dai grossi suoni che le macchine si scambiano e dalla musica imprescindibile. Sembra che Michael Jackson e Whitney Houston, fra queste strade siano vivi. Queste macchine sfrecciano in strada, raramente in Harlem suonano impazienti, oppure si fermano vicino a chioschi e persone. A volte hanno al loro interno una donna che cullata dal ritmo di una voce suadente della radio alta, si controlla il trucco o le unghie quasi annoiata e – la sconfessi tu- terribilmente felice nel suo mondo fatto di consuetudine. Le stesse macchine bombate e grigio scure, con musica tuonante e finestrino aperto, possono anche non avere dentro nessuno. In Harlem non si vedono limousine. E’ vero che Harlem è nera – è ancora sensibilmente nera- ma c’è una negritudine piuttosto varia, fatta di negri locali e negri d’africa. Una negritudine tanto varia, per provenienza, naturalizzazione e fede che esiste già in Harlem una Little Harlem Nigeriana, ma è percepibile anche un Harlem nord’africana, senza titolo ma esistente (con un picco vistoso di etiopi e eritrei). Ma ad Harlem ci sono anche gli ispanici, la famosa Spanish Harlem è la controparte del quartiere, così fortemente radicata e unitaria da sembrare più che un coro di persone una voce sola. Per certe vie senti parlare più spagnolo che americano, e l’americano è giustamente sporcato dallo slang. Così a Spanish Harlem, può capitare di vedere una signora grossoccia e rilassata che parla con un amica di quello che ha intenzione di cucinare, anche se non è buono com’è alla “Tierra, claro”. Qui si respira un’aria di miseria estetica che un tempo doveva appartenere a tutta Harlem; i giardini curati dai locali, confusi fra azzardate erbacce, hanno un atmosfera di penuria che sembra voler comunicare una malinconia inafferrabile sotto la forza della resistenza. E basta un raggio di sole, una rete arrugginita in quel riflesso e il tocco secco del mezzogiorno perché questi piccoli idilli ricordino la miseria umana. A Spanish Harlem incappi in una partita di baseball su una strada trasversale, due campi di gioco con giocatori che vanno dai 15 ai sessant’anni, una folla attorno, una mazza che sembra il manico di una scopa e parolacce e grida di gioia da tutte le parti. Qui però – senza i giocatori - le vie larghe, talvolta sono sovrastate dai silenzi, e le voci ispaniche miste allo slang delle strade, si muovono come il vento tra alberi cavi, e invece di alberi ci sono case, a quattro piani, oppure i palazzoni, edilizia degli anni ottanta e novanta, marroncina, a tradire nelle lise facciate, perfino decorose, il grigio e il rosso malinconico dei mattoni. E ti chiedi come sotto la linea due, o di fianco ad una avenue chiassosa, possano davvero costare un patrimonio dimore tanto scure e fatiscenti. Certo c’è la vita delle strade, c’è un’allegria selvaggia e confusa tipicamente sudamericana che sembra essere un balsamo su qualsiasi bruttura come la dolce canzone “Spanish Harlem” di Ben E. King e però ti viene il dubbio che non basti, a coltivare l’ideale. Pensi allora “Annie Hall” di Allen – anche se era Brooklyn -, al suo racconto della sua infanzia sotto la linea del treno, con la caotica famiglia di tradizione ebraica, e forse sorridi perché, può darsi che anche per qualcuno di Harlem ci sia un futuro che non sia rappare, giocare a palla canestro, saper tirare i pugni, o essere un ottimo lanciatore di baseball . Ti soffermi a guardare due bambini che giocano furentemente tirando con la palla calci sul muro , in un vicolo dove fluisce il mondo intero, in un cicaleccio che è pura orazione, e quando gli va in alto sul muretto,senza punto esitare si fissano sulla saracinesca chiusa di un locale e scalano i due metri prima di cadere in terra. Passano lì di fianco tre ragazzini nerissimi, ognuno con la palla da basket; il più sorridente canzonandoli con un colpo secco, della sua palla fa cadere la palla dei due bambini. E il treno sfreccia quasi non volesse confondere i gesti con le emozioni. Vedi i baracchini di frutta, su tutta Harlem, della frutta immangiabile, altra sorprendete e scopri che le mele sono perfette, così come l’uva, ma che l’insalata non vale niente e i piccoli avocado sono quasi inconsistenti. Poi dal lato di Spanish Harlem, il quartiere inizia a salire da quella parte, a diventare ondulata e signorili a sbiancarsi. Compaiono i mille cani della città al guinzaglio, e un’aria di eleganza. Sta per cominciare l’Upper East side. Giri a destra più o meno tra la 116 e la 110, tiri dritto fra i quartieri e un po’ ti riconosci e un po’ respiri qualcosa di diverso. Ogni tanto giri verso sinistra, verso le vie basse, tocchi la 110. Non puoi che fermarti davanti alla statua di Duke Ellington che stranamente non guarda Centra Park ma un grosso, orribile caseggiato alt più di 20 piani. Se tiri dritto sai che incontrerai la statua di Frederick Duglass, e ti accorgi all’improvviso che tutta Harlem è fatta di storie, che i nomi delle vie sono nomi di uomini importanti, prima che di negri, e devi sfidare la planimetria metropolitana a dispetto della memoria degli anziani, quando chiedi le strade, di indicare i numeri delle Avenue non se ne parla per nemmeno “DDan ‘”. E allora ti viene in mente l’Harlem antica col suo aspetto rurale, l’Harlem delle battaglie rivoluzionarie, del Rinascimento di Harlem ovviamente, coinciso stranamente con il momento di maggiore depressione civile, le vite di persone rimaste per sempre nella storia McKay, Garvey, Locke, Du Bois, Baldwin, Douglass, Walker, Hurston, e pensi al mitico Apollo e alle sue rinascite, agli esordi di Ella Fitzgerald, Billie Hollidey alla promiscuità delle strade (non esistono vicoli in quasi tutta New York), alle Grande Depressione, fine di un sogno, alle rivendicazioni civili, di genere, e sociali. Alle mitiche rivendicazioni degli anni sessanta alla rabbia dei giusti sull’ignoranza di chi comanda e pensi a Malcom e King, al dramma del crack e della delinquenza a fine anni settanta e anni ottanta, alla costante voglia di rinascita. Capisci che nulla di tutto questa volontà di vivere è finito e morto, anche se appare un po’ retorico e blasonato nella voce, nei gesti dei rappars. Questa volontà resiste fresca nelle associazioni di aiuto e sostegno alle famiglie, nel mito Ymca della via 135 e alla sue innumerevoli attività anche per stranieri, nei giardini autogestiti e aperti alla comunità - piccoli, stentati- che allargano il cuore. Ma ci sono anche modi più ufficiali per non dimenticare, come le biblioteche, le feste sociali per i più vari motivi, il giornale quotidiano di quartiere Harlem News “Good News You Can Use”, il redivivo Apollo, il volto di Obama in ogni luogo, la commemorazione della liberà dell’ Africa, lo Studio Museum. Harlem è tutta attorno a te, in perenne ricostruzione, ma con un ritmo diverso, più lento del centro della città, meno volubile. Più gritty probabilmente e rossastra come un tramonto senza fine . Prosegui.
Com’è che ad Harlem a differenza della Midtown e altri quartieri di New York, mancano quasi del tutto i senza fissa dimora, e bisogna scendere fino alle linee opposte dell’East River e Hudson River per vederne un gruppetto spicciolato, accoccolarsi, con le coperte nella magnificenza commovente di un giardino sul lungo fiume, chiederti una sigaretta più che un dollaro e scambiare qualche chiacchiera, su tutto e niente? Ad Harlem il passato delle casette in arenaria commuove in primavera, con i sui gigli sboccianti e le tre tinte concesse in quasi tutta New York – il bianco, il rosa e il fuxia- fa ricordare i Robinson ma anche una certa gentrificazione della working class sia negra che di tutti gli altri colori, incominciata da neanche un ventennio. E camminando per queste vie si respira una pace commovente, la stessa pace che forse provavano i negri, ex-schiavi, inserendosi nella vita agro-urbana e strenuamente inseriti nella bianca libertà. C’è un momento di silenzio in queste case addossate le une sulle altre, con i tipici colori rossi, i bei gradoni che fanno voglia di parlare e ciondolare appunto. Ma c’è anche l’Harlem dei molti bianchi, dei pakistani, indiani, e qualche –più raro – orientale che, dai palazzi nuovi e luccicanti – raramente troppo alti - si affacciano a questa realtà, non più temibile, come gli anni della depressione e i cupi anni settanta e ottanta del crack e della delinquenza disperata. Qualcuno dice che dipende dalla scelta di Clinton di aver messo un suo ufficio proprio li, è più probabile come suggerisce la saggia ricercatrice Sharon Zukin che logiche economiche, di imprenditori edili, e grandi gruppi finanziari abbiano deciso, insieme ai media, di cambiare aspetto ad un posto che potenzialmente ricco di consumatori – ben 500. 000 la sola Harlem - non dava più frutti al mercato. E ha un bel dire il reverendo Mannin, dal pulpito del ATLAH World Missionary Church on Lenox Avenue , di boicottare l’atmosfera nuova e certamente, anche, imbellettata del commercio. Il commercio che certo da dignità, ma come una livella rende pari. Il risultato è un’atmosfera elegante, squisitamente urbana, ma stridente e inquietante senza che se ne sappia il perché. Come se Harlem, economicamente, non fosse quasi più alla portata della sua ‘antica’ gente, perché i nuovi abitanti hanno abitudine e esigenze del ceto medio di tutto il mondo. Ovvio, senza alcuna distinzione di colore. E vorresti partire con un canto, tipicamente sociologico della dispersione d’identità, ma francamente te lo risparmi e continui semplicemente a camminare. Poi all’improvviso capisci – o credi di capire – in un lampo tutto quel ondeggiare di passi, i pantaloni sotto il culo, gli sguardi apparentemente chiusi, gli sputi, le mani oscillanti, la voce alta, caustica, l’ardire espressivo delle donne, la musica che irrompe dalle strade, le risa tumultuose, la voce di Michael Jackson che segue a un ritmo anni settanta, prima che si senta chiaramente un basso elettronico con la voce di Lil Wayne. Capisci perché i vecchi stanno sempre al loro posto come sentinelle, perché i bambini corrono da una parte all’altra del quartiere spavaldi, perché i ragazzi con le palle da basket come un linguaggio morse ritmano il cemento, e perché accrocchi di ragazzini fanno acrobazie spavalde sulle vie più grandi, perché le inflessioni di spagnolo si uniscono allo slang delle strade, perché le macchine vuote continuano imperterrite a diffondere musica. Si tratta forse di un codice e di una tacita resistenza a qualcosa di invisibile. A qualcosa che da tempo immemore aleggia anche in Harlem come un vento algido dal centro e dal basso di Manhattan, e si è mangiato già una parte di Harlem dalle colline altere della Columbia. E questo spettro senza nome, guarda questa sorta di negritudine planetaria, meticcia imbastardita con occhi calmi e potenti. O forse semplicemente ti sbagli. CHIUSURA O APPENDICE DELLO SCRIVERE
Sono sul tetto, dal ventre della strada gorgheggiano alcune macchine un lamento continuo. E’notte adesso. Luci accese e simmetriche, bianche come colombe, tutt’intorno formano un infinito accrocco luminescente sulla simmetria cubica dei palazzi neri. Svettano uno ad uno, separati o vicini, orgogliosi – senza essere irriverenti - all’abbraccio del cielo. Mi chiedo se una città, come i campi, oceani , foreste e vette altissime possiede un’ animo. Se avendolo sia esso silenzioso. Se si vergogni del cemento, del troppo metallo, dell’abuso di finestre oppure, se fiero - come il ventre molle di questa parte di città - direttamente dalle strade salga straziante e randagio in alto, per spegnere ogni domanda con l’intensità del vivere. ___________________________
Bibliografia di riferimento. Devo questo panegirico su Harlem, all’ interesse di Julio Monteiro Martins e alla forza dei miei piedi di percorrere Harlem, e quasi tutta Manhattan, a piedi. La bibliografia è scarna “E più poté passione la dove, gloriose, fonti mute”. 1) “Famous black quotations” di Janet Cheatham Bell 2) “L’altra New York: alla ricerca della metropoli autentica” di Sharon Zukin 3) “http://en.wikipedia.org/wiki/History_of_Harlem” Reginaldo Cerolini, laureato nel 2008 in Antropologia Culturale e Etnologia è un libero ricercatore di Antropologia delle Religioni. Interessato allo Spiritismo brasiliano e ad alcuni aspetti del Buddismo contemporaneo (Tecniche di Meditazione e Vipassana), ha collaborato con la rivista Religioni e Società. Appassionato di letteratura internazionale e articolista d’occasione, qualche mese fa ha lasciato Bologna per vivere a New York.
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